LA REPUBBLICA del 17 aprile 2012 

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Come se chi egli fosse importasse, sì, ma non quanto importava partecipare collettivamente a un dolore. Già quando morì il giovanissimo centauro Simoncelli si poté misurare questa sorta di urgenza del cordoglio, e di fascino del lutto. È la televisione che coglie l’attimo della morte e lo segnala all’attenzione del mondo; ma è la rete capillare, infinita del web a moltiplicare, insieme alla notizia della morte, i sentimenti del dolore e della paura, formando una specie di smisurato funerale al tempo stesso puntiforme e mondiale. Se poi – come in questo caso – un paio di calciatori famosi (Totti e Ibrahimovic) affidano a Twitter le poche parole di sgomento che ognuno di noi pronuncia con gli amici, o in cuor suo, l’effetto è quello del detonatore. Ed ecco che a Madrid e a Barcellona, poche ore dopo, i calciatori delle due squadre più famose del mondo chinano il capo in memoria di un loro collega quasi sconosciuto, caduto su un prato di provincia della serie B italiana. Un’immagine, questa, che riassume tutti o quasi gli ingredienti che formano quel territorio immenso e controverso che è il web, la messa in rete del pianeta Terra: più uguaglianza ma anche più emotività, più velocità ma anche più casualità, e molti parametri consolidati che saltano come tappi, la Federcalcio italiana costretta quasi a furor di popolo a sospendere il campionato (ma ad altri caduti, in precedenza, si era reso omaggio giocando), tutti o quasi i media, anche quelli autorevoli, che declassano a seconda notizia del giorno la più imponente offensiva dei talebani a Kabul e mettono in primo piano, trascinati dal travolgente proliferare del lutto (nelle redazioni si sta molto sul web), la morte di Morosini. Come si è poi visto, alla commovente tragicità della morte dell’atleta (un archetipo classico, sono gli eroi che muoiono in battaglia) si è sommato il racconto di una vita segnata dalla sfortuna e dalla tempra morale. Morosini era, nella disgrazia, allegro e altruista: eroico anche in questo. Ma al netto di ciò che il ragazzo è stato, colpisce la dilagante, quasi incontrollabile potenza del lutto. In tempi di bolle finanziarie, la tentazione è di parlare di bolla emotiva. In una società ormai incapace di osservare, nella vita in carne e ossa, il tradizionale minuto di silenzio, e più in generale sempre meno adatta a fare propria la forma delle cerimonie, dei riti, di ogni genere di disciplina, evidentemente il bisogno di sentirsi comunità non solo non si spegne, ma è come se si gonfiasse, cercando altri sbocchi. Una morte mediatica come quella di un giovane atleta che stramazza in corsa, o cade riverso sull’asfalto, offre sbocco immediato, e potente, a un bisogno di compassione che sembra sfrattato dalla vita reale, e (comodamente) rifugiato in quella virtuale. Ognuno nella propria stanzetta, o in auto, oppure ovunque, può comunque sentirsi partecipe della Grande Cerimonia. I giocatori del Livorno, molto giustamente, hanno chiesto ai media di non replicare ulteriormente le immagini spietate della morte del loro povero amico. Di non specularci sopra. Ma ognuno di noi, in una certa misura, è ormai direttore responsabile di quella microcentrale di news che è se stesso. Fermare un campionato e spegnere il palmare (per un minuto, un’ora, un giorno) è, in scala, più o meno la stessa cosa: un modo simbolico di onorare, fermi e in silenzio, chi ci ha lasciati. Ma operativamente – si è visto – fermare un campionato è più facile che zittirsi, chiudere gli occhi, ingoiare le lacrime e pensare alla morte da soli. 

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