LA REPUBBLICA del 4 ottobre 2011 

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Le immagini dell´esercito di ragazzini fermati sul Ponte di Brooklyn fanno sussultare. Le facce imberbi, i capelli lunghi, perfino l´abbigliamento rimandano ai loro padri e madri, magari nonni, che occupavano i campus quasi mezzo secolo fa. Nei telegiornali il bianco e nero ha ceduto il passo al colore, ma il cortocircuito antropologico è così evidente da costringerci a domandarci se il tempo è davvero passato. È una sensazione sospesa tra il compiacimento (niente gratifica i genitori più che riconoscersi nei figli) e il malessere, perché la percezione di vivere un tempo bloccato, per noi occidentali, è sempre più frequente. E basta avere occhi e orecchie per capire che il potere contro il quale si mobilitano quei ragazzi è ancora più distante, ancora più escludente di quello che fu scosso dalle rivolte degli anni Sessanta. Ora c´è un presidente afroamericano, i costumi si sono molto liberalizzati, i diritti estesi: ma la struttura oligarchica dell´economia si è, se possibile, radicalizzata, e il sospetto che il destino di tutti sia determinato da pochissimi comitati d´affari è quasi una certezza. I concetti di giustizia e ingiustizia sono stati nel frattempo rivoltati, manipolati, ridefiniti molte e molte volte, ideologie sono morte, idee cambiate. Ma poiché è sempre l´ingiustizia a mettere le ali ai piedi ai cortei, dobbiamo dedurne che l´ingiustizia aveva perduto, molti anni fa, qualche battaglia, ma infine ha vinto la guerra. Si riparte daccapo, dunque. 

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