R2 Repubblica del 12 aprile 2012 

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Il discorso sull’omosessualità si è fatto, negli ultimi tempi, piuttosto acceso, rinfocolato anche da un lutto pubblico (quello per Lucio Dalla) che a qualcuno è parso reticente e ad altri, al contrario, strumentalmente distorto. I toni risentiti e le invettive si sono sprecati, e molti pregiudizi sono apparsi ancora intatti, come se la materia di cui si nutrono non si fosse consumata nel tempo. Come se il tempo – il tempo dell’evoluzione dei costumi, della politica e delle sue leggi, della storia sociale e civile del nostro paese – non avesse sciolto, tra i tanti, il nodo decisivo della convivenza tra identità e comportamenti sessuali differenti.
 
A confermare questa sensazione non ci sono solamente le battute miserevoli di politici di seconda fila sull’omosessualità come "malattia da guarire" (in altri paesi quelle battute costerebbero un dispregio imbarazzato; da noi valgono un invito nelle trasmissioni tivù e radio più in voga). E non c’è solo il sistematico boicottaggio clericale di quasi ogni riassetto legislativo in materia di coppie di fatto, diritti di convivenza, riconoscimento dell’aggravante omofoba nei tanti casi di aggressione "punitiva" contro persone gay. C’è anche la storia di un libro del 1991 che, a rileggerlo oggi, sembra scritto ieri mattina; e la cui vita editoriale, decisamente anomala, è l’indizio (ennesimo) di un tempo bloccato.
 
Il libro si chiama Ragazzi che amano ragazzi. Lo ha raccolto e steso vent’anni fa Piergiorgio Paterlini, giornalista e scrittore, raccogliendo le storie di adolescenti omosessuali di ogni parte d’Italia, e di ogni ceto sociale. Sia pure in modica quantità, è uno dei non tanti longseller dell’editoria nazionale: ha venduto ogni anno, per vent’anni, tra le duemila e le tremila copie, senza picchi e senza cadute, con una costanza impressionante, come se godesse di una sua vita autonoma. Autonoma perfino dal suo autore, che nel poscritto aggiunto alla riedizione di quest’anno (la tredicesima, Feltrinelli) più che del libro parla dei suoi lettori, una piccola comunità che in quelle storie di fine anni Ottanta, sorprendendo l’autore, ha continuato a trovare, per più di vent’anni, ragioni di rispecchiamento e probabilmente di sollievo.
 
Nella pur difforme sequenza di storie personali raccolte da Paterlini, il tratto unificante, il "comune sentire" è sempre uno e sempre quello: dirlo.
 
Trovare la forza di dirlo agli altri dopo averlo detto a se stessi. E il costante successo di Ragazzi che amano ragazzi – per così dire: la sua perdurante funzionalità – mette l’autore nelle condizioni di domandarsi se, dunque, niente è cambiato in meglio. Oggi che i ventenni del libro hanno quarant’anni e passa, altri adolescenti gay vivono la stessa faticosissima paura di "dirlo"; e manifestare un’identità omosessuale, o comportamenti omosessuali, sembra ugualmente difficile e doloroso nonostante l’apparenza sociale abbia aperto, anche vistosamente, finestre e addirittura vetrine sui costumi gay, sull’estetica gay nonché sui consumi gay.
 
Sostiene l’autore che all’epoca dell’uscita del libro si viveva nell’attesa (non irragionevole) che quello e altri tabù, nel divenire vorticoso della società, si sarebbero prima o poi infranti, o almeno indeboliti. E scoprire che, a distanza di una generazione, le lettere che riceve dai nuovi lettori del suo libro ne parlano ancora come di un’esperienza lacerante e liberatoria, gli fa dire, amaramente, che molto poco è cambiato, in Italia, sul terreno della tolleranza e dell’intelligenza sessuale. «Se ancora troppi ragazzi si riconoscono in queste storie di vent’anni fa, significa che qualcosa non va, che il poco o tanto che è cambiato non basta».
 
Il successo di un libro come segno dell’insuccesso di un processo di civilizzazione? Paterlini fa bene a ricordare ai suoi lettori di ieri e di oggi che i due grandi tabù con i quali si confrontano e si scontrano – quello sessuale e quello religioso – si misurano con i secoli, non con i decenni. Ma a noi interessa, se non altro per contingenza, sottolineare il clima evidentemente non sereno che ha fatto di Ragazzi, negli anni, non un normale libro di testimonianze, ma un approdo liberatorio (e rivelatorio) per molti che non sapevano come dirlo, non sapevano se dirlo, e in quelle pagine hanno trovato il confortante esempio di chi già lo aveva detto. Si è creata, attorno al libro, una piccola-grande comunità di auto-training, di supporto a distanza, che a Paterlini si è manifestata attraverso più di tremila lettere (un’enormità, per un solo libro) che gli sono arrivate lungo gli anni. Tutte per ringraziare: quel piccolo volume, prestato da un amico o trovato su un treno o comperato in libreria con qualche circospezione, gli aveva fatto capire di non essere soli, li aveva aiutati a inquadrare la loro vita sessuale non più come "un problema", ma come una condizione di vita condivisa con molti altri.
 
Da ultimo l’autore fornisce, per completare lo stato delle cose a proposito di Italia e di omosessuali, poche ma utili notizie sulla vita pubblica di un libro così privato. Ragazzi che amano ragazzi ha potuto godere, in due decenni, di due sole presentazioni mediatiche: una televisiva a Mixer, una radiofonica a Sumo. Fatte da due donne, e non è un caso.
 
Centinaia gli incontri pubblici in circoli e librerie. Problemi di ordine pubblico (minacce, intimidazioni anche fisiche) in tre città: una del Sud, Messina, due del Nord, Varese e Verona.
 
Già note alle cronache per la presenza di animose tifoserie nazifasciste e, per diretta conseguenza, anche omofobe: ragazzi che odiano ragazzi.

 


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