LA REPUBBLICA del 20 giugno 2012
Adesso che la Lega ha perduto gran parte del suo potere di ricatto, forse possiamo tornare a parlare, con sollievo, di alcune qualità del Nord senza sentirci complici di una cultura di strapaese. Per esempio: le candidature di Gherardo Colombo e Benedetta Tobagi alla Rai (scelta felice dell’associazionismo, innescata dal passo indietro virtuoso di Bersani) sono una rivincita della Milano migliore, la Milano etica, democratica e “protestante” che si contrappone quasi naturalmente alla Roma peggiore, quella maneggiona, consociativa e curiale. Probabile che questo dato (due milanesi su due) sia sfuggito alle associazioni nazionali sollecitate a indicare due nomi per il Consiglio d’amministrazione più discusso d’Italia. Ma non c’è dubbio che a configurare il tasso (alto) di autonomia e di eticità di Colombo e Tobagi abbia contribuito assai la loro formazione nella Milano di cui sopra, la stessa di Ambrosoli, di Mani Pulite, di Tobagi padre. È strano, piuttosto, che il dato sfugga a una persona che a Milano ha lungamente lavorato, Tonino Di Pietro, che non riesce a vedere nell’indicazione di quei due nomi altro che una nuova e mutata forma di lottizzazione partitica. Dall’uomo che ha portato in Parlamento De Gregorio, Scilipoti e Razzi ci si aspetterebbe, sulle nomine di qualunque ordine e grado, maggiore prudenza nei giudizi.
LA REPUBBLICA del 11 luglio 2012
Le sinistre analogie tra l’amico Putin e Stalin (vedi la bella inchiesta di Nicola Lombardozzi su R2 di ieri) vanno ovviamente prese con le molle, tanto mutati sono i tempi e i modi. Ma fanno tornare in mente, lustrandolo un poco, l’antico argomento polemico di quei comunisti che imputavano non all’ideologia in sé, ma alla sua applicazione asiatica la nefasta illiberalità di quei regimi. Manca ogni ombra di controprova: se un comunismo parigino sarebbe stato più charmant, uno inglese più spiritoso, uno italiano più lassista, eccetera. Ma intanto Putin viene a ricordarci — e dobbiamo essergliene grati — che a non amare la libera opposizione, le armi della critica, la stampa indipendente, non sono solo le dittature conclamate. Infiniti poteri e uomini di potere sono, anche nelle democrazie formali, ingessati dal sussiego o dalla paura o dalla tracotanza, e si sentono depositari di una verità o di un bene che sono disposti a infliggere ad ogni costo. Di Putin non conta sapere quanto sia stato del Kgb, quanto comunista, quanto anticomunista, quanto oggi sia di destra e filoplutocratico e amico delle varie caste e mafie che si sono mangiata viva la Russia. Conta sapere se conosce i suoi limiti personali e i limiti del suo potere: solo quella è la democrazia.
LA REPUBBLICA del 21 giugno 2012
C’è davvero una “incompatibilità tra le regole dominanti dell’economia e le regole, ad essa sottomesse, della democrazia”, come si chiedeva ieri su questo giornale Gad Lerner riflettendo sulla situazione greca? Guardate che la domanda, specie se a porla non è un giovane rivoluzionario ma un maturo socialdemocratico come Lerner (e come me), è di quelle che fanno tremare le vene ai polsi. Perché se è vero, che le regole di questa economia sono monocratiche e sopraffattrici, prima o poi si tratterà di sovvertirle — o almeno correggerle radicalmente — prima che la democrazia ne esca definitivamente commissariata. E non sono le frange radicali, è la sinistra di massa, quella oramai incanutita nel quasi placido tran tran del parlamentarismo, delle elezioni, di un’alternanza che di alternativo ha davvero pochino, che si gioca il futuro se non sarà in grado di scuotersi. Il socialismo europeo, scrive ancora Lerner, rischia l’irrilevanza se si rassegna a considerare velleitaria una riforma democratica dell’architettura dell’Unione. Dato (quasi) per scontato che i socialisti non credono più nel socialismo, possiamo sperare che credano almeno nel primato della democrazia, e nella possibilità di sottomettere i famosi “mercati” ad essa, e non essa ai “mercati”? Vendola sappiamo già quello che pensa. Ma Bersani? Qui non serve la cavalleria. Serve la fanteria.
LA REPUBBLICA del 12 luglio 2012
Parecchi anni fa i “microfoni aperti” di Radio Radicale fecero intendere, per la prima volta, che il prezzo di una libertà senza regole e senza selezione è moltiplicare la voce dei mascalzoni e — soprattutto — degli idioti. Oggi, su una scala infinitamente più grande, è il web che provvede a ricordarcelo. E non è necessario tirare in ballo i siti nazisti o le altre macro-paranoie che trovano, in rete, troppo comodo alloggio. Basta leggersi i normali “commenta la notizia” che ogni sito, anche quelli dei quotidiani importanti, si sentono in obbligo di attivare. Ieri, per esempio, le edizioni online di tutti i quotidiani davano la notizia di un incidente stradale, fortunatamente non grave, a Nicoletta Braschi, moglie di Roberto Benigni. Seguiva, tra gli altri, questo commento di un lettore: “Poteva anche prendersi un’auto più sicura di una Golf, non mi pare un’auto da signori”. La domanda che dovremmo farci, e che ormai nessuno di noi si fa più, è: perché questo pensierino gretto e mediocre, un tempo confinabile al bancone di un bar, deve finire sotto gli occhi di centinaia di migliaia di persone? È obbligatorio? Lo stabilisce una legge? Ce l’ha ordinato il dottore? E soprattutto: siamo ancora in tempo per discuterne?
LA REPUBBLICA del 22 giugno 2012
A i meno giovani la vicenda di Pomigliano (con la Fiat costretta da una sentenza a non discriminare gli iscritti alla Fiom, il sindacato più combattivo) ricorda tempi duri e remoti. Quando in fabbrica gli operai comunisti erano destinati a una sorta di confino produttivo, e presentarsi al lavoro con l’Unità in tasca rendeva la vita davvero difficile. Ma era decisamente un’altra epoca: c’era l’Unione Sovietica, il Pci, Valletta, la Celere di Scelba, l’Italia era territorio di confine tra due imperi contrapposti, le tensioni politiche e sindacali erano il prodotto di un braccio di ferro ideologico, storico e geografico che a entrambe le parti pareva ferale. Non si capisce, nel 2012, come abbia fatto la Fiat di Marchionne, che ha già problemi non da poco da affrontare, a ficcarsi nello sgradevole budello dal quale ora deve sortire (malamente) su ordine della magistratura. Quando, pochi anni fa, il manager canadese arrivò a Torino, ogni sua mossa, parola, atteggiamento, a partire dal famoso maglione, parevano nuove, sinonimo di modernità, di una mentalità diversa. La vicenda di Pomigliano fa retrocedere la Fiat (non solo la sua immagine, anche la sua politica, anche la sua sostanza imprenditoriale) agli anni Cinquanta. Ne valeva la pena?
LA REPUBBLICA del 17 luglio 2012
Risuonano ripetuti “allarme crescita”. Rimandano all’obbligo, decisamente ansiogeno, di ricominciare a correre, incrementare numeri, migliorare il rendimento. Come il tamburo nelle triremi romane, l’“allarme crescita” esorta ad accelerare il ritmo della voga: ma a parte i rematori scoppiati, c’è un sacco di gente che non ha più nemmeno un remo da impugnare, neanche per darsi un contegno. I disoccupati, i pensionati, gli esodati, gli imprenditori espulsi dalla corsa, i ragazzi in coda in attesa di un imbarco che non verrà mai. Capita così che l’allarme crescita finisca per sembrare più irritante che invogliante. È un “dover essere” che assomiglia sempre meno alla ricerca di un decente equilibrio tra vita e lavoro, soldi e libertà, consumi e necessità. Se c’è un momento per pensare a un’alternativa, per inventarsi una via di fuga, è esattamente questo. Si ignora se davvero esistano una o più rivoluzioni “fai da te”, lavori nuovi, romitaggi, farsi monaca, vivere di pane e ceci, aprire un bar in Alaska, diventare ricchi brevettando le bolle di sapone quadrate, non so. Certo quando risuona, lugubre e trafelato, l’“allarme crescita”, si avverte con certezza assoluta che non è più questo il ritmo che ci salverà.
LA REPUBBLICA del 6 giugno 2012
Oggi i calciatori azzurri, in Polonia per gli Europei, andranno in visita ad Auschwitz. Non è una presenza scontata, per almeno due ragioni. La prima (profondamente rimossa nella nostra memoria nazionale) è che l’Italia è stata il principale alleato di Hitler e dunque il principale complice dello sterminio: chissà se qualcuno, nella nostra delegazione, avrà la volontà di spiegarlo a ragazzi di vent’anni comprensibilmente poco avvezzi alla riflessione storica. Il secondo è che il calcio, inteso come fenomeno popolare globale, è ormai da molti anni un micidiale incubatore dei razzismi vecchi e nuovi, e in specie dell’antisemitismo: gli stadi europei sono forse l’ultimo posto al mondo dove vengono tranquillamente esposte svastiche e croci celtiche, e il saluto romano (un brevetto italiano…) accomuna le curve nazional-fasciste di mezza europa. I calciatori hanno, in questo senso, responsabilità enormi. Di complicità (a volte cosciente, a volte no) con tifoserie razziste, e soprattutto di omissione di buon esempio. Il loro comportamento, le loro parole, il loro atteggiamento in campo (per esempio quando il pubblico insulta un “negro”) sono fondamentali. Lo sport è (anche) un potentissimo vettore di valori. La speranza è che questa mattina, ad Auschwitz, qualcosa scatti nella testa degli azzurri.
LA REPUBBLICA del 7 giugno 2012
A scansare gli ultimi dubbi (qualcuno ne avesse) circa la ventennale connection tra affari privati e potere politico che abbiamo chiamato “berlusconismo”, ecco che la pubblicità sulle reti Mediaset è calata del 18 per cento, e le azioni addirittura del 60. La crisi economica, certo. Ma la crisi c’era anche prima, quando Berlusconi governava, mentre il crollo del valore di Mediaset è successivo alla caduta del suo governo. Oggi di lui sorridiamo, delle sue buffe sortite con smentita incorporata, dei noiosi processi al suo codazzo di signorine, del suo declino così poco da caimano, così sdentato e così scontato. Ma sarà bene, almeno ogni tanto, fare memoria di che cosa siamo stati capaci di generare, come società italiana nel suo complesso, di quanti lo hanno votato più o meno entusiasti, di quanti lo rivoterebbero. Di quanti, ancora oggi, giudicano l’antiberlusconismo un pretestuoso, maniacale appigliarsi a formalità, a cavilli giuridici, piuttosto che – come è stato – un tenace e quasi disperato appello all’onesta realtà contro l’illusionismo truffaldino. Grazie, a questo proposito, a Barbara Spinelli per il formidabile racconto (Repubblica di ieri) della non-ricostruzione dell’Aquila. La “new-town” al posto della polis: la manomissione della civiltà italiana, o di quello che ne rimane.
LA REPUBBLICA del 27 giugno 2012
In televisione, dopo un paio di stagioni di requie, c’è un improvviso affollamento di Santanché, Cicchitto, Gasparri e perfino Brunetta, con il Berlu in camicia nera (alla Hugh Hefner: non è fascista, è burino) che fa finta, come sempre, di sapere quello che dice. È un memento, l’improvviso ritorno a una realtà che è rimasta come sospesa per lunghi mesi. Il governo Monti è stato ed è tante cose, ma principalmente ne abbiamo approfittato, chi più chi meno, per prenderci una specie di anno (speriamo) sabbatico. Se abbiamo chiuso un occhio su parecchie cose è perché non ci pareva vero di poter interrompere per un poco quella pazzesca somministrazione quotidiana di persone inverosimili e parole inverosimili che, forse troppo pomposamente, abbiamo chiamato “berlusconismo”. Ora, spero di sbagliarmi, ma la sensazione è come quando, a fine estate, qualcosa nell’aria dice che le vacanze stanno finendo. Qualche nube sul mare, un temporale, refoli di vento autunnale, e i bagnini che cominciano a piegare le sdraio sempre più presto, alla sera. Ci si prepara al rientro. L’abbronzatura durerà meno di una settimana.
LA REPUBBLICA del 8 giugno 2012
È già stato scritto (con particolare efficacia da Curzio Maltese, ieri su questo giornale) che molti gesti di questa classe politica paiono ispirati da una vocazione invincibile all´autodistruzione. Vedi la ottusa lottizzazione (Pd, Pdl, Udc) dell´Agcom e il salvataggio puramente castale di un personaggio insalvabile come il senatore Di Gregorio: atti ovviamente destinati a ingrossare l´esercito dei non votanti, o dei votanti per chiunque si distingua, a qualunque titolo, dalla congregazione politicante. Se ne scrive, in genere, con rammarico, di questo prolungato tentativo di suicidio. Ma in giornate come quella di ieri, anche il rammarico rischia di cedere il passo a una più rassegnata e forse serena presa d´atto. E perfino quelli come me, che nel ruolo dei partiti hanno sempre creduto, che disprezzano il mugugno sordo e meschino del "sono tutti uguali", che hanno decisamente paura di una eventuale Italia post-partitica, si domandano fino a quando, e soprattutto perché, ci toccherà, nel nome della politica, difendere chi della politica ha fatto carne di porco. Se è servire la Repubblica e la Costituzione, ciò che davvero conta, perché mai una legislatura che prima produce e poi difende i Di Gregorio deve farci meno paura di un domani incerto?