LA REPUBBLICA del 12 maggio 2012
Incredibile ma vero, la presa di posizione di Barack Obama in favore delle unioni legali tra omosessuali non ha provocato, nel suo avversario conservatore Romney, una reazione di arroccamento. Semmai, lo ha "aiutato" a salire un gradino della lunga scala dei diritti, pronunciandosi a favore delle adozioni di bambini da parte delle coppie omosessuali. E dire che buona parte dell´elettorato repubblicano è apertamente ostile all´idea che al di fuori della famosa "famiglia tradizionale" possa esistere anche solo l´ombra di un diritto. In Italia, da anni, il tema è oggetto di indicibili, penosissime esitazioni, quasi tutte riconducibili alla convinzione che "il paese non sia ancora pronto" e alla raccomandazione di non indisporre troppo il campo avverso. Ma non essendo chiaro quando il paese sarà pronto (un anno? un secolo? un altro Evo?) ed essendo il campo avverso già indisposto di suo, non sarebbe il caso di rompere qualche indugio e sfidare qualche tabù? La dinamica Obama-Romney dimostra che imporre
l´agenda del futuro, invece di subirla, è per i progressisti non solo un dovere (che progressista è colui che non progetta il futuro?), ma anche un vantaggio. Si attendono notizie dai nostri pavidi partiti riformatori: gli anni passano, le buone occasioni pure.
l´agenda del futuro, invece di subirla, è per i progressisti non solo un dovere (che progressista è colui che non progetta il futuro?), ma anche un vantaggio. Si attendono notizie dai nostri pavidi partiti riformatori: gli anni passano, le buone occasioni pure.
LA REPUBBLICA del 24 aprile 2012
"I partigiani lottavano per la libertà, i fascisti stavano con i nazisti". Così Francesco Guccini si ribella all´appropriazione indebita di un verso della Locomotiva ("gli eroi sono tutti giovani e belli") stampato su un manifesto che inneggia a Salò. Non si potrebbe esprimere in maniera più semplice, e insieme più giusta, la differenza tra partigiani e repubblichini: contro il nazismo oppure a fianco del nazismo, questa fu la scelta. Eppure questa verità, oggi, suona quasi anticonformista, e perfino intellettualmente difficile: le carte sono state tutte rimescolate, e alcune anche truccate, dalla pervasiva, insistente, annosa campagna di revisionismo storico che ha accompagnato gli anni di Berlusconi, primo premier della storia repubblicana non antifascista. L´espediente retorico di rendere omaggio alla "voce dei vinti" ha finito per trasformare, pian piano, i lupi in agnelli, e la minoranza di ragazzi generosi e coraggiosi che, sebbene cresciuti dentro un regime stupido e razzista, presero la via dei monti, nel racconto revisionista viene spacciata per un potere soverchiante e opportunista. Domani è il 25 aprile e ogni anno che passa festeggiarlo diventa sempre più importante, sempre più giusto e, per quanto mi riguarda, sempre più emozionante.
LA REPUBBLICA del 13 maggio 2012
La lista degli italiani che odiano lo Stato è così lunga da richiedere incessanti ritocchi e aggiornamenti. Gli anarchici informali, gli evasori fiscali, i secessionisti, la destra eversiva, i vetero e i neo terroristi, i qualunquisti del bar, gli ultras del calcio, alcuni tra i NoTav (mega scritta su un muro di Bologna: "no Tav no Stato!"), la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta. Questi gruppi umani hanno in comune una cosa soltanto: la totale difformità della loro natura sociale, degli scopi e (quando c´è) della prassi. Non solo è impossibile immaginarli alleati, ma perfino all´interno di ogni loro segmento le rivalità interne li distraggono e li assorbono: esilarante, in questo senso, la parentesi polemica che l´anarchico estensore della rivendicazione dell´agguato di Genova dedica ad altri anarchici rivali, una zuffa tra eversori che interessa perfino meno di certe dispute tra eruditi. Lo Stato, invece, per quanto sbrindellato, per quanto incapace e fellone (per quanto, dunque, effettivamente odiabile) ha l´enorme, riposante pregio di essere uno solo, e come tale unificante per natura, anche solo per comodità. Visitando la splendida mostra sui centocinquant´anni di Stato unitario, all´Officina Grandi Riparazioni di Torino, ho pensato che senza lo Stato noi italiani saremmo solamente dei miserabili, litigiosi narcisi.
LA REPUBBLICA del 25 aprile 2012
Lunedì tivù e giornali rigurgitavano di indignazione e di "mai più" per l´incredibile sequestro di uno stadio intero ad opera di una cosca di ultras del Genoa. Ventiquattr´ore dopo, la montagna emotiva ha partorito un ridicolo topolino: una manciata di "daspo" (divieti di entrare allo stadio) che conferma la totale resa del calcio italiano, e dello Stato, di fronte agli ultras (co-protagonisti, per altro, di tutti o quasi gli episodi di violenza politica degli ultimi anni, dalle aggressioni fasciste e omofobe ai saccheggi e agli incendi della primavera scorsa a Roma). Negli stadi italiani si può delinquere nella certezza dell´impunità, e i pavidi mercanti che gestiscono lo sport nazionale, a cominciare dai presidenti di società, sanno indignarsi giusto nei pochi minuti del dopo-partita, quando in favore di telecamere dichiarano solennemente che è una vergogna e che non si ripeterà mai più. Mentono. La loro unica urgenza è strappare qualche briciola di diritti televisivi in più per tappare i buchi di bilancio causati dagli spalti deserti, evitati come la peste dalla gente perbene che non ama sentirsi ostaggio di bande armate. Non è un paese civile quello che rinuncia a tutelare gli onesti e i mansueti e li lascia in balia di chi vive di illegalità, ricatto, violenza. Gli ultras non sono più un problema di ordine pubblico, sono un problema di democrazia.
LA REPUBBLICA del 19 maggio 2012
Nell´orribile declino leghista sconcerta la rassegnata, quasi bonaria comprensione che dirigenti e "base" riservano al vecchio capo, che pure è
l´evidente artefice del clan avido e rozzo che usava le casse del partito per i propri comodi. Si tende a dire che è la fede popolare a impedire certe rese dei conti, ma è vero fino a un certo punto. Ho viva memoria della vergogna, dell´ira, delle assemblee tumultuose e certo non reticenti nelle quali la base comunista, ai tempi di Tangentopoli, accusava i suoi capi di essersi fatti coinvolgere in quel sistema di illegalità. Non era meno appassionata, quella base, e neanche meno devota alle gerarchie di partito. Solo che anteponeva a tutto, e a tutti, un interesse collettivo al quale le persone, compresi i capi, erano sottoposti. Non così, evidentemente, i leghisti, ai quali la struttura dispotica e familista del loro movimento non è mai parsa, fin qui, degna di dibattito (quale dibattito, poi, in un partito che ha fatto il suo ultimo congresso dieci anni fa?). Da chi ha ingoiato senza fiatare quell´assetto ducesco del partito, quella coincidenza (folle) tra Capo e Destino, non ci si può aspettare, oggi, una reazione sana. Molto probabile che la Lega segua Bossi nella sua tomba politica. Se lo saranno meritato entrambi.
l´evidente artefice del clan avido e rozzo che usava le casse del partito per i propri comodi. Si tende a dire che è la fede popolare a impedire certe rese dei conti, ma è vero fino a un certo punto. Ho viva memoria della vergogna, dell´ira, delle assemblee tumultuose e certo non reticenti nelle quali la base comunista, ai tempi di Tangentopoli, accusava i suoi capi di essersi fatti coinvolgere in quel sistema di illegalità. Non era meno appassionata, quella base, e neanche meno devota alle gerarchie di partito. Solo che anteponeva a tutto, e a tutti, un interesse collettivo al quale le persone, compresi i capi, erano sottoposti. Non così, evidentemente, i leghisti, ai quali la struttura dispotica e familista del loro movimento non è mai parsa, fin qui, degna di dibattito (quale dibattito, poi, in un partito che ha fatto il suo ultimo congresso dieci anni fa?). Da chi ha ingoiato senza fiatare quell´assetto ducesco del partito, quella coincidenza (folle) tra Capo e Destino, non ci si può aspettare, oggi, una reazione sana. Molto probabile che la Lega segua Bossi nella sua tomba politica. Se lo saranno meritato entrambi.
LA REPUBBLICA del 2 giugno 2012
È in corso una polemica personale e procedurale, dentro il Pd, a proposito del doppio incarico del nuovo sindaco di Civitavecchia, che è anche deputato. Costui ha definito “carogne” i suoi compagni di partito che (in maggioranza) gli chiedono di dimettersi immediatamente dalla Camera. Ma la sola carogna delle quale si sente l’odore è l’intelligenza della politica, che dev’essere in avanzato stato di decomposizione se esiste ancora qualcuno, là dentro, così ottuso da non capire che ogni gesto meno che limpido, in questo momento, equivale a un suicidio. La domanda è semplice: come è possibile che la stessa persona faccia in modo decente due lavori difficili come il deputato della Repubblica e il sindaco di una città? La risposta è altrettanto semplice: non è possibile, a meno che uno dei due lavori sia interpretato come una carica onorifica. Una prebenda. Un premio alla carriera. È accaduto, in passato, infinite volte. Non si contano i casi di doppi incarichi. Ora, finalmente, è stato deciso (anche dentro i partiti) che non è più il caso, non solo per ragioni di leggi e regole, ma per ragioni di rispettabilità della politica. Che essendo una cosa seria, va fatta seriamente, e a tempo pieno. Non è incredibile che se ne debba ancora discutere?
LA REPUBBLICA del 3 maggio 2012
Morire in un locale che si chiama Bolgia per colpa di una pillola che si chiama ecstasy. La tragedia è vera, vittima un povero ragazzo bergamasco di neanche vent´anni. Ma l´involucro è una turpe parodia. Quella parodia del dionisiaco che è fiorita attorno al mercato delle droghe e della sedicente "trasgressione". Un avvelenamento/stordimento di massa spacciato per "estasi", un capannone tra i capannoni che si finge "bolgia" per dare alle greggi di ragazzini conformisti e ubriachi l´illusione di commettere chissà quali eccessi, di vivere chissà quali notti. Ma l´estasi vera, quella dei grandi mistici, dei grandi alpinisti, dei grandi poeti, perfino dei grandi perversi, costa qualcosa di più dei pochi euro richiesti per questo accalcarsi da stupidi, ingannare il tempo all´ingrosso e magari morire da ingannati. L´estasi vera costa fatica e pensiero, costa – soprattutto – diversità e fuga, lontananza e solitudine. Dice un sondaggio che un terzo degli italiani prevede, in tempi brevi, una "rivoluzione", ma quel terzo di italiani si sbaglia. Nessuna rivoluzione può nascere, mai più, se non dalla rivolta contro le (tante) droghe di massa: chimiche, alimentari, economiche, culturali, psicologiche. Aveva già detto tutto Caparezza: "Sono uscito dal tunnel del divertimento". Sarebbe il primo passo per la libertà, che è perfino più della rivoluzione.
LA REPUBBLICA del 22 maggio 2012
Il leghista Rovato – ma prima e dopo di lui tanti altri – fa lo spiritoso su Facebook a proposito del terremoto ("la Padania si sta staccando") perché non si rende conto che le stesse cazzate che si dicono in privato, se scritte e pubblicate, hanno diverso peso e significato. La pubblicazione del privato – letteralmente, la messa in pubblico del sé – è del resto la grande novità e il grande problema dell´epoca, ed è comprensibile che gli incauti, come il Rovato, ci inciampino. Nell´attesa che (in un paio di secoli?) si trovi una misura di massa, un´etica di massa per affrontare una questione fin qui limitata a giornalisti, scrittori, politici, credo sia importante che l´uso rozzo o violento o ´gnorante della parola pubblica non venga considerato alla stregua del famoso "prezzo inevitabile da pagare al progresso". Cioè: se uno dice una scemenza o una odiosità, bisogna rinfacciargliela, bisogna imputargliela. Non deve passarla liscia, è diseducativo. Il pregiudizio classista che ha retto per anni le televisioni ("al popolo basta la bassa qualità") ha già fatto abbastanza danni per traslocarlo pari pari al web, rassegnandosi al fatto che dare la parola a tutti equivalga a renderla vuota e volgare. Twitti? Sei su Facebook? Il tuo modello non dev´essere Rovato, dev´essere Dickens. Meglio: anche Rovato deve puntare a Dickens.
LA REPUBBLICA del 26 aprile 2012
Ogni tanto, nella depressione generalizzata, qualcuno (anche molto autorevole) evoca la parola "crescita" con l´aria di chi indica uno squarcio tra le nubi. Il problema è che nessuno sa più che cosa voglia dire, "crescita": di che pasta sia fatta, che novità porti, a chi porti benessere e a chi penuria.
E´ passato ormai mezzo secolo dal celebre discorso di Robert Kennedy "contro il Pil", nel quale diceva, in buona sostanza, che i numeri definiscono solo delle quantità, non delle qualità. Ma ancora oggi, malgrado lo sviluppo abbia rivelato, insieme ai suoi vantaggi, anche i suoi guasti, i suoi sprechi, le sue storture, si parla di crescita come di un grumo di numeri, e basta. Nessuno dei supertecnici che a Roma o a Berlino o a Strasburgo fanno di conto, o dei leader politici che dai quei conti sono paralizzati, ha la voglia o il tempo o la capacità di dirci che cosa metterci dentro, alla scatola vuota detta crescita. L´attuale impopolarità della politica sta anche in questa reticenza ormai congenita: un gretto cumulo di cifre che non ci dice (quasi) più niente, che non ci unisce né ci divide, non ci fa sognare né litigare. Crescere: come, perché, dove, per ottenere che cosa, per essere che cosa?
E´ passato ormai mezzo secolo dal celebre discorso di Robert Kennedy "contro il Pil", nel quale diceva, in buona sostanza, che i numeri definiscono solo delle quantità, non delle qualità. Ma ancora oggi, malgrado lo sviluppo abbia rivelato, insieme ai suoi vantaggi, anche i suoi guasti, i suoi sprechi, le sue storture, si parla di crescita come di un grumo di numeri, e basta. Nessuno dei supertecnici che a Roma o a Berlino o a Strasburgo fanno di conto, o dei leader politici che dai quei conti sono paralizzati, ha la voglia o il tempo o la capacità di dirci che cosa metterci dentro, alla scatola vuota detta crescita. L´attuale impopolarità della politica sta anche in questa reticenza ormai congenita: un gretto cumulo di cifre che non ci dice (quasi) più niente, che non ci unisce né ci divide, non ci fa sognare né litigare. Crescere: come, perché, dove, per ottenere che cosa, per essere che cosa?
LA REPUBBLICA del 23 maggio 2012
I partiti spariranno "in un peto", i loro leader sono zombie, morti, quasi morti, un´accolita di fantasmi incapaci e – peggio ancora – di persone indistinte, non-uomini indegni di incarnare un´idea, destra uguale a sinistra, birilli che il vento della democrazia diretta (il Sacro Web) spazzerà via. Il movimento delle Cinque Stelle merita rispetto, non è antipolitica, è impegno civile di una moltitudine di autoconvocati, in larga parte giovani e disinteressati. Ma il linguaggio del loro leader è un problema grosso come una casa. E´ un linguaggio carico di disprezzo, maneggia la morte (spesso e volentieri) come l´insulto definitivo, non riconosce MAI dignità all´avversario, è ignobile e ripugnante tanto quanto il latrato leghista. Usciamo da vent´anni di semplificazioni rozze, di parole usate come sputi. Possibile che la nuova politica usi un linguaggio così vecchio? Si capisce la gratitudine (meritata) che le persone delle Cinque Stelle hanno per il loro fondatore. Ma, a meno che non siano un triste calco delle legioni bossiane, entusiaste del dito medio e dell´insulto metodico, possibile che nessuno di loro osi chiedere al capo di non urlare, e soprattutto di non urlare quelle cose?