LA REPUBBLICA del 31 maggio 2012
Memorabile lo speciale di Bruno Vespa sul terremoto, l´altra sera. L´ho seguito per un paio d´ore, al tempo stesso ammirato e atterrito
dall´eccitazione quasi folle che la catastrofe aveva innescato nell´uomo e nel professionista. Parlando a mitraglia, con lo sguardo acceso, a volte mulinando una bacchetta per indicare mappe, coordinare inviati, ammonire geologi, Vespa ha in pratica gestito da solo i soccorsi. Punto alto della serata, il severo monito da lui rivolto a una terremotata affinché raggiungesse immediatamente, non si sa perché, un albergo di Reggio Emilia. La signora, costernata, non ne aveva alcuna voglia, ma le è mancato l´animo di dirlo, forse perché le dispiaceva deludere Vespa. Niente poteva sfuggirgli: discrepanze nelle carte telluriche, disponibilità di camere d´albergo nel raggio di centinaia di chilometri dall´epicentro, imprecisioni di sindaci e assessori sul numero esatto delle brande, delle cucine da campo, dei picchetti per le tende. Gli ospiti hanno potuto parlare pochissimo, anche perché dopo poche sillabe Vespa toglieva loro la parola per dire meglio di loro quanto avrebbero voluto dire. Sono rimasti per ore, muti e attoniti, seduti ai loro posti, chiedendosi anche loro perché era così urgente che almeno alcuni dei senzatetto raggiungessero immediatamente Reggio Emilia. Ma non hanno osato chiederlo.
dall´eccitazione quasi folle che la catastrofe aveva innescato nell´uomo e nel professionista. Parlando a mitraglia, con lo sguardo acceso, a volte mulinando una bacchetta per indicare mappe, coordinare inviati, ammonire geologi, Vespa ha in pratica gestito da solo i soccorsi. Punto alto della serata, il severo monito da lui rivolto a una terremotata affinché raggiungesse immediatamente, non si sa perché, un albergo di Reggio Emilia. La signora, costernata, non ne aveva alcuna voglia, ma le è mancato l´animo di dirlo, forse perché le dispiaceva deludere Vespa. Niente poteva sfuggirgli: discrepanze nelle carte telluriche, disponibilità di camere d´albergo nel raggio di centinaia di chilometri dall´epicentro, imprecisioni di sindaci e assessori sul numero esatto delle brande, delle cucine da campo, dei picchetti per le tende. Gli ospiti hanno potuto parlare pochissimo, anche perché dopo poche sillabe Vespa toglieva loro la parola per dire meglio di loro quanto avrebbero voluto dire. Sono rimasti per ore, muti e attoniti, seduti ai loro posti, chiedendosi anche loro perché era così urgente che almeno alcuni dei senzatetto raggiungessero immediatamente Reggio Emilia. Ma non hanno osato chiederlo.
LA REPUBBLICA del 6 aprile 2012
Tra le varie incredibili cose che si leggono sulla Lega, la più incredibile è che l’ultimo congresso federale di quel partito è del 2002. Dieci anni fa! Un partito che non affida le proprie sorti ai congressi, cioè al dibattito e alla verifica politica tra dirigenti e delegati, non è un partito democratico. Può anche essere un partito “di popolo”. Ma se il capo e il suo entourage esercitano il potere, per molti anni, in totale autonomia, senza doverne rendere conto a nessuno, la democrazia è solo un remoto fantasma. Nella discussione sulla riforma (urgentissima) dei partiti, non basta parlare solo del loro finanziamento. Bisogna parlare anche del loro funzionamento. La comunità nazionale non ha alcun interesse a dare quattrini a partiti che non garantiscano democrazia interna e (dunque) trasparenza. La scadenza dei congressi dovrebbe essere stabilita per legge, così come accade per le assemblee degli azionisti e per i Consigli di amministrazione. Dove girano soldi, specialmente soldi pubblici, devono esserci regole chiare. I porci comodi dei Bossi e dei loro amici sarebbero stati meno comodi se la Lega avesse funzionato come un partito democratico e non come una consorteria di avventurieri.
LA REPUBBLICA del 1 giugno 2012
Genova sarà governata da una maggioranza di donne, e da un sindaco, Marco Doria, che ha saputo infrangere lo sconsolante maschilismo del potere italiano. In sé è una bella notizia, ma forse arriva tardi. Più della metà dei genovesi non è andata a votare al secondo turno, uno scollamento impressionante in una città dalla storia politica gloriosa. Non è, ovviamente, colpa di Doria, ma ci si domanda se la malattia della politica non sia oramai così avanzata da rendere vani anche i bei gesti, i giusti rimedi, i cambiamenti. Medicine che, se prese per tempo (cinque anni fa? dieci? o meglio ancora venti, quando dopo Tangentopoli pareva che tutto potesse cambiare per il meglio, e tutto tornò come prima?), forse avrebbero guarito i partiti, la politica e il Paese. In questo momento, a Genova come altrove, "l´altra metà del cielo" non sono le donne, sono i cittadini che non sono andati a votare per sconforto, o per rabbia, o per definitivo menefreghismo. È presto per sapere se un governo delle donne, e un sindaco eletto con le primarie e molto indipendente dai partiti, sono qualcosa di ancora percepibile, e apprezzabile, anche dalla metà di Genova che non ne vuole più sapere. O se neppure le belle notizie, ormai, riescono a fare breccia nel disgusto e nel rifiuto.
LA REPUBBLICA del 11 aprile 2012
"Speriamo di riuscire a consegnare alle sue pronipoti un Paese almeno uguale a quello che lei ha lasciato a noi", scrive Concita De Gregorio salutando Miriam Mafai. È la fotografia di un passato potente e di un presente flebile. Non si potrebbe dire meglio il vuoto che ci lascia, andandosene, una grande generazione di italiani, quelli usciti dal fascismo e dalla guerra, quelli della rinascita e della Costituzione, quelli che ci sono stati madri e padri. Non so se la Storia li abbia per così dire favoriti – offrendogli di crescere e vivere dentro anni di ferro e di fuoco, temprati come lame – o se sia la nostra "normale" reverenza di figli a farceli vedere così forti, sereni, utili. Certo è che in questo evo sfarinato, divagante, si cerca e non si trova la materia viva che servirebbe a lasciare ai figli un Paese "almeno uguale". È vero che non si deve mai avere paura. Difatti da domani – prometto – non ne avremo. Ma oggi, leggendo di Miriam e della sua vita, è impossibile non concedersi un istante di sgomento. Come essere all´altezza di quell´energia, di quella semplicità? Da quali fonti attingere, se tutte o quasi (cultura, democrazia, socialismo, liberazione) paiono inaridite o inquinate? E se provassimo a barare, Concita? Se ai nostri figli, quando sarà il momento, noi presentassimo il bilancio di Miriam, spacciandolo per nostro?
LA REPUBBLICA del 16 marzo 2012
L´altra sera guardavo un programma tivù in compagnia di un amico molto più giovane di me, e molto interconnesso. Quasi ogni minuto, dunque quasi in diretta, lui leggeva (e mi leggeva) la gragnola di commenti su Twitter. Più ancora della violenza verbale, e della sommarietà dei giudizi (si sa, lo spazio è quello che è), mi ha colpito la loro assoluta drasticità: il conduttore era per alcuni un genio, per altri un coglione totale, e tra i due "insiemi", quello pro e quello contro, non esisteva un territorio intermedio. Era come se il mezzo (che mai come in questo caso è davvero il messaggio) generasse un linguaggio totalmente binario, o X o Y, o tesi o antitesi. Nessuna sintesi possibile, nessuna sfumatura, zero possibilità che dal cozzo dei "mi piace" e "non mi piace" scaturisse una variante dialettica, qualcosa che sposta il discorso in avanti, schiodandolo dal puerile scontro tra slogan eccitati e frasette monche.
Poiché non è data cultura senza dialettica, né ragione senza fatica di capire, la speranza è che quel medium sia, specie per i ragazzi, solo un passatempo ludico, come era per le generazioni precedenti il telefono senza fili. E che sia altrove, lontano da quel cicaleccio impotente, che si impara a leggere e a scrivere. Dovessi twittare il concetto, direi: Twitter mi fa schifo. Fortuna che non twitto…
LA REPUBBLICA del 12 aprile 2012
Se "il popolo" è quello cristallizzato negli anni dal leghismo, come si fa a fidarsene, e a volerlo al potere? La grande intuizione del socialismo era che il popolo, nei secoli sfruttato e soggiogato, dovesse liberarsi prima di tutto della propria subalternità. Che fosse ignorante, e dunque dovesse studiare. Che fosse abbrutito, e dunque dovesse elevarsi. Che per sconfiggere i ricchi, i padroni, i borghesi, i preti, e chiunque altro lo tiene in soggezione, il popolo dovesse diventare migliore di loro. Il male imperdonabile che i leghisti hanno fatto a se stessi è piacersi così com’erano, gongolare per i modi rozzi, specchiarsi in un capo becero. La catastrofe del "cerchio magico" è figlia – anche – di un ambiente che pretende tutto per se stesso, ma non pretende nulla da se stesso. Un ambiente povero di cultura e di ambizioni sociali e umane, goffamente convinto che un diploma-patacca (pagato a caro prezzo, e non di tasca propria) possa fare da foglia di fico, come i titoli nobiliari fasulli a Napoli. Non si cade così rovinosamente se non si è, al tempo stesso, indifesi e presuntuosi. Indifesi come il popolo è sempre stato; presuntuosi come il popolo diventa quando demagoghi come Bossi e i suoi complici lo convincono di essere potente e invincibile. Ingannandolo a morte.
LA REPUBBLICA del 17 marzo 2012
In un giornale radio della sera, ieri, i primi cinque o sei titoli erano tutti su casi di corruzione di politici, o sul loro coinvolgimento, a vario titolo, in affari poco limpidi, favori ricevuti da potenti, commistione opaca tra il loro ruolo pubblico e le loro amicizie private. Ovviamente ogni caso è un caso a sé, si va dal malaffare da milioni di euro al puro equivoco, dallo scandalo vero alla mezza diceria. Ma l´insieme faceva veramente impressione, e parlava, senza possibilità di equivoci, di una catastrofe etica che non può avere alcuna "soluzione giudiziaria", perché potrebbe avere solamente una soluzione culturale: respingere il regalo troppo costoso (e interessato) di un potenziale vincitore di appalti non è, per un sindaco, un obbligo di legge, è un´elementare misura di igiene morale, e di autotutela. Di quell´igiene, evidentemente, si è perduta la cognizione. E non è, questo, solo un problema della classe politica. L´insieme della società italiana, sortita con sollievo da Tangentopoli così come si scampa a una guerra, ha ritenuto che molte di quelle regole fossero "moralismo" (parola tra le più abusate degli ultimi vent´anni). È stata la maniera più diretta ed efficace per non pronunciare più la parola "morale". I risultati si vedono.
LA REPUBBLICA del 13 aprile 2012
La rissa al Colosseo tra centurioni e vigili, con urla in vernacolo e largo impiego di tipi umani da Cinecittà, sembrava una scena ancora inedita di "Roma" di Fellini. Invece era vera, come probabilmente vero è il bisogno che spinge padri di famiglia non più giovani e non più aitanti a travestirsi da antichi romani per rastrellare qualche mancia tra i turisti.
Vedendo omoni travestiti da legionario, con l’elmo di latta basculante, spingersi ed evocare i rispettivi mortacci tra le pietre millenarie e i pini secolari, si intendeva che neppure una faida tra cammellieri al Cairo, o una resa dei conti tra cocaleros in Colombia, avrà mai la stessa strepitosa e direi immortale teatralità. La nostra catastrofe, e in specie quella capitolina, ha questo di bello e questo di brutto: che è irriducibile al fluire dei secoli, un evergreen della commedia umana. Tra mille anni, quando Roma e l’Italia saranno da molte generazioni sotto la dominazione cinese, guardie rosse inutilmente disciplinate tenteranno, senza successo, di liberare il Colosseo dai centurioni discendenti di questi centurioni qui, forse dai loro ologrammi. E li mortacci di ogni epoca – da quelli di Enea a quelli di Alemanno a quelli del futuro governatore cinese Wu – faranno corona al trionfo, ennesimo, di una plebe eterna e indomabile.
LA REPUBBLICA del 18 marzo 2012
Percorrendo la via Cassanese, lungo quell´angosciante dedalo di capannoni, rotonde e quartieroni para-urbani che è la Lombardia nordorientale, si rimane sbigottiti passando accanto al parco di Villa Invernizzi. Un imprevisto scorcio di bellezza laddove la bellezza è stata piallata via dalle classi dirigenti lombarde dal dopoguerra in poi, compresa la Lega che è colpevole al quadrato perché "partito territoriale" che del territorio ha fatto scempio (dunque, scempio della propria anima). Il parco di Villa Invernizzi, anche all´automobilista che passa in fretta, lascia intuire, in mezzo a quel susseguirsi di non-luoghi, una decisa disciplina estetica (che nella Lombardia agricola non era affatto privilegio dei ricchi: cascine e case coloniche avevano armonia e dignità). Il contrasto con ciò che sta intorno – decollando da Orio al Serio la fascia prealpina appare uno sterminato ammasso di cemento sparso a casaccio – è totale. Tanto che ci si chiede: ma come è possibile che sia rimasto intatto un pezzo di Italia così perfetto? Infatti, non è possibile. Leggo sui giornali che una fetta di parco sarà abbattuta per fare posto alla nuova autostrada Brebemi. La Lombardia, in fin dei conti, cerca una sua armonia: il bello, in mezzo al brutto istituzionalizzato, è una stonatura.
LA PREPUBBLICA del 14 aprile 2012
C’è una tipologia di trasmissioni tivù e radio che funziona così: si piazza una telecamera e/o un microfono sotto il naso di un personaggio pubblico (meglio se un politico) nella speranza che dica una puttanata. Poi la si manda in onda come un trofeo. Il giorno dopo tutti i giornali, su quella puttanata, aprono un accanito dibattito, mettendo le ali tanto alla puttanata quanto alla trasmissione che l’ha diffusa. Il caso più recente è quello di Daniela Santanché, che su Radio 24 ha paragonato Nicole Minetti a Nilde Iotti (è come paragonare le sorelle Lecciso a Madame de Staël). Con susseguente, inutile spreco di reazioni indignate, chiarimenti, approfondimenti. Ora: fare da ricettori, anzi da ricettatori di puttanate, specialmente in questo paese, è un gioco da ragazzi. Tra l’onorevole ignorante che non sa in che anno siamo, il nazista che odia gli ebrei, la velina che straparla di economia (e con Scilipoti Borghezio e Santanché comunque utilizzabili come jolly) c’è solo l’imbarazzo della scelta. Il difficile sarebbe usare telecamera e microfono per scovare chi dice cose intelligenti, utili o – addirittura – belle. Ma si farebbe molta fatica (toccherebbe lavorare), e il giorno dopo quasi nessun giornale se ne occuperebbe.