LA REPUBBLICA del 20 gennaio 2012
La giornalista del tigì che insegue trafelata il comandante De Falco e gli chiede (gridando per farsi sentire): «lei è un eroe? », mentre quello, giustamente, fugge e preferirebbe sprofondare piuttosto che risponderle (perché quale persona al mondo accetterebbe di rispondere a una domanda del genere senza sentirsi ridicolo o stupido?) ; quella giornalista, dicevo, è a sua volta un´eroina, perché accetta di incarnare fino in fondo, fino allo stremo, il ruolo assurdo che il dovere le assegna. Che è quello di confezionare la realtà come uno spettacolo facile facile, commestibile per tutte le bocche, uno spettacolo con i buoni e i cattivi, gli eroi e gli infami, i vincitori e i vinti. Senza le sfumature, le ambiguità, i margini di dubbio, uno spettacolo fatto solo di chiari e di scuri, che lo capiscano anche i bambini, oppure quegli adulti ridotti a bambini che la tivù amerebbe noi fossimo. Una volta vidi Benigni sistemare le luci prima di una sua apparizione televisiva. Tenne ai tecnici una breve lezione: «Mi raccomando levatemi ogni ombra. Il comico deve apparire sempre in piena luce o nel buio fondo, perché il comico è come un cartoon: non ha psicologia, dunque non ha sfumature». È esattamente per questo che la domanda «lei è un eroe? » suona, alle nostre orecchie, come una domanda comica.
LA REPUBBLICA del 31 dicembre 2011
Per diventare dittatori bisogna essere, prima di tutto, dei mentitori patentati. Umberto Bossi è, in questo senso, un talento sprecato, perché pur essendo un incallito mentitore non ha la possibilità oggettiva di diventare dittatore, se non acquistando un atollo sperduto e ribattezzandolo Padania per trasferircisi, come un reverendo americano matto, con i suoi fedeli. L´ultima balla – pronunciata ieri di fronte alla solita claque di partito – è un perfetto esempio di ribaltamento della verità. Bossi accusa Napolitano di avere "riempito il Nord Italia di tricolori, che alla gente del Nord non piacciono". È vero esattamente il contrario: è la gente del Nord che ha riempito le proprie città e le proprie case di tricolori, che a Bossi non piacciono. E lo ha fatto, per giunta, proprio perché a Bossi non piacciono, per spiegargli in modo definitivo, e politicamente ultimativo, che la Lega, al Nord, è solo una minoranza invadente e rumorosa. Non fosse stato per Bossi e per la Lega, il Centocinquantenario non sarebbe mai stato il trionfo popolare che è stato. L´anno che si conclude oggi lo annovera, in questo senso, tra i grandi artefici involontari della storia italiana.
LA REPUBBLICA del 21 gennaio 2012
I tassisti hanno qualche buona ragione (una licenza pagata a caro prezzo), ma toni e modi della loro lotta sono molto controproducenti, specialmente agli occhi di chi ha memoria di altre lotte, e di ben altra compostezza. Non si tratta di fare l´elogio del Quarto Stato, di quell´incedere severo e compatto che discendeva dall´idea che il passo dei contadini e degli operai coincidesse con il passo della Storia. Sono cose passate, e quel magnifico e imponente corteo, per altro, è stato sconfitto e disperso. Si tratta, però, di giudicare un linguaggio, una cultura, una visione dello stare in società che paiono mutuati pari pari dalle curve di stadio, come se a competere sulla scena sociale non fossero più le classi, ma tribù ingaglioffite dall´astio e dalla paura. La fatica di chi lavora in mezzo al traffico per molte ore va rispettata, e non deve accadere che intere vite lavorative rischino la rottamazione. Ma se una lotta sindacale viene vissuta come un regolamento di conti da risolvere a urla e mazzate, diventa automaticamente impopolare. I tassisti con la testa sulle spalle spieghino ai loro colleghi ultras che in questi giorni noi clienti appiedati siamo molto contenti di prendere il tram.
LA REPUBBLICA del 3 gennaio 2012
Perché i "conflitti sociali" evocati da Susanna Camusso siano una concreta possibilità, non è cosa che richieda di essere spiegata. Solo uno sciocco può non capire che laddove le disuguaglianze aumentano, aumenta la tensione sociale. Quello che impressiona, piuttosto, è la grande difficoltà di immaginare – da parte di tutti – quali forme questi "conflitti sociali" possano assumere, quale volto possano avere. Al di là dei fuochi fatui dell´estremismo di piazza (che è la più vecchia e dunque la più inutile delle forme di antagonismo), è da molti anni che la voce degli ultimi non trova la maniera di farsi ascoltare. I sindacati faticano a drenare gli umori e le esigenze dei non rappresentati, dei precari e dei ragazzi senza lavoro. La fabbrica, da tempo, non è più il teatro che possa mettere in scena in modo rappresentativo e solenne l´incontro-scontro tra capitale e lavoro. La sinistra, che è il vettore storico (bisecolare) della protesta sociale, è semiparalizzata dal carico di responsabilità (anche istituzionali) che la crisi finanziaria le scarica sulle spalle. Siamo, in un certo senso, all´anno zero del conflitto sociale "new age". Largo spazio a chi inventerà qualcosa di nuovo: forme organizzative, parole, azione politica.
LA REPUBBLICA del 24 gennaio 2012
In un dibattito televisivo il rappresentante dei farmacisti italiani – un signore anziano e combattivo – non ha saputo o voluto dire quanto rende, in media, una farmacia in una grande città. Ha saputo e voluto dire tutto il resto: quali problemi, quali rinunce, quali ingiustizie la categoria rischia di patire con la (parziale) liberalizzazione del settore. E ha anzi molto insistito con il conduttore affinché si parlasse di cifre e di aspetti concreti. Ma uno dei dati decisivi per formarsi un´opinione sulla questione – quanto guadagna una farmacia bene avviata – è stato platealmente omesso. È francamente incomprensibile la reticenza degli italiani riguardo ai quattrini: sono diventati, per come va il mondo, il segno dei segni, la regola delle regole, eppure quando si tratta di dire quanto si guadagna il discorso si fa pudico e omertoso, come se si stesse parlando di sesso. Questo rende molto più complicato, e forse insolubile, il discorso sulle cose economiche, perché il nocciolo se ne resta nascosto dentro una densa polpa fatta solo di lamentele e autocommiserazione, come se ogni categoria professionale fosse in ginocchio, bistrattata, discriminata. Guadagnare bene non è una colpa, e anzi, se si pagano le tasse, è un merito e un vantaggio per tutta la comunità. Quando lo avremo capito saremo un paese meno infantile e meno querimonioso.
LA REPUBBLICA del 11 gennaio 2012
Le dimissioni di Malinconico erano un atto dovuto, e urgevano per preservare il buon nome di un governo che vanta discontinuità e dunque deve dimostrarla ogni giorno. Ma non basteranno a spegnere l´incendio anti-casta, che divampa senza più distinguere gli alberi tarlati da bruciare, e quelli sani da rispettare. Non solo le vacanze pagate dalle varie cricche, anche quelle pagate di tasca propria ormai valgono come capo d´imputazione per chi fa politica. L´altra sera alla radio una signora invelenita rinfacciava a Rutelli il Natale alle Maldive (frequentate da centinaia di migliaia di italiani) accusandolo "di non avere mai lavorato". Non sono un fan di Rutelli, ma in quell´accusa stridula e assurda risuonavano i peggiori umori (da forca) di una fetta ahimè larga di opinione pubblica, che ha il sangue agli occhi e ha stabilito che è "la politica", in sé, il capro espiatorio di tutte le nostre tare. E il clima è tale che il conduttore, di solito perspicace, non ha avuto l´ovvia accortezza di replicare alla signora che la politica, quando è fatta con coscienza, è un lavoro eccome. E non dei più facili. Latrare contro "i politici", presi in un solo mazzo come lestofanti e scrocconi, è un´idiozia come tutte le fole che fanno le veci della realtà. E, quel che è peggio, prepara il campo al primo dittatore o demagogo in grado di fare propri quegli umori da servi maldicenti.
LA REPUBBLICA del 4 gennaio 2012
La manifestazione di centomila ungheresi contro la nuova Costituzione del governo nazional-autoritario di Viktor Orban è una richiesta d´aiuto all´Europa. Ci si domanda, però, che cosa l´Europa possa fare di concreto, quali strumenti abbia per "sorvegliare" la salute della democrazia nei paesi membri. La percezione, oramai molto diffusa, è di una super-entità perennemente assorbita dalla questione economica, fibrillante ad ogni sussulto finanziario, ma evanescente dal punto di vista politico. Volendo essere ottimisti a tutti i costi, c´è da sperare che le autorità europee abbiano ben presente lo stretto, storico nesso tra recessione e fascismo. Che sappiano che l´isterismo nazionalista, condito di xenofobia e antisemitismo (di questa pasta è il governo ungherese) prospera nella crisi economica e nell´insicurezza sociale. E dunque ritengano che combattere la recessione sia la via più diretta per tutelare la democrazia.
L´ipotesi infausta è, invece, che l´Europa sia costretta a occuparsi solamente di economia perché le è precluso ogni altro genere di autorevolezza. Con buona pace dei manifestanti ungheresi, che lanciano un Sos udibile solo dalle opinioni pubbliche europee, non nei palazzi di Strasburgo e Bruxelles.
LA REPUBBLICA del 25 gennaio 2012
Anteporre una buona scuola professionale a una mediocre e tardiva laurea, come ha fatto il viceministro Martone, significa affrontare un tabù. Nella tradizione classista del nostro Paese, le scuole professionali e i lavori manuali sono considerati da sempre lo sbocco naturale dei figli dei poveri; la laurea, il dovuto approdo dei figli dei ricchi. E dunque, quel politico che faccia l’elogio delle scuole professionali rischia di passare per un reazionario che non vuole aprire a tutti le porte dell’università. Ma io credo che Martone alludesse a un’altra verità, tutt’altro che reazionaria: tra un "dottore" dequalificato e mal pagato e un artigiano che sa il fatto suo, chi se la passa meglio? La destrezza manuale è, tra l’altro, cultura essa stessa, specie in un Paese di artigiani e tecnici sopraffini quale siamo da qualche secolo. Il disprezzo per il lavoro manuale in quanto tale, e per scuole professionali a volte ben più brillanti e funzionali di certi deprimenti atenei, è uno dei veri grandi problemi dei nostri figli. Convinti, anche per colpa nostra, che un dottorato a prescindere valga un’autorevolezza sociale che solo il lavoro (anche manuale) è invece in grado di dare. Una società di piccolo-borghesi frustrati non è affatto migliore di una società di artigiani e operai realizzati.
LA REPUBBLICA del 5 gennaio 2012
I controlli fiscali a Cortina, a ridosso di Capodanno, saranno anche ispirati da "una concezione ideologica del controllo fiscale", come dichiara il socialista (risate!) Cicchitto. Ma si dà il fatto che gli eventuali pregiudizi "ideologici" sono stati clamorosamente confermati dai risultati. Centinaia di auto di lusso erano intestate a persone che dichiarano 30 mila euro all´anno. A Cicchitto basterebbe fare due conticini elementari per capire che qualcosa non quadra. E che, con ogni evidenza, se la Guardia di Finanza ha gettato le reti proprio a Cortina, e non a Igea Marina, è perché ogni lavoro ben fatto punta a ottimizzare i risultati. Nei paesi civili, dove per evasione fiscale si finisce in prigione, a nessuno viene in mente di strillare contro il Fisco ideologico e lo Stato di polizia. Quanto all´ideologia, se in questo Paese esiste una politica punitiva contro chi produce reddito e contro i benestanti, questa politica vede come protagonisti incontrastati gli evasori fiscali. Posso certificarlo proprio in quanto benestante: mi vedo circondato da persone che pur dichiarando un reddito dieci volte inferiore al mio, hanno un tenore di vita dieci volte superiore. Li considero nemici dello Stato e miei personali.
LA REPUBBLICA del 26 gennaio 2012
Nel nostro paese il novanta per cento delle merci viaggia in camion. Al di là di ogni questione ecologica (l´impatto ambientale è disastroso), colpisce la quasi totale dipendenza dei nostri consumi dagli autotrasporti. E il conseguente, smisurato potere (anche di ricatto) che la categoria può vantare nei confronti della società intera. Se i consumi a chilometri zero e la filiera corta vi sembrano solo ridicole utopie, o snobberie da nostalgici, ecco un´ottima occasione per rifletterci sopra, come si dice, laicamente. Il mercato, da sé, non è in grado di distinguere (ne è interessato a farlo) tra consumi virtuosi e consumi viziosi. Ma noi, magari, potremmo almeno provarci. Le arance siciliane a Milano sono una logica conquista (a Milano non crescono arance), ma bere a Roma acqua minerale delle Alpi, o mangiare in Piemonte peperoni olandesi, è una fesseria indotta da interessi del tutto estranei a quelli di chi li compera e li mangia. Comperare un cibo o una merce significa anche pagargli il biglietto del viaggio, ma quasi nessuno ci pensa. Il linguaggio dei consumi è complicato, o cominciamo a impadronircene, e a governarlo, o restiamo analfabeti, e come tali manipolabili, e sottomessi, e in balia di meccanismi destinati a sovrastarci in eterno.