LA REPUBBLICA del 5 aprile 2013
Anche il vecchio Billy Bragg, storica voce del proletariato inglese (una specie di Ken Loach della canzone), se la prende con Paolo Di Canio, “il fascista”. Per Di Canio quasi mi dispiace, la sua protervia politica rasenta l’ingenuità, ho un elenco lungo un chilometro di sportivi ben più sgradevoli e impresentabili di lui. Ma spero che la sua contrastata avventura sulla panchina del Sunderland serva a capire, non solamente a lui, che il fascismo, nell’Europa democratica, non è un’opzione politica. È un tabù. Da noi, specie nella capitale con i muri tappezzati di fascisterie, e in quello stadio che è spesso una selva di saluti romani, gli ultimi anni sono serviti a rendere familiare e dunque digeribile ciò che nel resto del continente puzza di deportazione, di guerra e di macerie fumanti. Quando Di Canio faceva il saluto romano alla curva laziale si poteva anche fare finta di niente e pensare che tanto, un’ora dopo, sarebbero tutti andati dalla sora Lella a fasse ’na magnata. Ma a Londra, in Francia, in Germania, in Scandinavia, non sono solo gli ebrei come David Miliband a considerare come un oltraggio razziale il saluto romano. In Italia l’antifascismo, grazie alla devastazione culturale e politica del berlusconismo, è diventato modernariato. Altrove, è ancora memoria cocente della dittatura che ha incenerito mezza Europa.
LA REPUBBLICA del 20 marzo 2013
Ha perfettamente ragione chi sostiene che la sostanziale esclusione del centrodestra (otto milioni di voti) dai giochi politici in corso è un problema di democrazia. Ma non è alla democrazia e alle sue regole che il problema va imputato. Un leader multiprocessato e multinquisito non è ordinaria amministrazione: è un’emergenza morale e politica, che si somma, tra l’altro, alla piaga incancrenita di un conflitto di interessi abnorme, che solo i disinformati e i faziosi sono riusciti, per quasi vent’anni, a mettere tra parentesi. A parte le sue petulanti pretoriane e il povero Alfano, gli unici che vanno in televisione a difenderlo, nessuna persona di buon senso può non vedere l’oggettiva catastrofe in atto: centrodestra al suo minimo storico dal 1945 a oggi, e con un leader che appare, più che impresentabile, inverosimile, totalmente screditato nel mondo, come sa bene ogni italiano che abbia mai messo il naso fuori dai confini. Possibile che, di fronte a un problema di rappresentanza così evidente, così irrisolto, così grave, nel centrodestra si continui ad accusare il mondo cattivo di persecuzione senza rendersi conto che si tratta di un caso classico di masochismo politico? Quanti Tafazzi ci sono, anche a destra?
LA REPUBBLICA del 21 marzo 2013
Nel gran parlare che si fa a proposito degli “italiani di alto profilo” candidabili per Palazzo Chigi o per il Quirinale o per un ministero, consola scoprire che questi italiani e italiane esistono, non sono pochi, e danno l’idea che uno straccio di classe dirigente, tutto sommato, ce la siamo meritata. Tra i tanti nomi letti oppure colti nelle chiacchiere di questi giorni, mi bastano quelli di Stefano Rodotà, Anna Maria Cancellieri, Valerio Onida, Salvatore Settis, Emma Bonino, Carlo Petrini, Gustavo Zagrebelski per immaginare un paese migliore, più competente e dignitoso: ma ognuno ha i suoi, di nomi spendibili. Se poi questa illustre pattuglia potesse giovarsi anche di qualche politico (ce ne sono, di persone di alto profilo e solida competenza, anche nella famigerata “casta”) sarebbe il massimo. Ma sentendo gli umori e leggendo i giornali pare di intendere che nell’attuale passaggio d’epoca avere fatto politica in questo Paese, comunque la si sia fatta, per qualunque fine e con qualunque mezzo, sia di grande ostacolo. I politici, nella politica, partono svantaggiati. Non tutti se lo meritano, ma non è questo il punto. Il punto è che di persone brave avremmo talmente bisogno che cancellare dal novero i politici di talento, e per bene, è davvero un lusso. Speriamo di poter tornare presto, come ovunque nel mondo, a considerare legittimo che i politici facciano politica.
LA REPUBBLICA del 9 febbraio 2013
Non era meglio la vecchia lotta di classe, piuttosto che il rancoroso e fragile borbottìo che ne ha preso il posto? Parlo della stonatissima polemica contro la figlia di Pietro Ichino, che ha il torto di lavorare (pensate che scandaloso privilegio!) in una casa editrice. La vecchia cultura di classe, piuttosto che sollevare sgradevoli e inutili casi personali, avrebbe messo l’accento sul vantaggio culturale e sociale che deriva dall’appartenenza alla borghesia urbana: vedi don Milani e la sua celebre considerazione sul padrone che è tale perché conosce più parole dell’operaio. Non faceva nome e cognome del padrone, don Milani. Parlava in generale perché voleva parlare di tutti e voleva parlare a tutti. Forse che questo rendeva meno forte, meno preciso il suo pensiero? Pensare politicamente vuol dire capire (o cercare di capire) la struttura della società e provare poi a cambiarla, non certo regolare conti personali. La polemica contro i “figli di”, con nomi e cognomi a volte congrui a volte del tutto ingiustificati, puzza di agitazione populista, non di ragionamento politico.
LA REPUBBLICA del 28 marzo 2013
Sperare che Grillo conceda uno spiraglio d´intesa, o anche solo di ascolto, a qualunque forma politica che non sia quella da lui creata e controllata, è pura illusione (lo dico da illuso conclamato, primo firmatario di un appello in favore di un governo di cambiamento rivolto anche a lui e ai suoi). La sua forza sta nell´isolamento, nel potere di veto e di distruzione, nella "superiorità" anche logistica che i suoi deputati e senatori hanno scelto in Parlamento. Mai mischiarsi, mai confondersi, mai abbassarsi allo stesso livello degli altri, massa indistinta di contaminati. Anche perché confrontandosi – cioè mettendosi sullo stesso piano degli altri – si rischia di vivere la stessa esperienza vissuta dal Capo in persona parlando faccia a faccia con Napolitano. Insolentito da lontano, il vecchio uomo di Stato non gli è dispiaciuto da vicino. Basta così poco – basta la realtà – a mutare il disprezzo in curiosità. Allo stesso modo, fino a che se ne rimane nel suo e tra i suoi, Grillo può comodamente definire "padri puttanieri" anche persone alle quali, faccia a faccia, probabilmente non oserebbe dirlo. Rischierebbe un ceffone in pieno viso, come può capitare quando si offende così orribilmente un essere umano in carne e ossa. Fatta da lontano, la politica è a rischio zero.
LA REPUBBLICA del 22 marzo 2013
Da un gruppo politico che fa le pulci all’universo mondo («è ora di resocontare anche le caramelle»), non ci si aspetterebbe l’ostinata contraffazione numerica che ancora ieri la capogruppo, signora Lombardi, ha ribadito dopo il colloquio al Quirinale: chiediamo l’incarico perché abbiamo avuto più voti degli altri. Con affabilità non formale, e pur sapendo che non è questo il punto determinante nell’attuale sconquasso politico, ripetiamo anche noi: Pd 8.932.523 voti, M5S 8.784.499 (alla Camera; al Senato il distacco è di quasi un milione e mezzo di voti in favore del Pd). Dati definitivi del Viminale, comprensivi del voto degli italiani all’estero. Davvero non si capisce per quale puerile impuntatura un movimento nato per rivoluzionare la politica e sbugiardare l’ipocrisia dei partiti sia così affezionato a un dato sbagliato. Ben altre sarebbero le ragioni per le quali Grillo può chiedere che l’incarico sia dato ai suoi: sono una novità politica dirompente, pur non essendo il loro simbolo il più votato. Dubitiamo, però, che questo rilievo (ormai reiterato su parecchi media e sul web) sia accolto dai portavoce delle Cinque Stelle: nello stato d’animo entusiasta tipico dei movimenti nascenti, la realtà è spesso di puro impiccio.
LA REPUBBLICA del 24 febbraio 2013
Amici mi telefonano in fibrillazione, altri angosciati, “se vince il Bugiardo io questa volta espatrio davvero”, “se vince il Matto va a catafascio il paese”, “se vince Bersani tanto poi non può governare”, “su due elettori uno è un imbecille certificato”, “la gente vota col portafogli o con la pancia, mai col cervello”, “la zia di mia moglie è una nazista”, e tutto il repertorio, ragionevole ma lugubre, sulla democrazia ammalata… Io invece, per motivi certamente irragionevoli, ma immutati nei decenni, vado a votare sempre di buon umore. Ho perso quasi tutte le elezioni dal 1974 a oggi, e dunque dovrei avere maturato, a proposito del voto, una radicata ostilità. Ma ci ricasco ogni volta, e ci ricasco volentieri, vado al seggio carico di rispetto e di fiducia, se incontro la zia nazista del mio amico la saluto e non mi sembra neanche così nazista, forse è il mio amico che è paranoico. Dove voto io sta nevicando forte, e la neve, a patto che uno non dia retta ai telegiornali che ne parlano come di una piaga biblica, mi mette di buon umore. Andrò a votare con il berretto di lana. Credo che abbia ragione quel mio amico: “Su due elettori, uno è un imbecille”, e quello imbecille sono io.
LA REPUBBLICA del 23 marzo 2013
Negli ambienti diplomatici circola un test, da sottoporre ai laureandi in politica internazionale e agli aspiranti ambasciatori come prova cruciale di ammissione. Il test è composto di una sola domanda: attraverso quali decisioni e quali atti ufficiali sarebbe possibile peggiorare le prestazioni del governo italiano nel caso dei due marò contesi con l´India? Queste le possibili risposte. A – Restituire uno solo dei marò tenendosi l´altro. B – Restituirli tutti e due, però muniti di turbante perché possano fingere di essere indiani e passare inosservati tra la folla. C – Pretendere che il tribunale indiano sia presieduto da un ammiraglio italiano in alta uniforme, accompagnato dalla Banda della Marina. D – Affidare la difesa dei due marò all´avvocato Taormina. E – Sostenere nel processo in India che le vittime non potevano essere pescatori indiani, perché gli indiani non sanno pescare. F – Pretendere dalle autorità indiane un congruo risarcimento per lo spreco di pallottole. G – Ricoverare i due marò al San Raffaele per accertamenti su un´eventuale uveite. H – Sostenere che la giurisdizione sull´Oceano Indiano è notoriamente di competenza della Pretura di Caserta. I – Invadere l´India. L – Indire una conferenza stampa e scoppiare in un pianto dirotto.
LA REPUBBLICA del 8 gennaio 2013
Si può anche capire che monsieur Depardieu, preoccupato per l’assottigliarsi delle sue scorte pantagrueliche di formaggio, porchette e damigiane di vino, sia irritato con il fisco del suo Paese. Si può capire, anche, che madame Bardot, addolorata per la malattia che affligge due anziane elefantesse dello zoo di Lione, sia furente con il servizio veterinario nazionale che non provvede a ricoverare i pachidermi in una clinica per lungodegenti, magari cacciando un paio di magrebini (Bardot, sposata a un fervente lepenista, non li sopporta). Quello che si capisce meno è che le due popolari star abbiano scelto come patria adottiva la Russia di Putin, paese che nel campo dei diritti arranca, e dista dalla Francia un paio di secoli. Probabile che chez Putin il fisco sia meno penalizzante (non per caso le immense ricchezze di quel Paese sono in mano a pochi oligarchi, che lo hanno depredato). Incerto il trattamento mutualistico riservato agli elefanti. Certissimi, invece, la galera per le Pussy Riot, la persecuzione (fino all’assassinio) delle voci libere come la Politkovskaja, lo spregio “virile” per gli omosessuali, il nazionalismo isterico, il neointegralismo religioso “di Stato”. Il putinismo di Depardieu e Bardot è così ridicolo da rivaleggiare con quello, già leggendario, dell’amico Silvio.
LA REPUBBLICA del 28 febbraio 2013
Vedremo (e sentiremo) cose che voi umani non avete mai visto e sentito. Decida ognuno se spaventarsi o gioire, la sola cosa certa è che le chiuse del tempo si sono spalancate di colpo, dopo molti anni di stagnazione. Quando Grillo candida al Quirinale Dario Fo che candida Carlo Petrini, chi storce il naso si domandi se lo storce perché ha a cuore le sorti della Repubblica o perché ha a cuore solo le proprie abitudini e le proprie categorie di giudizio. Spetta a tutti, di qui in poi, uno sforzo gigantesco per evitare le due evidenti maniere di diventare patetici. La prima è manifestare raccapriccio e sgomento per ognuna delle tante nuove cose con le quali ci toccherà fare i conti (e saranno anche conti con noi stessi). La seconda è manifestare entusiasmo a prescindere, come chi si accoda al nuovo solo per il terrore di sentirsi vecchio. Siamo in mezzo a un’onda di piena, nuotare o annegare è questione di sfumature.