LA REPUBBLICA del 29 settembre 2011
Preferisco Grilli perché è di Milano": questa sarebbe, secondo le cronache, l´opinione di Umberto Bossi sulla successione alla Banca d´Italia. Ora: stiamo parlando di un ministro della Repubblica. Del fondatore e leader di un partito che governa l´Italia, con brevi pause, da quasi vent´anni. Di un uomo di settant´anni che ha avuto il privilegio di vivere una vita da protagonista, da capo, da prima pagina, osservando il mondo da una posizione di assoluto rilievo.
Eppure, vedete a quanto poco servono il potere e il successo, quanto poco migliorano gli esseri umani. Di fronte a un atto politico di primo livello (di fronte, dunque, al suo mestiere e alle responsabilità del suo mestiere), il famoso politico Bossi se ne esce con un concetto così implacabilmente cretino da lasciare senza fiato: "preferisco Grilli perché è di Milano", parole che ai fini della scelta in questione – la nomina del governatore di Bankitalia – valgono zero, non hanno senso né decenza logica, e nemmeno un bambino di otto anni oserebbe pronunciarle se non per gioco, ai giardinetti, come quando si dice "io tifo per la Lazio" o "io preferisco tua sorella". Tra i tanti demeriti di Berlusconi non va trascurato quello di avere messo in ombra, con le sue colpe ipertrofiche, il livello zero che Bossi e la Lega hanno introdotto nella scena pubblica italiana.
LA REPUBBLICA del 19 ottobre 2011
Con l´arresto di "er Pelliccia" anche i Moti Romani di sabato scorso perdono quel poco o quel tanto di demoniaco (fuoco e fiamme) che si erano guadagnati sul campo. Già i calzoni a fior di mutanda, molto di moda tra i teenagers, conferivano alle immagini del giovane rivoltoso qualcosa di mestamente conformista, più da Upim che da Bastiglia. Si è poi saputo che il teenager è piuttosto maturo (24 anni), e maturissimo come matricola (primo anno di università), per dire che anche i movimenti più duri e più sinistri hanno i loro Trota. Quanto alle indagini, si dice che il povero Pelliccia, vistosi incastrato, abbia giustificato il lancio dell´estintore con la volontà di "spegnere un incendio", comicissima scusa, e qui si arriva, anzi si ritorna, a quell´eterno Alberto Sordi che siamo, alla piagnoneria ipocrita di "Un giorno in Pretura" e "a me m´ha rovinato la guera", e di nuovo si capisce perché il narratore dei nostri mali non è Dostoevskij, sono Age e Scarpelli. E viene una pena tremenda per quei genitori e anche per quel figlio, sbatacchiato tra le spire della storia senza nemmeno sospettarne la durezza e la cattiveria, rivoluzionario del sabato pomeriggio, già al lunedì ridotto al suo soprannome da macchietta di quartiere.
LA REPUBBLICA del 30 settembre 2011
Centinaia, migliaia di militanti leghisti si sentono traditi dai loro capi. Molto spesso si tratta (vedi la lettera al Corriere del sindaco di Macherio) di persone per bene, che si sono buttate in politica per servire la loro comunità. È un sollievo vederli reagire alla squallida agonia del governo di cui fanno parte. Non è un sollievo, però, sapere che a metterli in allarme, prima di adesso, non sono bastati quel linguaggio da trivio, quegli slogan razzisti, quella violenza verbale, quel dito medio divenuto il misero scettro del capo. Non è una questione di forma. Nessuna cosa davvero buona, davvero utile può nascondersi dentro un involucro così torbido e così sciatto. Il più onesto dei politici, il più virtuoso dei programmi non può usare a lungo parole volgari, battute infami, senza esserne intaccato, sporcato. Senza distruggere, per prima, la sua politica. Il linguaggio ben temperato e la cultura non sono vezzi da fichetti, come credono le camicie verdi (e come credevano gli squadristi). La cultura è ciò che dà dignità al popolo, lo libera dalla sottomissione, lo trasforma in classe dirigente. È facile, adesso che il vassallaggio di Bossi verso Berlusconi è così palese, sentirsi traditi. Peccato non essersi sentiti traditi prima, quando la rivoluzione leghista si annunciava, ancora in culla, con parole rasoterra, meschine, prive di nobiltà. Senza nobiltà (di intenzioni e di parole) la politica non può che tradire.
LA REPUBBLICA del 15 ottobre 2011
In una trasmissione radio che va per la maggiore, e ama esibire i casi umani della politica italiana (il deputato razzista, quello analfabeta, quello nazista, quello mafioso) come "numeri" divertenti, l´altra sera ho sentito una lunga, incredibile intervista all´onorevole Razzi, ex dipietrista oggi reclutato da Berlusconi. Per quanto avvezzi al progressivo sfacelo del Paese, non si poteva fare a meno di rimanere sgomenti di fronte alle sgrammaticature, gli errori di sintassi, l´italiano disperato di questo signore. Non indovina un ausiliare, ha detto «non avrei andato» e il concetto più articolato espresso è stato questo: «devolgo i soldi a costruire una chiesa distrutta». Si possono immaginare gli sghignazzi di chi l´ha nominato (per puro, incontrovertibile dolo) membro della commissione Cultura della Camera: uno sfregio che deve piacere molto anche a Vittorio Sgarbi, presente in trasmissione, che ha molto lodato il Razzi ricorrendo a quel gongolante cinismo che la destra italiana confonde con l´aplomb degli uomini di mondo. Parevano molto divertiti anche i due conduttori della trasmissione. A me è venuto un buco nello stomaco per la tristezza. Dato l´ottimo umore di tutti (di Sgarbi, di Razzi, dei conduttori) ho capito che quello fuori posto ero io.
LA REPUBBLICA del 20 ottobre 2011
Che cosa unisce un missionario comboniano e un vescovo lefebvriano? Una sola cosa, la fede cattolica. Ma per cultura, visione del mondo e degli uomini, pratiche sociali, idee politiche, i due sono esattamente agli antipodi. Schematizzando: estrema sinistra, estrema destra. In mezzo, ci sono milioni di cattolici che votano Berlusconi credendolo un difensore della famiglia tradizionale, e quasi altrettanti cattolici che lo spregiano come accanito profanatore dei loro convincimenti morali: segno oggettivo del fatto che i "valori cattolici", per gli uni e per gli altri, non sono assolutamente gli stessi. Chiedete a Giovanardi che cosa pensa dei diritti dei gay, e chiedetelo a un prete di strada come don Gallo, e otterrete risposte inconciliabili tra loro. Entrambe di cattolici. Dev´essere per questa totale variabilità e mutevolezza della presenza cattolica nella società e nella politica che fatico a mettere a fuoco dibattiti come quello conseguente al raduno di Todi. Rivolgersi "ai cattolici" o definirsi cattolici vale, in politica, quanto rivolgersi a tutti, e dunque a nessuno. In una società secolarizzata come la nostra, la politica, la cultura, la maniera di stare in società di ogni essere umano ne orientano i pensieri e gli atti in modo assai più determinante della confessione religiosa.
LA REPUBBLICA del 4 ottobre 2011
Le immagini dell´esercito di ragazzini fermati sul Ponte di Brooklyn fanno sussultare. Le facce imberbi, i capelli lunghi, perfino l´abbigliamento rimandano ai loro padri e madri, magari nonni, che occupavano i campus quasi mezzo secolo fa. Nei telegiornali il bianco e nero ha ceduto il passo al colore, ma il cortocircuito antropologico è così evidente da costringerci a domandarci se il tempo è davvero passato. È una sensazione sospesa tra il compiacimento (niente gratifica i genitori più che riconoscersi nei figli) e il malessere, perché la percezione di vivere un tempo bloccato, per noi occidentali, è sempre più frequente. E basta avere occhi e orecchie per capire che il potere contro il quale si mobilitano quei ragazzi è ancora più distante, ancora più escludente di quello che fu scosso dalle rivolte degli anni Sessanta. Ora c´è un presidente afroamericano, i costumi si sono molto liberalizzati, i diritti estesi: ma la struttura oligarchica dell´economia si è, se possibile, radicalizzata, e il sospetto che il destino di tutti sia determinato da pochissimi comitati d´affari è quasi una certezza. I concetti di giustizia e ingiustizia sono stati nel frattempo rivoltati, manipolati, ridefiniti molte e molte volte, ideologie sono morte, idee cambiate. Ma poiché è sempre l´ingiustizia a mettere le ali ai piedi ai cortei, dobbiamo dedurne che l´ingiustizia aveva perduto, molti anni fa, qualche battaglia, ma infine ha vinto la guerra. Si riparte daccapo, dunque.
LA REPUBBLICA del 21 ottobre 2011
Silvio Berlusconi ha detto ieri pomeriggio: «L´acronimo Pdl non comunica niente, non emoziona, non commuove». Uno ne prende atto e pensa: non vorrei essere nei panni di quel poveretto che ha inventato il Pdl. Adesso gli faranno un mazzo così. Pochi istanti dopo – giusto il tempo di rimettere in asse il cervello, operazione non facile e non immediata per un italiano di oggidì – torna in mente che è stato lui, Silvio Berlusconi, l´inventore di quell´acronimo che, parole sue, «non comunica niente, non emoziona, non commuove». E così, sempre cercando di rimanere aggrappati all´esile filo della logica, si cerca a tentoni una spiegazione. Si dà del pirla per far ridere gli amici? Quando decise il nome Pdl era sotto ipnosi? Venne rapito da bambino dagli alieni che lo usano come cavia per un raffinato esperimento politico, conquistare il pianeta Terra dicendo solo cazzate? Crede di non essere Silvio Berlusconi? Crede di esserlo stato, ma solo per alcuni periodi? Crede di esserlo così intensamente da potersi incarnare in più individui, tutti di così spiccata personalità da potersi dare del cretino a vicenda? È fuggito ai Caraibi già da parecchi mesi, e al suo posto ha lasciato un ologramma fuori controllo? Beve?
LA REPUBBLICA del 24 settembre 2011
Chi ritiene che "la politica non serve a niente", che "i politici sono tutti uguali", e come massimo sforzo di elaborazione critica arriva a individuare una imprecisata e generica "casta" come fonte di ogni disgrazia, dovrebbe concedersi una piccola riflessione sugli ultimi dieci anni di storia sarda, e dunque di politica sarda. Tra le politiche regionali vigenti (centrodestra) e quelle precedenti (centrosinistra, nella particolare fattispecie della Giunta Soru), la differenza è abissale. Così abissale da generare due Sardegne, diverse e inconfondibili: questa di adesso edificabile quasi fino alla riva del mare, l´altra che voleva mantenere integre le sue coste. Questa a disposizione del cemento, l´altra del paesaggio. Questa in offerta agli speculatori del continente e ai loro sodali locali, l´altra che cercava di indovinare come sarebbe (o come sarebbe stata) una Sardegna sarda. So di schematizzare (la lettura degli articoli di Antonio Cianciullo e Giovanni Valentini, su Repubblica di ieri, poteva darvi un´idea più completa). Ma nella sostanza, di questo si tratta: la sconfitta di Soru e la vittoria di un prestanome di Berlusconi ha determinato, per quella meravigliosa isola e il suo popolo, un cambio di destinazione che è anche un cambio di destino. La politica non conta? Tutti i politici sono uguali?
LA REPUBBLICA del 25 ottobre 2011
Certo che duole, la risatina franco-tedesca di scherno all´indirizzo del nostro (ridicolo) capo del governo. Ma ce la siamo meritata, no? Come italiani, voglio dire, come comunità di persone che non è stata in grado, in quasi vent´anni, prima di evitare e poi di far cessare una tragica farsa che si configurava esattamente tale già in partenza, con tutto quel cerone, quelle promesse assurde, quelle smargiassate da guitto, quella ricchezza smodata, quel reclutamento di mediocri purché obbedienti. E se per questo fallimento storico portiamo tutti almeno una briciola di colpa, l´onorevole Casini, che oggi fa le sue rimostranze da italiano offeso e reclama maggiore rispetto per il nostro Paese, ha invece colpe grandi come una montagna. Insieme a coloro che per anni hanno appoggiato Berlusconi per trarne vantaggi politici e visibilità personale. Non bisognava essere dei geni, e neanche essere di sinistra, per intuire il calibro di quell´uomo e la precarietà di quell´avventura. Se oggi il mondo ride di noi, l´onorevole Casini e l´intero novero degli alleati di Berlusconi, per primi i tanti confindustriali oggi preoccupati ma ieri plaudenti, devono considerarsi, a buon diritto, cointestatari di quelle risate. Ne hanno il diritto, se le sono conquistate sul campo.
LA REPUBBLICA del 6 ottobre 2011
Con il meraviglioso titolo di prima pagina "Silvio come Amanda", ieri il quotidiano Libero, non so quanto consapevolmente, ha chiuso definitivamente un cerchio. Dentro quel cerchio la politica è ingoiata, tutta intera, da una rappresentazione popolare insieme puerile e buffa, e la realtà è appena il remoto pretesto per fornire un canovaccio ai pupazzi che hanno sostituito le persone. "Silvio" e "Amanda", qualora fossero davvero il signor Silvio Berlusconi e la signorina Amanda Knox, ovviamente c´entrano niente l´uno con l´altra. Ma essendo diventati due giocattoli mediatici, Silvio e Amanda possono ben incrociare i loro destini sullo stesso scaffale, come il soldatino di piombo e la ballerina del carillon. Qualcuno cominciò, anni fa, a chiamarli tutti, buoni e cattivi, per nome o per nomignolo (Silvio, Amanda, Sarkò, Carlà, Olindo, Rosa, forse il prototipo fu Gorby). In sintonia perfetta con il processo di trasformazione dei cittadini in consumatori, degli adulti in bambini, dell´opinione pubblica in pubblico con poche opinioni, ma in perenne fibrillazione emotiva. Tutti quei pupazzi, come nei veri giochi infantili, sono lì apposta per essere vezzeggiati oppure fatti a pezzi, coccolati o dimenticati in fondo a un baule. Per sapere la fine di "Silvio" è inutile cianciare di piazza Loreto, bisognerebbe rivedere Toy Story.