LA REPUBBLICA del 28 ottobre 2011
È difficile immaginare qualcosa di più rattristante di una folla di quasi diecimila persone che fa a botte per entrare in un megastore e accaparrarsi televisori, ferri da stiro, frullatori in offerta speciale. È accaduto ieri a Roma vicino a Ponte Milvio, la città è rimasta ingorgata per ore. C´era gente in coda dall´alba, c´era gente accampata, e non era una coda per il pane, era una coda per sentirsi in regola con l´identità del consumatore medio, degno di vivere in questo mondo senza sentirsi di troppo. Mi basterebbe che qualcuno (anche solo uno su diecimila) all´improvviso si fosse sentito umiliato, in quella ressa di schiavi, per avere qualche speranza in più sul nostro futuro. Mi basterebbe che qualcuno, anche uno solo su diecimila, avesse improvvisamente scartato di lato, respirato forte, e fosse fuggito ovunque pur di non rimanere lì a fare la comparsa a pagamento (pagare per apparire, pagare per esistere). Non riesco a credere che un tostapane con lo sconto, pure se in tempi di crisi nera, sia in grado di trasformare le persone in uno sciame di mosche disposte a schiacciarsi l´una con l´altra pur di posare le zampe sulla propria briciola.
LA REPUBBLICA del 13 ottobre 2011
Raggiunto da un giornalista che gli chiedeva ragione della sua assenza in Parlamento durante il voto sul bilancio, il famoso deputato Scilipoti si è così giustificato: "Non potevano farmi una telefonata? Sarei andato a votare". Ecco che la presenza in Parlamento, da noi ingenuamente considerata un lavoro, viene descritta dallo Scilipoti come una prestazione facoltativa, un atto di liberalità da esercitare a seconda delle circostanze. Allo stesso modo, il pompiere che non spegne l´incendio perché è andato a pescare in orario di lavoro, o il barista che lascia deserto il locale nell´ora di punta, può ben rimproverare al cittadino ustionato, o al cliente senza caffè, di non avergli fatto un colpo di telefono: sarebbe subito accorso, che diamine. Diciamolo: lo Scilipoti, in termini tecnici, è uno che prende per il culo il popolo elettore, a nome dei suoi troppi colleghi assenteisti, disertori e renitenti che rubano lo stipendio e vanno in aula solo quando gli gira, o quando qualcuno gli telefona per segnalargli che in Parlamento, ogni tanto, si vota. Per colpa dello Scilipoti, tra l´altro, siamo costretti per la prima e speriamo ultima volta della nostra vita a fare nostre le parole di Alessandra Mussolini: "Se è vero che Scilipoti non ha votato deve restituire tutto quello che ha avuto". Per farlo, dovrà affittare un camion.
LA REPUBBLICA del 8 ottobre 2011
Non tutti i party dell´amico Putin rappresentano, per l´amico Silvio, un obbligo istituzionale. È dunque per puro spirito di abnegazione che il nostro premier non ne diserta uno. Ieri è volato a Mosca per la festa di compleanno del collega oligarca, e non c´è impedimento che regga: guerra mondiale, invasione marziana, meteorite in arrivo su Roma, a fare quattro salti da Putin si va sempre e comunque. Su quella linea aerea l´amico Silvio ha trascorso buona parte dei suoi numerosi mandati di governo, con qualche deviazione bielorussa e altre rapide visite a tirannidi minori ma molto pittoresche, con affari proficui da concludere sdraiati su pelli d´orso, mentre danzatrici circasse (tiro a indovinare) intrecciano vorticose coreografie. Insieme a tante altre cose, la passione orientalista di questo liberale da barzelletta è diventata un dato di fatto incontestabile: e difatti incontestato. Ci siamo abituati a considerare naturale, anzi ovvio, che Berlusconi faccia rotta quasi sempre verso Est, laddove sorge il sole e partono i gasdotti, e stringa fantastiche partnership con satrapi e dittatori assortiti. Manca – per adesso – un condottiero a cavallo, ma chissà che entro la fine della legislatura non entri in scena anche lui.
LA REPUBBLICA del 3 novembre 2011
Prego amici e conoscenti di sospendere telefonate e mail contenenti, da mesi, sempre la stessa domanda: ma quando cade, quand´è che si leva di torno? Perché questo mi costringe a ripetere sempre la stessa risposta: e come faccio a saperlo? Propongo di ribellarci a questa ossessione affidandoci alla famosa, più volte sperimentata e mai smentita legge della moka, secondo la quale se uno fissa la moka in attesa che il caffé salga, il caffé non sale. Mentre se uno si distrae e pensa ad altro, allora il caffé erompe con il suo allegro borbottio. Oltrettutto restare qui (per quanto ancora, poi?) a fissare in crocchio la stessa vecchia moka, continuando a darci di gomito e dirci, ogni giorno, "ecco, vedrai che ci siamo", è piuttosto umiliante, e dà l´idea che non si abbia di meglio da fare, nella vita. Che siamo un vecchio branco (vecchio come la moka) di maniaci ossessivi rassegnati a passare la vita nell´attesa che l´attesa finisca. Come terapia, ognuno pensi al tanto di bello e di utile che ha continuato a fare in tutti questi anni, e ancora deve fare. Persone e cose da amare, viaggi, libri, fiori, cassetti, lavori, progetti, fango da spalare, castagne da raccogliere (è stagione). è anche per la deplorevole trascuratezza di noi stessi e della vita vera che ci siamo fatti sequestrare, per tutti questi anni, da quel signore.
LA REPUBBLICA del 25 settembre 2011
Si moltiplicano le dichiarazioni allibite, disgustate, incredule di stranieri su Berlusconi. Politici, intellettuali, personalità pubbliche: buona ultima la direttrice di Vogue America, Anne Wintour, alla quale «sembra impossibile che voi italiani non abbiate fatto nulla per mandarlo via». Alla signora Wintour basterebbe fermarsi un mesetto tra noi per chiarire almeno in parte il mistero: l´uomo che al mondo intero (e a mezza Italia) sembra indecente e incapace è considerato un provvido benefattore e un prestigioso leader da milioni di nostri connazionali. I quali, per altro, ben difficilmente verranno a sapere quanto diffusamente lo si disprezza e lo si deride in giro per il mondo, perché i telegiornali più diffusi si guardano bene dal darne atto, del Paese danno un´immagine speranzosa e sorridente, del governo un´idea autorevole e operosa. Un italiano che viaggi e che non guardi solo Tg1 e reti Mediaset è perfettamente avvertito di quanto accade, di che calibro sia l´uomo che ci rappresenta, di che livello il suo entourage, e quali affari si consumano all´ombra del suo potere. Ma gli altri? In tivù mi è capitato di sentire un signore anziano, sorridente, simpatico, elogiare Berlusconi «perché sa molte lingue, a differenza di Prodi che non ne sapeva una». È vero esattamente il contrario. Ma lui non lo saprà mai. Come facciamo ad avvertirlo?
LA REPUBBLICA del 27 settembre 2011
Dalla tangente sui vecchietti (Mario Chiesa) al pizzo sulla pappa dei bambini delle materne (Parma, 2011) sono passati vent´anni. È come un cerchio che si chiude, e chiudendosi ci riporta al punto di partenza. Molti italiani possono lamentare l´inutilità del tempo trascorso: ci ritroviamo, una generazione dopo, a fare le stesse precise considerazioni sul tradimento etico di una classe dirigente e sulle fragilissime fondamenta della morale pubblica.
Ma per altri italiani (molti, forse moltissimi) questi vent´anni non sono affatto passati invano. Grazie alla progressiva sconfitta del cosiddetto "giustizialismo" (il solo affermarsi di quella parola segna la netta vittoria culturale degli immoralisti al potere), e allo sdoganamento politico-culturale dell´ambizione privata come giustificazione di qualunque furbata o porcheria o sopraffazione, sono diventati ricchi. Hanno fatto strada, strappato appalti, conquistato amicizie. Si sono sentiti finalmente liberi di dare gomitate, di essere sleali, di vivere "da leoni e non da pecore" come da folgorante sintesi di una delle fidanzatine del Sire. Rispetto a vent´anni fa, il ceto dei furbi e degli sgomitanti non è solo materialmente più vasto e radicato. È, soprattutto, più cosciente della propria nuova centralità politica e del proprio diritto (sì, diritto) di farsi largo con ogni mezzo. Bastò una procura, vent´anni fa, per ribaltare l´Italia. Non ne basterebbero cento, oggi, per ridarle fiato.
Ma per altri italiani (molti, forse moltissimi) questi vent´anni non sono affatto passati invano. Grazie alla progressiva sconfitta del cosiddetto "giustizialismo" (il solo affermarsi di quella parola segna la netta vittoria culturale degli immoralisti al potere), e allo sdoganamento politico-culturale dell´ambizione privata come giustificazione di qualunque furbata o porcheria o sopraffazione, sono diventati ricchi. Hanno fatto strada, strappato appalti, conquistato amicizie. Si sono sentiti finalmente liberi di dare gomitate, di essere sleali, di vivere "da leoni e non da pecore" come da folgorante sintesi di una delle fidanzatine del Sire. Rispetto a vent´anni fa, il ceto dei furbi e degli sgomitanti non è solo materialmente più vasto e radicato. È, soprattutto, più cosciente della propria nuova centralità politica e del proprio diritto (sì, diritto) di farsi largo con ogni mezzo. Bastò una procura, vent´anni fa, per ribaltare l´Italia. Non ne basterebbero cento, oggi, per ridarle fiato.
LA REPUBBLICA del 16 ottobre 2011
I black bloc farebbero una splendida carriera a Wall Street. Sono una piccola cricca di speculatori, del tutto indifferenti alla ricaduta delle loro gesta sulla società. Se ne fregano delle conseguenze, del prezzo che fanno pagare agli altri, vivono per il brivido di sentirsi un´avanguardia, disprezzano la massa disarmata, considerano il mondo il palcoscenico delle loro scorrerie. La politica, per loro, è come l´economia per i peggiori gangster della Borsa: qualcosa da privatizzare, da usare per i propri comodi, da piegare alla propria supremazia. Sono quasi tutti giovani maschi. Rarissime, quasi introvabili le donne. Come nella finanza, come in ogni campo di battaglia dove si menano le mani per mostrarsi vincenti, dove si fa male agli altri, dove si frega il prossimo. Difficile, per i pacifici e gli inermi, difendersi, specie in un periodo storico come questo che è fatto di guerre per bande, con le grandi organizzazioni politiche in affanno, e i movimenti di massa facili da scalare, da strumentalizzare, da dirottare. Ci vorranno molto coraggio e molta fantasia, in futuro, per inventare forme di lotta politica che non offrano a questi giovani pescecani la trippa, troppo facile, dove affondare le zanne.
LA REPUBBLICA del 28 settembre 2011
Pure se da un pulpito molto precario (sono il classico relativista etico), faccio parte del folto gruppo di italiani che avevano facilmente colto già sul nascere, nel potere berlusconiano, quei tratti smodati e quella mancanza di misura che il cardinale Bagnasco ha infine denunciato, suscitando grande fragore mediatico. È strano: almeno in teoria, il vaglio morale della Chiesa dovrebbe essere ben più ristretto e severo di quello della gente come me, che non promulga codici di comportamento sessuale né saprebbe indicare Modelli di Famiglia maiuscoli come quello vidimato dal cattolicesimo romano. Evidentemente, non essendo sospettabile che cotanta autorità morale colga lo scandalo con clamoroso ritardo rispetto a noi dilettanti dell´etica, dobbiamo dedurne che altri impedimenti hanno suggerito a Roma di tacere per tanti anni quanti ne sono bastati, a Berlusconi, per dare a bere a un sacco di italiani che lui governava nel nome dei valori della Famiglia. Sono, questi impedimenti, affare interno della Chiesa. Ma rendono difficile da capire, per quelli come me, l´entusiasmo che ha accolto le parole di Bagnasco, essendo quelle stesse parole, o parole molto simili, già state dette e scritte infinite volte da infiniti altri. Ben prima di lui.
LA REPUBBLICA del del 18 ottobre 2011
Torna alla grande zio Michele, nello splendore del 40 pollici, e non c´è difesa. O uno diserta le edicole e spegne la televisione per giorni interi, oppure deve soccombere di fronte al presepe scellerato di Avetrana che ci viene ammannito in tutti i formati e in tutte le salse. La momentanea pausa nelle procedure di indagine è stata riempita, nel frattempo, da altri provvidi orrori di stampa (per esempio Erika e Omar, costui ospite di uno studio televisivo Mediaset al quale auguro di essere centrato da un meteorite), come quando riposa il campionato e gioca la Nazionale. Esiste una continuità, e una contiguità, tra delitto e delitto, confondo Erba con Cogne, l´Olgiata con via Poma, le povere vittime con i sadici assassini. Ma zio Michele (non la persona, ovviamente, ma il pupazzo telegiornalistico) è inconfondibile, unico, una specie di mascotte vivente della degenerazione mediatica italiana. Dev´essere per via di quello "zio" che manda in vacca già sul nascere la trama finto-diabolica di un racconto che invece, specie grazie alla programmazione meridiana delle peggio trasmissioni Rai e Mediaset, odora di pasta e ceci sul fuoco, di pantofole, di banalità biascicate nei dialetti immutabili dell´Italia ieri contadina e oggi televisiva.
LA REPUBBLICA del 3 agosto 2011
uando si legge "Italia nel mirino", "attacco all´Italia", si vorrebbe capire meglio. "Italia" non è un concetto così compatto, così rotondo da permetterci di equivocare su differenze sociali enormi, che espongono ai morsi della crisi in modo assai difforme. Ci sono italiani che vincono e perdono in Borsa milioni di euro, italiani per i quali un crollo in piazza Affari è solo un´eco lontana. Ci sono italiani per i quali i tagli allo stato sociale sono un dramma vero, altri che non ne risentono affatto. Ci sono italiani per i quali un aggravio fiscale anche di mezzo punto è un´ulteriore mazzata, altri ai quali non importa nulla perché dichiarano redditi ridicoli e il loro bottino è in nero, nascosto e inattaccabile come il bottino del ladro o il gruzzolo del tirchio. Nei tempi andati si è forse esagerato, con "l´analisi di classe". Ora si è caduti nell´errore opposto, le classi e i conflitti di classe sono spariti dal discorso politico, espunti dal vocabolario corrente, e proprio in un momento storico di drammatica contrapposizione tra interessi diversi, spesso opposti. Il salariato e lo speculatore, il giovane precario e Marchionne non stanno giocando la stessa partita. È bene che esista un sentimento nazionale, di comunità, ma è bene anche che questo sentimento non valga come sipario ipocrita, come truffa ideologica per occultare le ben differenti condizioni sociali ed economiche nascoste nella parola "Italia".