LA REPUBBLICA del del 18 ottobre 2011
Torna alla grande zio Michele, nello splendore del 40 pollici, e non c´è difesa. O uno diserta le edicole e spegne la televisione per giorni interi, oppure deve soccombere di fronte al presepe scellerato di Avetrana che ci viene ammannito in tutti i formati e in tutte le salse. La momentanea pausa nelle procedure di indagine è stata riempita, nel frattempo, da altri provvidi orrori di stampa (per esempio Erika e Omar, costui ospite di uno studio televisivo Mediaset al quale auguro di essere centrato da un meteorite), come quando riposa il campionato e gioca la Nazionale. Esiste una continuità, e una contiguità, tra delitto e delitto, confondo Erba con Cogne, l´Olgiata con via Poma, le povere vittime con i sadici assassini. Ma zio Michele (non la persona, ovviamente, ma il pupazzo telegiornalistico) è inconfondibile, unico, una specie di mascotte vivente della degenerazione mediatica italiana. Dev´essere per via di quello "zio" che manda in vacca già sul nascere la trama finto-diabolica di un racconto che invece, specie grazie alla programmazione meridiana delle peggio trasmissioni Rai e Mediaset, odora di pasta e ceci sul fuoco, di pantofole, di banalità biascicate nei dialetti immutabili dell´Italia ieri contadina e oggi televisiva.
LA REPUBBLICA del 5 ottobre 2011
Se fossi il ministro degli Interni ad interim di tutte le Galassie, io l´altro giorno, sul pianeta Terra, avrei ordinato due retate: una a Perugia e una a Seattle. Una contro quelli che strillavano "vergogna" fuori dal Tribunale, levando istericamente il braccio nel gesto para-fascista delle curve ultras, l´altra contro la ridicola claque yankee che plaudiva in lacrime all´assoluzione in mondovisione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Due popolini di opposto sentire ma di idem scemenza, al tempo stesso vittime e artefici della credulità di massa e dell´orrore mediatico. È anche grazie a loro e per loro che i giornali peggiorano, la televisione peggiora, l´informazione peggiora, sono loro le foche ammaestrate di quel circo emotivo, fracassone, superficiale che osiamo chiamare "informazione". Non è vero che per fare silenzio (per capire, cioè, che il silenzio è il solo atteggiamento all´altezza della Morte e del Giudizio) ci vogliono la laurea in filosofia e un master di criminologia. Per fare silenzio basta considerarsi al di sotto della verità, come ogni essere umano sa di essere nel novantanove per cento delle circostanze della vita. Il mostruoso equivoco generato dalla civiltà mediatica è che a ogni pirla in circolazione bastano i titoli di un telegiornale per sentirsi Testimone della Verità. La verità su quel delitto la sanno gli imputati e (forse) i giudici e gli avvocati che per anni ci hanno lavorato sopra. Per gli altri vale più che mai l´ordine di sgomberare l´aula.
LA REPUBBLICA del 29 settembre 2011
Preferisco Grilli perché è di Milano": questa sarebbe, secondo le cronache, l´opinione di Umberto Bossi sulla successione alla Banca d´Italia. Ora: stiamo parlando di un ministro della Repubblica. Del fondatore e leader di un partito che governa l´Italia, con brevi pause, da quasi vent´anni. Di un uomo di settant´anni che ha avuto il privilegio di vivere una vita da protagonista, da capo, da prima pagina, osservando il mondo da una posizione di assoluto rilievo.
Eppure, vedete a quanto poco servono il potere e il successo, quanto poco migliorano gli esseri umani. Di fronte a un atto politico di primo livello (di fronte, dunque, al suo mestiere e alle responsabilità del suo mestiere), il famoso politico Bossi se ne esce con un concetto così implacabilmente cretino da lasciare senza fiato: "preferisco Grilli perché è di Milano", parole che ai fini della scelta in questione – la nomina del governatore di Bankitalia – valgono zero, non hanno senso né decenza logica, e nemmeno un bambino di otto anni oserebbe pronunciarle se non per gioco, ai giardinetti, come quando si dice "io tifo per la Lazio" o "io preferisco tua sorella". Tra i tanti demeriti di Berlusconi non va trascurato quello di avere messo in ombra, con le sue colpe ipertrofiche, il livello zero che Bossi e la Lega hanno introdotto nella scena pubblica italiana.
LA REPUBBLICA del 19 ottobre 2011
Con l´arresto di "er Pelliccia" anche i Moti Romani di sabato scorso perdono quel poco o quel tanto di demoniaco (fuoco e fiamme) che si erano guadagnati sul campo. Già i calzoni a fior di mutanda, molto di moda tra i teenagers, conferivano alle immagini del giovane rivoltoso qualcosa di mestamente conformista, più da Upim che da Bastiglia. Si è poi saputo che il teenager è piuttosto maturo (24 anni), e maturissimo come matricola (primo anno di università), per dire che anche i movimenti più duri e più sinistri hanno i loro Trota. Quanto alle indagini, si dice che il povero Pelliccia, vistosi incastrato, abbia giustificato il lancio dell´estintore con la volontà di "spegnere un incendio", comicissima scusa, e qui si arriva, anzi si ritorna, a quell´eterno Alberto Sordi che siamo, alla piagnoneria ipocrita di "Un giorno in Pretura" e "a me m´ha rovinato la guera", e di nuovo si capisce perché il narratore dei nostri mali non è Dostoevskij, sono Age e Scarpelli. E viene una pena tremenda per quei genitori e anche per quel figlio, sbatacchiato tra le spire della storia senza nemmeno sospettarne la durezza e la cattiveria, rivoluzionario del sabato pomeriggio, già al lunedì ridotto al suo soprannome da macchietta di quartiere.
LA REPUBBLICA del 30 settembre 2011
Centinaia, migliaia di militanti leghisti si sentono traditi dai loro capi. Molto spesso si tratta (vedi la lettera al Corriere del sindaco di Macherio) di persone per bene, che si sono buttate in politica per servire la loro comunità. È un sollievo vederli reagire alla squallida agonia del governo di cui fanno parte. Non è un sollievo, però, sapere che a metterli in allarme, prima di adesso, non sono bastati quel linguaggio da trivio, quegli slogan razzisti, quella violenza verbale, quel dito medio divenuto il misero scettro del capo. Non è una questione di forma. Nessuna cosa davvero buona, davvero utile può nascondersi dentro un involucro così torbido e così sciatto. Il più onesto dei politici, il più virtuoso dei programmi non può usare a lungo parole volgari, battute infami, senza esserne intaccato, sporcato. Senza distruggere, per prima, la sua politica. Il linguaggio ben temperato e la cultura non sono vezzi da fichetti, come credono le camicie verdi (e come credevano gli squadristi). La cultura è ciò che dà dignità al popolo, lo libera dalla sottomissione, lo trasforma in classe dirigente. È facile, adesso che il vassallaggio di Bossi verso Berlusconi è così palese, sentirsi traditi. Peccato non essersi sentiti traditi prima, quando la rivoluzione leghista si annunciava, ancora in culla, con parole rasoterra, meschine, prive di nobiltà. Senza nobiltà (di intenzioni e di parole) la politica non può che tradire.
LA REPUBBLICA del 15 ottobre 2011
In una trasmissione radio che va per la maggiore, e ama esibire i casi umani della politica italiana (il deputato razzista, quello analfabeta, quello nazista, quello mafioso) come "numeri" divertenti, l´altra sera ho sentito una lunga, incredibile intervista all´onorevole Razzi, ex dipietrista oggi reclutato da Berlusconi. Per quanto avvezzi al progressivo sfacelo del Paese, non si poteva fare a meno di rimanere sgomenti di fronte alle sgrammaticature, gli errori di sintassi, l´italiano disperato di questo signore. Non indovina un ausiliare, ha detto «non avrei andato» e il concetto più articolato espresso è stato questo: «devolgo i soldi a costruire una chiesa distrutta». Si possono immaginare gli sghignazzi di chi l´ha nominato (per puro, incontrovertibile dolo) membro della commissione Cultura della Camera: uno sfregio che deve piacere molto anche a Vittorio Sgarbi, presente in trasmissione, che ha molto lodato il Razzi ricorrendo a quel gongolante cinismo che la destra italiana confonde con l´aplomb degli uomini di mondo. Parevano molto divertiti anche i due conduttori della trasmissione. A me è venuto un buco nello stomaco per la tristezza. Dato l´ottimo umore di tutti (di Sgarbi, di Razzi, dei conduttori) ho capito che quello fuori posto ero io.
LA REPUBBLICA del 20 ottobre 2011
Che cosa unisce un missionario comboniano e un vescovo lefebvriano? Una sola cosa, la fede cattolica. Ma per cultura, visione del mondo e degli uomini, pratiche sociali, idee politiche, i due sono esattamente agli antipodi. Schematizzando: estrema sinistra, estrema destra. In mezzo, ci sono milioni di cattolici che votano Berlusconi credendolo un difensore della famiglia tradizionale, e quasi altrettanti cattolici che lo spregiano come accanito profanatore dei loro convincimenti morali: segno oggettivo del fatto che i "valori cattolici", per gli uni e per gli altri, non sono assolutamente gli stessi. Chiedete a Giovanardi che cosa pensa dei diritti dei gay, e chiedetelo a un prete di strada come don Gallo, e otterrete risposte inconciliabili tra loro. Entrambe di cattolici. Dev´essere per questa totale variabilità e mutevolezza della presenza cattolica nella società e nella politica che fatico a mettere a fuoco dibattiti come quello conseguente al raduno di Todi. Rivolgersi "ai cattolici" o definirsi cattolici vale, in politica, quanto rivolgersi a tutti, e dunque a nessuno. In una società secolarizzata come la nostra, la politica, la cultura, la maniera di stare in società di ogni essere umano ne orientano i pensieri e gli atti in modo assai più determinante della confessione religiosa.
LA REPUBBLICA del 4 ottobre 2011
Le immagini dell´esercito di ragazzini fermati sul Ponte di Brooklyn fanno sussultare. Le facce imberbi, i capelli lunghi, perfino l´abbigliamento rimandano ai loro padri e madri, magari nonni, che occupavano i campus quasi mezzo secolo fa. Nei telegiornali il bianco e nero ha ceduto il passo al colore, ma il cortocircuito antropologico è così evidente da costringerci a domandarci se il tempo è davvero passato. È una sensazione sospesa tra il compiacimento (niente gratifica i genitori più che riconoscersi nei figli) e il malessere, perché la percezione di vivere un tempo bloccato, per noi occidentali, è sempre più frequente. E basta avere occhi e orecchie per capire che il potere contro il quale si mobilitano quei ragazzi è ancora più distante, ancora più escludente di quello che fu scosso dalle rivolte degli anni Sessanta. Ora c´è un presidente afroamericano, i costumi si sono molto liberalizzati, i diritti estesi: ma la struttura oligarchica dell´economia si è, se possibile, radicalizzata, e il sospetto che il destino di tutti sia determinato da pochissimi comitati d´affari è quasi una certezza. I concetti di giustizia e ingiustizia sono stati nel frattempo rivoltati, manipolati, ridefiniti molte e molte volte, ideologie sono morte, idee cambiate. Ma poiché è sempre l´ingiustizia a mettere le ali ai piedi ai cortei, dobbiamo dedurne che l´ingiustizia aveva perduto, molti anni fa, qualche battaglia, ma infine ha vinto la guerra. Si riparte daccapo, dunque.
LA REPUBBLICA del 21 ottobre 2011
Silvio Berlusconi ha detto ieri pomeriggio: «L´acronimo Pdl non comunica niente, non emoziona, non commuove». Uno ne prende atto e pensa: non vorrei essere nei panni di quel poveretto che ha inventato il Pdl. Adesso gli faranno un mazzo così. Pochi istanti dopo – giusto il tempo di rimettere in asse il cervello, operazione non facile e non immediata per un italiano di oggidì – torna in mente che è stato lui, Silvio Berlusconi, l´inventore di quell´acronimo che, parole sue, «non comunica niente, non emoziona, non commuove». E così, sempre cercando di rimanere aggrappati all´esile filo della logica, si cerca a tentoni una spiegazione. Si dà del pirla per far ridere gli amici? Quando decise il nome Pdl era sotto ipnosi? Venne rapito da bambino dagli alieni che lo usano come cavia per un raffinato esperimento politico, conquistare il pianeta Terra dicendo solo cazzate? Crede di non essere Silvio Berlusconi? Crede di esserlo stato, ma solo per alcuni periodi? Crede di esserlo così intensamente da potersi incarnare in più individui, tutti di così spiccata personalità da potersi dare del cretino a vicenda? È fuggito ai Caraibi già da parecchi mesi, e al suo posto ha lasciato un ologramma fuori controllo? Beve?
LA REPUBBLICA del 24 agosto 2011
I famosi "miliardari russi", alcuni dei quali protagonisti, dopo la caduta dell´Urss, di una delle più colossali spoliazioni di beni collettivi mai viste nella storia dell´umanità, hanno ormai rimpiazzato nel nostro immaginario gli sceicchi arabi. Panfili di speciale cafonaggine e spese sfrontate ne segnano il passaggio nelle località turistiche più celebri e anche più trite, dove nemmeno Christian Vieri si fa più vedere, e dove loro arrivano con qualche decennio di ritardo sulle mode, per l´incredula gioia di albergatori e ristoratori che non speravano più di poter vuotare i freezer e le cantine. Alcuni di costoro acquistano e gestiscono squadre di calcio (russe e non) triplicando o quadruplicando investimenti e stipendi, e rovesciando sul tavolo da gioco tanti quattrini quanti ne dovrebbero bastare, in teoria, a sbaragliare ogni avversario. Ma fin qui hanno vinto poco o nulla, e i titoli di giornale che li riguardano non misurano le vittorie, ma lo sfondamento sistematico di ogni criterio economico e di ogni fair-play. Chi crede che il denaro non sia tutto segua le imprese dei nuovi ricchi dell´Est: sono una preziosa testimonianza che effettivamente no, il denaro non è tutto.