LA REPUBBLICA del 28 agosto 2011
"Prassi diffusa nel territorio, cui il gruppo è stato costretto ad adeguarsi". Così si difende la conceria vicentina accusata dalla Finanza di un´evasione colossale: oltre cento milioni di euro. Non so se gli autori di quel comunicato ne hanno contezza, ma essere "costretti ad adeguarsi a una prassi diffusa nel territorio" è giustificazione tipica dei luoghi di mafia. È a Corleone, è in Aspromonte che ogni reato, ogni comportamento illecito viene fatto risalire, allargando le braccia, a un invincibile condizionamento ambientale. La differenza è che in terre di mafia chi si ribella rischia la vita. Laggiù nel Vicentino (profondo Meridione d´Europa) ribellarsi significa rischiare di guadagnare meno schei.
Una comunità di ex contadini poveri e ex migranti è diventata ricca lavorando duro e tagliando i ponti con le regole dello Stato e quelle del sindacato. Come i cinesi di Prato, ma molto prima di loro. Con una coesione interna ferrea e omertosa (non si possono evadere cifre del genere senza il consenso di tutti, operai per primi). Per evitare il solito commento "moralista": se tutto questo fosse servito a erigere una società migliore, pazienza. Ma quante librerie, quanti cinema, quanti teatri, quanta socialità, quanta buona architettura, quanta ecologia, quanta bellezza è stata realizzata, grazie alla cospicua refurtiva? Da Arzignano, in questo senso, non arrivano buone notizie.
LA REPUBBLICA del 21 settembre 2011
A Guido Ceronetti, che lamenta la scomparsa di molte parole della nostra tradizione linguistica, vorrei dare una buona anzi ottima notizia, che è la ricomparsa in grande stile, e ai massimi livelli, del verbo "bastonare", che odora di teatro dei burattini e di commedia dell´arte, quando ancora l´inglese onomatopeico dei fumetti non aveva fatto trionfare il "bonk". Il ritorno della bastonatura è dovuto a due grandi caratteristi della scena odierna: è l´avvocato Ghedini a raccontare che Valter Lavitola minacciò «di bastonarlo», in margine a una discussione sulle candidature. Si avverte, nella disputa tra il Lavitola e il Ghedini, il profondo radicamento di due italiani moderni alle loro tradizioni culturali. È Brighella, è Arlecchino che bastona o viene bastonato (e i bimbi ridono, gridano e battono le mani), in genere poco prima che cali il sipario. Il bastone non è arma di cavalieri o paladini, che usano il ferro. Non esiste, tra i bastoni, un Excalibur. Il bastone è l´arma ignobile che punisce il servo (gli cala, secondo il canone, "sul groppone"), o regola le contese tra i poveracci. È bello, e a suo modo emozionante, che ancora ci si bastoni, a destra, come pretende la natura popolare che i berlusconiani hanno inteso darsi. Anche quando ben pagati, direttori di giornale e deputati, l´antico Dna della maschera manesca a crapulona si fa valere.
LA REPUBBLICA del 30 agosto 2011
Ha ragione Matteo Renzi, quando dice di non credere alla "diversità etica" tra destra e sinistra. Ma dovrebbe spiegarlo alla destra italiana, ai suoi giornali, alla sua classe dirigente, che di quella diversità etica sembrano invece essere i più convinti sostenitori, perché sbarrano gli occhi e si indignano per il caso Penati, ma non battono ciglio di fronte al viluppo di scandali nel quale sprofonda il sistema berlusconiano: il solo giro di assegni del Sire ai suoi beneficiati (difficile distinguere tra amici, mantenuti, spacciatori di sesso e ricattatori) vale almeno quanto il "sistema Sesto" in termini di valuta, ed è ben più disgustoso quanto a etica del potere, stili di vita, vulnerabilità delle istituzioni. E dunque, si incoraggi infine la destra italiana a smetterla di considerare "diversa" la sinistra, e dunque più scandalosi gli scandali della sinistra. E a smetterla di avere di se stessa, del proprio leader, della propria classe dirigente, un´opinione così infima, e così rassegnata, da considerare ordinaria amministrazione quel troiaio (toscanismo) nel quale ministri, viceministri e lo stesso leader sono invischiati fino al collo. Basta con questa pregiudiziale denigrazione della destra italiana. Basta con i complessi di inferiorità della destra italiana.
LA REPUBBLICA del 22 settembre 2011
Umberto Bossi sa benissimo che non è possibile indire un referendum sulla secessione. Sa altrettanto bene che, casomai fosse possibile, la sedicente Padania sarebbe definitivamente sepolta da una valanga di "no", anche al Nord. Neppure l´elettorato leghista voterebbe al completo per uno Stato inesistente e per giunta retto, già al suo nascere, da un clan di tipo gheddafiano come quello messo in piedi da Bossi, con tanto di figli nominati ministri e cittì della Nazionale. E allora, perché lo dice? Lo dice – come nella tradizione della peggiore politica – solo per conservare il suo potere, rianimare il suo carisma sgonfiato da anni di fedele servizio alla corte di Arcore, illudere fino allo stremo il suo popolo. Lo dice sapendo che il sogno della Padania (oltre a essere un incubo per la grande maggioranza degli italiani) è, appunto, solo un sogno. Ogni parola spesa da Bossi in questi anni era fondata su un´invenzione retorica, finalizzata alla sua carriera politica. Giurare (spergiurando) sulla Costituzione italiana per diventare ministro di una Nazione che vuole distruggere è già una colpa grave: ma ai danni del "nemico". Il cinismo politico può giustificarla. Ma imbrogliare migliaia di militanti e un paio di milioni di elettori facendo loro credere che un giorno saranno "padani" vuol dire approfittare anche di chi ti è amico.
LA REPUBBLICA del 10 settembre 2011
Nel suo nuovo, bellissimo stadio torinese, la Juventus espone con legittimo orgoglio i titoli conquistati. Tra questi anche i due scudetti revocati dalla giustizia sportiva, incastonati nelle nuove mura con identica dignità degli altri ventisette. Il significato del gesto è di lampante chiarezza: quanto ha deciso la giustizia sportiva è ininfluente. Per la Juventus quei due scudetti sono vinti, punto e basta. Non so fino a che punto i giovani eredi Agnelli siano coscienti della devastante forza simbolica di questa ostensione, che ribadisce nel più autorevole e insieme popolare dei modi quanto, del resto, ci è già noto da tempo: niente, in questo paese, è uguale per tutti, tanto meno quanto discende da un´autorità pubblica, da una legge, da una regola (teoricamente) riconosciuta. Sono le passioni private, tanto più se sostenute dal potere maieutico del denaro, a prevalere sempre e comunque: e se gli Agnelli hanno deciso che quei due scudetti sono della Juve, quei due scudetti sono della Juve. Siamo, in questo senso, un paese feudale, e se il nuovo stadio bianconero ha splendida modernità di forme, quei due trofei rapiti alle pubbliche galere ed esposti all´adorazione del popolo ne rivelano il cuore da antico maniero. Il Signore detta le mosse del torneo, la folla plaude. La legge? Si fotta.
LA REPUBBLICA del 4 agosto 2011
Le voci sull´"inevitabile passo indietro" di Giulio Tremonti, che solo un paio di giorni fa erano un coro, già cominciano a diradarsi. Il conto alla rovescia che conduce all´eclissi politica di Berlusconi, iniziato dopo il tracollo elettorale di primavera, non sembra avere fretta di arrivare al suo esito. Scandali, processi, richieste di autorizzazione a procedere, dileggio internazionale, cadute parlamentari, figure ridicole come quella degli pseudoministeri a Monza, niente sembra scalfire un potere talmente malconcio e screditato che ogni nuova ferita subito si confonde e scompare nel dedalo delle precedenti. Basti, tra tutte, la parabola esemplare dell´ex ministro Scajola, che non anni addietro, ma nel corso di questa stessa legislatura (maggio 2010), parve politicamente morto e sepolto, dopo il disdoro che gli era caduto addosso a causa del clamoroso scandalo dell´appartamento romano "pagato a sua insaputa" da altri. Beh, poco più di un anno dopo Scajola è riverito e influente capo-corrente del Pdl. La sua carriera politica è in pieno e florido corso, e non a sua insaputa. I giornali lo intervistano come autorevole leader nazionale, certamente in lizza per orientare i destini del centrodestra. Più che dell´immoralità, in questo paese bisognerebbe discutere dell´immortalità.
LA REPUBBLICA del 31 agosto 2011
Di tutte le bugie dette da questo nostro tristo premier, "non ho messo le mani nelle tasche degli italiani" è tra le più grossolane e ridicole. Non ha messo le mani nelle tasche dei benestanti, questo sì, né in quelle di chi ha imboscato quattrini frodandoli al fisco e dunque alla comunità: per loro c’è solo lo spettro dei soliti "controlli incrociati", per altro già da tempo memorabile nelle facoltà d´azione dell´erario e della Finanza quando mai avessero uomini e mezzi bastanti. Ma le ha messe, eccome, nelle tasche della gente comune, rosicchiando spiccioli, decurtando servizi, tagliuzzando pensioni, con uno di quei soliti drenaggi mezzo disperati mezzo pitocchi che in Italia chiamiamo pomposamente "manovre" e che non cambiano mai niente di strutturale, non intaccano mai i privilegi, non confortano i tartassati, non ricompensano gli onesti. Un tirare a campare da democristiano (insieme a quegli altri stra-democristiani dei leghisti), che cerca disperatamente di rimandare ogni rendiconto, ogni decisione vera. Quanto a Tremonti (che una super-tassa sui redditi forti almeno l´aveva proposta), della sua manovra non rimangono nemmeno i cocci. Come l´architetto che propone il grattacielo e glielo trasformano in pagoda. Un professionista serio, in quei casi, ringrazia e toglie il disturbo.
LA REPUBBLICA del 23 settembre 2011
Ieri ben tre amici (autorevoli) mi hanno detto: sento che siamo sull´orlo della catastrofe. Italiana e mondiale. Non essendo scaramantico, non avevo scongiuri da fare. A meno che sia, a suo modo, uno scongiuro il piccolo gioco mentale che da qualche mese, e forse da qualche anno, si innesca ogni volta che qualcuno mi dice: arriva la catastrofe. Il gioco è questo. La catastrofe è arrivata. Devo decidere a cosa rinunciare, che cosa tenere. Casa, vestiti, mezzi di locomozione, consumi culturali, elettronica, vacanze, viaggi, oggetti, abitudini. Un inventario ingombrante, che già a pensarlo suggerirebbe di alleggerirsi. Ma quando si tratta di scegliere – questo sì, questo no – non ne sono capace, o cambio idea ogni volta. Tra le tante cose che possediamo, non possediamo più una gerarchia dell´avere, e il necessario e il superfluo costituiscono un inestricabile groviglio. Troverei rasserenante – in caso di catastrofe – avere già pronta la mia valigia di sopravvivenza: salvando quella dal crollo, potrei ritentare la sorte. Ma se uno, per la sopravvivenza, ha bisogno di (almeno) un container, vuol dire che è zavorrato. Paralizzato. Ostaggio dei suoi bisogni. Provate anche voi a fare quel gioco. Magari imparate a conoscervi meglio. Magari – quando la catastrofe arriverà davvero – sarete abbastanza leggeri da tentare la fuga.
LA REPUBBLICA del 29 luglio 2011
A Bossi fa molto comodo credere di avere un conflitto "solo" con il Quirinale. La realtà è che ha un conflitto con quello che lui chiama "il Nord", cioè con la grande maggioranza degli italiani che vivono e votano sopra il Po, considerano una umiliante buffonata la fantomatica apertura di due stanzette "ministeriali" a Monza, e più in generale ne hanno le tasche piene di secessioni, soli delle Alpi imposti nella scuola pubblica e altre piccole e grandi soperchierie. La Lega è una minoranza che si comporta come la più arrogante delle maggioranze. Parla a nome "del Nord" senza averne il diritto ideologico e soprattutto il diritto formale (che in democrazia è tutto), perché "il Nord" si è espresso con voce ben diversa alle ultime elezioni e nei referendum, e ha tappezzato le strade di tricolori, durante i festeggiamenti del centocinquantenario, anche come chiaro segno di appartenenza nazionale, anche come rivolta identitaria e popolare all´insopportabile, ventennale prepotenza leghista. Non è chiaro se Bossi queste cose non le abbia capite, oppure le sappia benissimo e faccia finta di niente. In entrambi i casi non è un bravo politico, perché illude la sua gente di stare vivendo una epopea vittoriosa mentre è la sconfitta, una sconfitta storica, quella che la Lega si è confezionata (anche con le sue mani) al Nord.
LA REPUBBLICA del 1 settembre 2011
Bersani considera «uno stimolo» il referendum contro l´orrida legge Calderoli (chiamarla Porcellum è quasi un vezzeggiativo: legge Calderoli suona ben più grave). Ma non vuole coinvolgere il partito nella campagna: come segretario del Pd si riserva il ruolo specifico di proporre in Parlamento una nuova e migliore legge elettorale. Non si capisce perché la seconda cosa impedisca ai democratici, e al loro segretario in primo luogo, di battersi anche per la prima. Il ricorso al referendum indica in modo forte e diretto il disgusto di buona parte del paese per un sistema elettorale che toglie potere ai cittadini; che quasi tutti i partiti giudicano pessimo; ma che la politica non pare in grado, da sola, di cancellare o di emendare, pur avendo avuto molto tempo a disposizione per farlo. E dunque, che cosa aspetta Bersani? Pochissimi mesi fa, nella travolgente campagna nata attorno al referendum sull´acqua pubblica, si era creata una saldatura vincente tra società civile e politica, tra movimenti e partiti. Tutto già finito e digerito, tutto alle spalle? Al punto che il capo del maggior partito della sinistra italiana esita a sposare una causa sacrosanta sostenendo che non vuole «mettere il cappello» del Pd sopra un´iniziativa della società civile? Ma non sembrerà ben più stonato e fuori posto, il «cappello» del Pd, quando arriverà all´ultimo minuto a sventolare su una piazza che ha già fatto, lei da sola, tutta la fatica?