LA REPUBBLICA del 14 marzo 2013
Il Pd (anche per colpa sua) non gode di buona stampa. Per niente. Quasi proverbialmente, del resto, si dice da anni che “la sinistra è incapace di comunicare”. Ma in qualche caso — va detto — questa sua incapacità è largamente assecondata dal sistema mediatico nel suo complesso (web compreso). Piccolo esempio: l’altro giorno la capogruppo delle Cinque Stelle Roberta Lombardi ha ripetuto che “alla Camera siamo la prima forza politica”. Ne è onestamente convinta. E lo ero anche io. E credo lo sia l’opinione pubblica italiana quasi al completo: M5S ha preso più voti di tutti alla Camera dei deputati, come è stato scritto sui giornali, detto nei telegiornali. Poche ore dopo, timidamente, qualche deputato del Pd, qualche sito periferico, voci sparse sul web, spiegano che non è vero. Il primo partito alla Camera è il Pd, con 8.932.615 voti. Cinque Stelle secondo con 8.784.499 voti. Differenza di 148.116 voti in favore del Pd. Dopo il voto si era imposta la notizia che Grillo fosse primo alla Camera perché lo spoglio era incompleto: mancava ancora il voto degli italiani all’estero, oltre un milione di schede valide. Ho potuto verificare il dato su Huffington Post. Altrove, nessuna traccia.
LA REPUBBLICA del 2 febbraio 2013
In bocca a Mario Monti, la battuta sulla data di nascita del Pd (che il professore farebbe coincidere con quella del Partito Comunista d’Italia, 1921) suona davvero incongrua. Se l’intenzione è accusare la sinistra di scarsa contemporaneità, viene spontaneo far notare che l’aura severamente contabile del professore rimanda dritti alla Destra storica e alla borghesia ottocentesca (volendo esser maligni, dunque, anche ai cannoni di Bava Beccaris), e non balza certo all’occhio per la sua verve scapigliata. Se invece l’idea era rinfacciare alla sinistra di ogni epoca e di ogni landa i suoi lombi “comunisti”, beh quello non è un argomento buono per l’elettorato centrista e moderato di Monti, e può fare colpo, piuttosto, sulla piccola borghesia reazionaria e non proprio coltissima che adora il sedicente Silvio. Il quale avrebbe volentieri rubato a Monti la battuta sulla data di nascita del Pcd’I-Pci-Pidiesse- Diesse-Pidì, se solo si raccapezzasse con le date: il 1921, per Berlusconi, è solo un anno come gli altri, un numero qualunque nella confusa nebulosa dei secoli e dei millenni che hanno preceduto la sua discesa in campo.
LA REPUBBLICA del 16 marzo 2013
Essendo la vecchia politica quasi morta di formalismo, sarebbe davvero un peccato che anche quella nuova avesse lo stesso vizio. Impazza (pure sul blog di Beppe Grillo) il seguente dibattito: una diploma universitario negli Usa vale una nostra laurea breve? Dalla risposta dipendono l’onore e il destino politico della deputata cinquestellata Marta Grande. È accusata (anche da parecchi dei suoi) di avere spacciato per “laurea” un titolo americano non proprio equivalente. Un errore di vanità e di ingenuità. Basterà ad accendere la pira che i Savonarola del web allestiscono minuto per minuto attorno a questo e a quella? Ovviamente c’è chi sogghigna e dice ai cinquestellati: chi di moralismo ferisce, di moralismo perisce, o perirà presto. Vero, ma non è questo il punto. Il punto è che nessuna rivoluzione può nutrirsi di pura meschinità, del gusto spicciolo di sbugiardare Tizio e incastrare Caio, in una specie di patologica parodia de “Le vite degli altri” con il web nel ruolo della Stasi. A furia di controllare le vite altrui, in quel meraviglioso film lo spione se ne lascia contagiare. Avranno uguale fortuna i nuovi inquisitori? Facendo le pulci ai curricula e alle note spese, riusciranno a intravedere gli esseri umani?
LA REPUBBLICA del 3 febbraio 2013
Smentire di essere massone, quando qualcuno dice che lo sei, è quasi un riflesso pavloviano. Giusto ieri due autorevoli persone hanno scritto a questo giornale per dirlo, che non lo sono. E se lo dicono, è certamente vero. Rimane — almeno per me — il mistero di un’associazione che ha nomea di essere potentissima, ma alla quale, almeno qui in Italia, nessuno rivendica di essere iscritto; eccezion fatta per qualche anziano professore di provincia autore di volumi ponderosi e noiosissimi sulla storia della massoneria nella sua città. La massoneria è dunque tra le cose che, dopo una certa età, ci si rassegna a non capire (nel mio caso, tra le tante: la massoneria, il jazz e James Joyce). Le si attribuiscono poteri smisurati e mosse decisive; ma è curioso che nessun suo membro — vanitosi come siamo noi maschi — si vanti mai in pubblico di quei poteri e di quelle mosse. La celebre battuta di Groucho Marx, «non accetterei mai di iscrivermi a un club che abbia tra i suoi soci uno come me», nel caso della massoneria va sostanzialmente riformata: «Non capisco perché dovrei fare parte di un club che ha tra i suoi soci solo persone che negano di farne parte».
LA REPUBBLICA del 17 marzo 2013
Devo dire che se fossi una persona per bene eletta alla Camera (ce ne sono parecchie), non so come reagirei trovando tutta la parte alta dell’emiciclo occupata simbolicamente dai cinquestellati. È, quello «stare sopra», la rappresentazione simbolica di una superiorità morale autoproclamata: «Stiamo in alto, sopra a tutti quanti, perché il nostro compito è controllarvi». Essendo di indole gentile, non so se riuscirei a pronunciare, sia pure con un sorriso amichevole, il sonante, meritatissimo «vaffanculo» che ristabilirebbe finalmente un rapporto paritario e solidale tra il grillismo e il resto del genere umano. So invece che la collocazione parlamentare di quei deputati ci aiuta non poco a definire la loro natura politica. Esattamente come è avvenuto per “destra” e “sinistra”, concetti nati attorno alla semplice descrizione della porzione di Parlamento occupata dai gruppi. Rispettando la volontà dei cinquestellati di non stare (anche fisicamente) né a destra né a sinistra né al centro, propongo ufficialmente di chiamarli, di qui in poi, i Superiori, in quanto membri del Gruppo Superiore alla Camera dei deputati
LA REPUBBLICA del 5 febbraio 2013
C’è davvero qualcosa di vizioso nel signore straricco che parla solo di quattrini, e promette agli italiani la restituzione di una certa sommetta, e la fa tintinnare in televisione. Qualcosa di vizioso e di arcaico, un rapporto di signoraggio e dunque di sudditanza, di dipendenza, di corruttibilità che non odora di libertà, non di dignità, non di democrazia. Posto che i soldi sono importanti, lo sono in politica e lo sono nella vita di ciascuno, e che disprezzarli è un detestabile snobismo; disgusta, però, questo continuo farne il centro di gravità permanente, la quadratura del cerchio, il solo argomento (insieme al sesso) che merita una strizzata d’occhio, una gomitata d’intesa. Il concetto stesso di “idee politiche” – figuriamoci l’etica o la cultura o i diritti o quant’altro – svanisce in mezzo al puzzo disgustoso di una continua, ininterrotta compravendita di consenso, di fiducia, perfino di amore. Il losco intendersi tra il multimiliardario e i derelitti che gli danno credito concede a questi ultimi un sentimento soltanto, che è quello dell’invidia. Chi ha dignità e tiene in buon conto se stesso, non importa se povero o ricco, di destra o di sinistra, capisce che il solo possibile rapporto, con quel signore, è non avere con lui alcun rapporto. Starne alla larga. Chi lo tocca, o anche solo lo ascolta, diventa come lui.
LA REPUBBLICA del 29 marzo 2013
Anche a basso costo – dunque senza contrariare gli psicoragionieri delle Cinque Stelle – esistono ottime telecamerine (e giovani cameraman volonterosi e magari anche volontari) in grado di offrire immagini meno squallide, meno mutilate, meno avvilenti di quelle propinate agli italiani con l’ormai famoso streaming Bersani-Crimi. C’è un’estetica non da Camera, ma da cameretta in quell’umiliante you tube sfocato, con l’audio rimbombante, e l’occhio fisso e stupido di un portatile che non è in grado, dell’umano, di darci che una traccia quasi robotica, come nei porno fatti in casa, o nelle consolle delle guardiole di sorveglianza. Se proprio dobbiamo essere ostaggi di questo orwellismo da operetta, che almeno ci concedano la facoltà di scegliere come essere inquadrati. Non è che pretendiamo Barry Lindon, con i tamburi che danno il passo alla fanteria e le nuvole d’Irlanda sullo sfondo. Ma qualche immagine da minimo sindacale, alla quale, dopo tutti questi anni di società dello spettacolo, ognuno avrebbe diritto, compresi i poveri Crimi e Lombardi. Ogni rivoluzione ha la sua estetica, la francese ebbe il lampo della ghigliottina e l’urlo della folla, la russa il futurismo, questi qui vorranno mica propinarci la fissità depressa e vagamente onanista del web… Ma che se lo cucchino loro, il fottuto web. Noi vogliamo morire in Cinemascope.
LA REPUBBLICA del 20 marzo 2013
Ha perfettamente ragione chi sostiene che la sostanziale esclusione del centrodestra (otto milioni di voti) dai giochi politici in corso è un problema di democrazia. Ma non è alla democrazia e alle sue regole che il problema va imputato. Un leader multiprocessato e multinquisito non è ordinaria amministrazione: è un’emergenza morale e politica, che si somma, tra l’altro, alla piaga incancrenita di un conflitto di interessi abnorme, che solo i disinformati e i faziosi sono riusciti, per quasi vent’anni, a mettere tra parentesi. A parte le sue petulanti pretoriane e il povero Alfano, gli unici che vanno in televisione a difenderlo, nessuna persona di buon senso può non vedere l’oggettiva catastrofe in atto: centrodestra al suo minimo storico dal 1945 a oggi, e con un leader che appare, più che impresentabile, inverosimile, totalmente screditato nel mondo, come sa bene ogni italiano che abbia mai messo il naso fuori dai confini. Possibile che, di fronte a un problema di rappresentanza così evidente, così irrisolto, così grave, nel centrodestra si continui ad accusare il mondo cattivo di persecuzione senza rendersi conto che si tratta di un caso classico di masochismo politico? Quanti Tafazzi ci sono, anche a destra?
LA REPUBBLICA del 21 marzo 2013
Nel gran parlare che si fa a proposito degli “italiani di alto profilo” candidabili per Palazzo Chigi o per il Quirinale o per un ministero, consola scoprire che questi italiani e italiane esistono, non sono pochi, e danno l’idea che uno straccio di classe dirigente, tutto sommato, ce la siamo meritata. Tra i tanti nomi letti oppure colti nelle chiacchiere di questi giorni, mi bastano quelli di Stefano Rodotà, Anna Maria Cancellieri, Valerio Onida, Salvatore Settis, Emma Bonino, Carlo Petrini, Gustavo Zagrebelski per immaginare un paese migliore, più competente e dignitoso: ma ognuno ha i suoi, di nomi spendibili. Se poi questa illustre pattuglia potesse giovarsi anche di qualche politico (ce ne sono, di persone di alto profilo e solida competenza, anche nella famigerata “casta”) sarebbe il massimo. Ma sentendo gli umori e leggendo i giornali pare di intendere che nell’attuale passaggio d’epoca avere fatto politica in questo Paese, comunque la si sia fatta, per qualunque fine e con qualunque mezzo, sia di grande ostacolo. I politici, nella politica, partono svantaggiati. Non tutti se lo meritano, ma non è questo il punto. Il punto è che di persone brave avremmo talmente bisogno che cancellare dal novero i politici di talento, e per bene, è davvero un lusso. Speriamo di poter tornare presto, come ovunque nel mondo, a considerare legittimo che i politici facciano politica.
LA REPUBBLICA del 9 febbraio 2013
Non era meglio la vecchia lotta di classe, piuttosto che il rancoroso e fragile borbottìo che ne ha preso il posto? Parlo della stonatissima polemica contro la figlia di Pietro Ichino, che ha il torto di lavorare (pensate che scandaloso privilegio!) in una casa editrice. La vecchia cultura di classe, piuttosto che sollevare sgradevoli e inutili casi personali, avrebbe messo l’accento sul vantaggio culturale e sociale che deriva dall’appartenenza alla borghesia urbana: vedi don Milani e la sua celebre considerazione sul padrone che è tale perché conosce più parole dell’operaio. Non faceva nome e cognome del padrone, don Milani. Parlava in generale perché voleva parlare di tutti e voleva parlare a tutti. Forse che questo rendeva meno forte, meno preciso il suo pensiero? Pensare politicamente vuol dire capire (o cercare di capire) la struttura della società e provare poi a cambiarla, non certo regolare conti personali. La polemica contro i “figli di”, con nomi e cognomi a volte congrui a volte del tutto ingiustificati, puzza di agitazione populista, non di ragionamento politico.