LA REPUBBLICA del 8 gennaio 2013
Si può anche capire che monsieur Depardieu, preoccupato per l’assottigliarsi delle sue scorte pantagrueliche di formaggio, porchette e damigiane di vino, sia irritato con il fisco del suo Paese. Si può capire, anche, che madame Bardot, addolorata per la malattia che affligge due anziane elefantesse dello zoo di Lione, sia furente con il servizio veterinario nazionale che non provvede a ricoverare i pachidermi in una clinica per lungodegenti, magari cacciando un paio di magrebini (Bardot, sposata a un fervente lepenista, non li sopporta). Quello che si capisce meno è che le due popolari star abbiano scelto come patria adottiva la Russia di Putin, paese che nel campo dei diritti arranca, e dista dalla Francia un paio di secoli. Probabile che chez Putin il fisco sia meno penalizzante (non per caso le immense ricchezze di quel Paese sono in mano a pochi oligarchi, che lo hanno depredato). Incerto il trattamento mutualistico riservato agli elefanti. Certissimi, invece, la galera per le Pussy Riot, la persecuzione (fino all’assassinio) delle voci libere come la Politkovskaja, lo spregio “virile” per gli omosessuali, il nazionalismo isterico, il neointegralismo religioso “di Stato”. Il putinismo di Depardieu e Bardot è così ridicolo da rivaleggiare con quello, già leggendario, dell’amico Silvio.
LA REPUBBLICA del 28 febbraio 2013
Vedremo (e sentiremo) cose che voi umani non avete mai visto e sentito. Decida ognuno se spaventarsi o gioire, la sola cosa certa è che le chiuse del tempo si sono spalancate di colpo, dopo molti anni di stagnazione. Quando Grillo candida al Quirinale Dario Fo che candida Carlo Petrini, chi storce il naso si domandi se lo storce perché ha a cuore le sorti della Repubblica o perché ha a cuore solo le proprie abitudini e le proprie categorie di giudizio. Spetta a tutti, di qui in poi, uno sforzo gigantesco per evitare le due evidenti maniere di diventare patetici. La prima è manifestare raccapriccio e sgomento per ognuna delle tante nuove cose con le quali ci toccherà fare i conti (e saranno anche conti con noi stessi). La seconda è manifestare entusiasmo a prescindere, come chi si accoda al nuovo solo per il terrore di sentirsi vecchio. Siamo in mezzo a un’onda di piena, nuotare o annegare è questione di sfumature.
LA REPUBBLICA del 24 marzo 2013
Non so se sia una considerazione lieta o triste: ma bastano poche ore lontano dall’Italia e passa il magone. Forse è solo una fuga. Il sollievo di allontanarsi dal livore e dall’impotenza che paiono i due binari lungo i quali arranchiamo. Forse, invece, è un ritorno alla normalità: la normale urbanità, la normale educazione, la normale mancanza di aggressività che dovrebbe segnare il ritmo della società quando si è fuori dalle guerre o dalle oppressioni o dalla fame. Il paragone tra l’Italia e gli altri paesi europei (anche quelli più poveri del nostro, dove la gente è vestita peggio, le automobili più vecchie, i negozi più modesti) sta diventando impietoso. Parlo della vita quotidiana – il traffico, le cose da sbrigare, i rapporti formali con gli altri – quella che dà tono all’umore sociale quasi quanto lo stato dell’economia. Viene spontaneo, quando si è all’estero, pensare che l’Italia stia diventano un paese “cattivo”, dove il malanimo reciproco è fuori controllo, le ostilità sociali non più temperate dalla politica. Non era questo, un tempo, il nostro segno distintivo: il mito della dolce vita e del buon vivere ci rendevano “simpatici”, e invidiati malgrado la fama di pasticcioni e di furbi. Ora mi capita – ed è un rovesciamento imprevisto – di trovare molto più dolce la vita all’estero; e molto più simpatici gli sconosciuti passanti di città a un paio d’ore d’aereo da noi.
LA REPUBBLICA del 9 gennaio 2013
L’indissolubile comparaggio tra Lega e Berlusconi deve avere radici ben solide se riesce a resistere ad ogni sussulto e ogni separazione. Queste radici sono riassumibili nel fastidio invincibile che una parte rilevante della piccola borghesia italiana ha per lo Stato, le tasse, le regole, la Costituzione, l’antifascismo, insomma per la Repubblica così come è nata, si è formata e bene o male ha percorso quasi settant’anni di vita nazionale, in evidente scollamento con una parte non piccola di italiani che non si sente repubblicana e in casi estremi (il secessionismo) neanche italiana. Il risultato elettorale dell’ennesimo remake forzaleghista (rubo la definizione a Gad Lerner) ci dirà a che punto è l’implacabile lotta di quel pezzo di Italia contro l’Italia. Dubito che le ruberie nelle istituzioni, la triste avidità del clan Bossi, le crapule di Arcore, tanto meno gli episodi di razzismo che (da anni) fioriscono in quel campo siano determinanti per quell’elettorato. Che non ha mai brillato per scrupolo etico. Determinante sarà la voglia di credere ancora che “Silvio” sia in grado di ribaltare il tavolo, come promette di fare, senza successo, ormai da anni. Poiché quel tavolo appare più solido, e Berlusconi più vecchio e debole, è molto probabile la sua definitiva sconfitta.
LA REPUBBLICA del 2 marzo 2013
Si riparla, per il povero Berlusconi, di un’uscita di scena “da Caimano”, aizzando la folla dai gradini di uno dei tanti palazzi di Giustizia che è costretto a frequentare. C’è però una clamorosa novità che neanche Nanni Moretti e i suoi sceneggiatori potevano prevedere: che la drammatica scena possa svolgersi in secondo piano, e quasi in ombra, e boati e bagliori ci arrivino come un’eco lontana (lontana nello spazio e nel tempo). Lui non è più al centro della scena: abbiamo ben altro a cui pensare. E le sue sorti personali – alle quali parevano appese come un trascurabile accessorio anche le nostre — non sono più decisive, se non per lui. Perfino il colpo di maglio giudiziario che gli arriva non dalla “comunista” procura milanese, ma dalla imprevista Napoli, con la terribile accusa di avere comperato e corrotto un senatore, arriva attutito all’opinione pubblica. Come qualcosa che cade in un recipiente già troppo colmo. Come l’ennesima puntata di un serial che non è più di moda, e sta perdendo progressivamente, spettatore dopo spettatore, tutto il suo pubblico.
LA REPUBBLICA del 10 gennaio 2013
Barbara Spinelli ( Repubblica di ieri) invita il Pd e Sel a spiegare meglio che cosa distingue la sinistra da Monti, in specie sul terreno della “difesa strenua della laicità e dei diritti”. È un ottimo suggerimento, anche perché la strada, su quel terreno, è così sgombra di traffico che è quasi impossibile non farsi notare. Delle due destre in campo (Berlusconi e Monti) la prima si è abbondantemente coperta di ridicolo abbinando scelte pubbliche filo-clericali a comportamenti privati da bordello, nel solco dell’ipocrisia familista italiana. Quanto alla seconda, quella di Monti, non vale nemmeno la pena scomodare l’influenza vaticana: al di fuori del furore economico, e della quasi maniacale devozione ai conti, non sembra esserci argomento in grado di ispirare il suo leader, men che meno questioni intricate e palpitanti come la laicità e i diritti. Levati i radicali, che almeno in questo campo hanno da sempre militato, la politica italiana è, quanto all’affermazione dei diritti civili (degli immigrati e dei loro figli nati qui, degli omosessuali, dei carcerati, insomma dei cittadini in quanto tali e non in quanto affiliati a una indimostrabile “normalità”), quasi un deserto. Piantarci in mezzo un albero, e annaffiarlo, non rischia di passare inosservato. Coraggio, dunque.
LA REPUBBLICA del 6 marzo 2013
Molto in auge anche grazie all’onda travolgente delle Cinque Stelle, il web aggiunge al dibattito politico molto di utile e molto di nuovo; ma anche tonnellate di tossine, e di informazione di qualità infima. Torme di cialtroni, di esaltati, di fanatici si muovono a meraviglia dentro quei materiali in pillole e quei ritmi sincopati, profittano della velocità e del fracasso per isolare la frase o la parola e ricamarci sopra un mondo intero di illazioni, dicerie, accuse, infamità assortite. Per attenerci solo alle ultime ore, a parte un paio di allegre minacce di morte al sottoscritto (ma quelle fanno parte del folklore), ecco un bouquet di “opinioni” rimbalzate in rete: Grillo copia i suoi discorsi da Hitler, la capogruppo di 5 Stelle è una fascista, Renzi è già d’accordo con Berlusconi, Stefano Benni è andato a trovare Grillo perché è una spia comunista, Bersani è andato da Fazio portandosi la claque (era il fan club di Malika Ayane, ndr). Se c’è qualcuno che non sa nulla, lo twitta immediatamente. Se c’è qualcuno che odia qualcun altro, il computer è la sua clava. Sarà anche vero che il web si autocorregge e si autoemenda, come dicono i fiduciosi. Ma nel frattempo: quanta merda, ragazzi.
LA REPUBBLICA del 23 gennaio 2013
Per capire quanto la politica abbia (lei per prima) perduto ogni stima di se stessa, si consideri la vicenda della ricandidatura nel Pdl di Razzi e Scilipoti. I due, ex dipietristi passati al fronte berlusconiano in cambio di un piatto di lenticchie (molte lenticchie), sono il simbolo vivente della politica mercenaria. L’eloquio sgrammaticato e compiaciuto, e i tratti umani da commedia dell’arte, hanno provveduto a farne, specie Scilipoti (ma Razzi non ha demeritato) due macchiette mediatiche, derise e malviste non solo dal fronte politico “tradito”, ma anche dai nuovi compagni: molti nel Pdl sono in rivolta contro le loro candidature. Erano impresentabili, Razzi e Scilipoti? Certo che lo erano. Neanche il partito più sgangherato può desiderare di farsi rappresentare da personaggi siffatti. Ma poiché la politica ha delegato al solo criterio giudiziario ciò che lei stessa non è più in grado di stabilire, e poiché i due non hanno condanne, ecco che il vaglio burocratico-giudiziario li lascia passare indenni. Come se la politica fosse del tutto sprovvista di un’etica propria, incapace di avere tutela di se stessa, rispetto di se stessa.
LA REPUBBLICA del 13 marzo 2013
Senza volerlo, il party abusivo del centrodestra nel Palazzo di Giustizia di Milano può dare un piccolo grande aiuto al dibattito in corso sull’uso migliore (o meno peggiore) di questa legislatura. Chi avesse ancora qualche dubbio, nel centrosinistra, su chi sono i sovversivi in questo Paese, può toglierselo: i sovversivi sono i pretoriani di un leader plurinquisito, plurimputato, condannato per avere comperato sentenze e accusato di avere corrotto membri del Parlamento. Il picchetto berlusconiano sulla scalinata bianca del Palazzo milanese sembra, vent’anni dopo Tangentopoli, l’immagine stessa della Restaurazione: a dover temere le monetine degli intemperanti, questa volta, sono i giudici. Si presume che nel partito di Bersani e Renzi eventuali supporter di un “governissimo” si sentano indeboliti dal truce spettacolo milanese: non è solo l’elettorato, sono la decenza e il buon senso a suggerire di abbandonare Berlusconi e i berlusconiani al loro destino di dissoluzione, in attesa che (tra un anno? un secolo? nella quarta dimensione?) nasca perfino in Italia una destra legalitaria e fedele alla Costituzione, che possa definirsi “moderata” senza far ridere gli astanti.
LA REPUBBLICA del 8 febbraio 2013
Le polemiche sulla ricandidatura della parlamentare del Pdl Fiorella Ceccacci ci fanno capire quanto sia faticoso, nella politica e nella società italiana, rintracciare un bandolo etico, spesso coincidente con un bandolo logico. All’onorevole Ceccacci si imputa di avere girato un film erotico diretto da Tinto Brass. Ma non è una prova di indegnità politica: o meglio, può esserlo solo in una comunità sessuofoba. Sarebbe una prova di indegnità politica, invece, avere ottenuto un incarico pubblico in cambio di favori sessuali. Circostanza che, in ogni modo, potrebbe riguardare una suora o una ragioniera e non necessariamente un’attrice erotica. Quando si parla di “mignottocrazia” non ci si riferisce alla moralità delle elette nella loro vita privata; ci si riferisce all’eventualità, effettivamente deplorevole, che alcune signore e signorine riscuotano uno stipendio pubblico non per meriti o competenze, ma perché si sono concesse a un uomo di potere. L’onorevole Ceccacci fa dunque bene a pretendere che non la si giudichi per quelle immagini. Giudicherà da se sola (poiché solo lei conosce i fatti) se occupa quel seggio per le sue capacità o per la benevolenza di un maschio Alfa.