LA REPUBBLICA del 17 aprile 2013
Semplificando brutalmente (a volte è necessario): per la corsa al Quirinale la sinistra deve scegliere se accontentare Berlusconi oppure accontentare Cinque Stelle. Così richiede il tripolarismo imperfetto uscito dal voto. La prima scelta (accontentare Berlusconi) equivale a un suicidio politico non solo per la sinistra, ma per l’intero assetto politico repubblicano. Sarebbe la fotografia di una vecchia classe di potere che si barrica nel Palazzo nella speranza di reggere ancora qualche mese o anno. La seconda (non scontentare Cinque Stelle) è ad alto rischio, perché le intenzioni e la natura stessa di quel movimento sono in parte imperscrutabili. Ma lascerebbe aperto un varco verso quel “cambiamento” che lo stesso Bersani, giustamente, considera sinonimo di “responsabilità”: niente è più irresponsabile, nella presente situazione, che decidere di non cambiare nulla. So che è molto comodo sputare sentenze senza mettersi nei panni degli altri. Ma fossi Bersani non avrei dubbi. A rischio di mettermi contro mezzo partito, accetterei di votare Rodotà o Gabanelli e sfiderei Grillo a trarne le conseguenze. La sinistra italiana ha quasi sempre scelto di rischiare poco, ed è rischiando poco che si è infiacchita e ha perduto molte battaglie. Qui il rischio è altissimo: ma la posta in gioco è cercare di venirne fuori da vivi, e finalmente con il vento in faccia.
LA REPUBBLICA del 20 marzo 2013
Ha perfettamente ragione chi sostiene che la sostanziale esclusione del centrodestra (otto milioni di voti) dai giochi politici in corso è un problema di democrazia. Ma non è alla democrazia e alle sue regole che il problema va imputato. Un leader multiprocessato e multinquisito non è ordinaria amministrazione: è un’emergenza morale e politica, che si somma, tra l’altro, alla piaga incancrenita di un conflitto di interessi abnorme, che solo i disinformati e i faziosi sono riusciti, per quasi vent’anni, a mettere tra parentesi. A parte le sue petulanti pretoriane e il povero Alfano, gli unici che vanno in televisione a difenderlo, nessuna persona di buon senso può non vedere l’oggettiva catastrofe in atto: centrodestra al suo minimo storico dal 1945 a oggi, e con un leader che appare, più che impresentabile, inverosimile, totalmente screditato nel mondo, come sa bene ogni italiano che abbia mai messo il naso fuori dai confini. Possibile che, di fronte a un problema di rappresentanza così evidente, così irrisolto, così grave, nel centrodestra si continui ad accusare il mondo cattivo di persecuzione senza rendersi conto che si tratta di un caso classico di masochismo politico? Quanti Tafazzi ci sono, anche a destra?
LA REPUBBLICA del 23 aprile 2013
Passando agevolmente dentro lo sbrego che la destra di potere e specialmente la Lega hanno aperto, lungo gli anni, nel tessuto democratico del nostro Paese, i neonazisti europei si ritrovano volentieri nei dintorni di Varese (Lombardia, Italia), dove da anni si celebra con molta birra, e liete danze, il compleanno di Hitler, cioè si festeggia (implicitamente o esplicitamente poco importa) lo sterminio di milioni di uomini, donne, bambini. Questo accade sotto lo sguardo preoccupato della Digos, che si presume ne approfitti per raccogliere utili informazioni sui partecipanti al party: che si è svolto, sotto forma di festa privata, in un’area affittata ai nazisti da un circolo culturale vicino alla Lega. Non eguale allarme il raduno hitleriano sembra suscitare tra le autorità locali e regionali. Per ora non sono pervenute reazioni formali – neanche quelle parolette rituali che aiutano, comunque, a sapere che chi deve sapere, sa – da parte del governatore della Lombardia Maroni, né dalle istituzioni politiche di Varese e provincia. Eppure esistono in Italia, così come in tutta Europa, leggi contro l’istigazione all’odio razziale. In provincia di Varese no? Chissà se le vivaci curve ultras locali, almeno per coerenza, hanno mandato agli ospiti con svastica, arrivati da così lontano, un messaggio di benvenuto.
LA REPUBBLICA del 28 marzo 2013
Sperare che Grillo conceda uno spiraglio d´intesa, o anche solo di ascolto, a qualunque forma politica che non sia quella da lui creata e controllata, è pura illusione (lo dico da illuso conclamato, primo firmatario di un appello in favore di un governo di cambiamento rivolto anche a lui e ai suoi). La sua forza sta nell´isolamento, nel potere di veto e di distruzione, nella "superiorità" anche logistica che i suoi deputati e senatori hanno scelto in Parlamento. Mai mischiarsi, mai confondersi, mai abbassarsi allo stesso livello degli altri, massa indistinta di contaminati. Anche perché confrontandosi – cioè mettendosi sullo stesso piano degli altri – si rischia di vivere la stessa esperienza vissuta dal Capo in persona parlando faccia a faccia con Napolitano. Insolentito da lontano, il vecchio uomo di Stato non gli è dispiaciuto da vicino. Basta così poco – basta la realtà – a mutare il disprezzo in curiosità. Allo stesso modo, fino a che se ne rimane nel suo e tra i suoi, Grillo può comodamente definire "padri puttanieri" anche persone alle quali, faccia a faccia, probabilmente non oserebbe dirlo. Rischierebbe un ceffone in pieno viso, come può capitare quando si offende così orribilmente un essere umano in carne e ossa. Fatta da lontano, la politica è a rischio zero.
LA REPUBBLICA del 24 aprile 2013
Mai parlato tanto di politica da molti anni. Da giorni video accesi in quasi tutte le case, non solo i computer e i tablet per fruitori monadi, anche il vecchio televisore che ritrova una dimenticata centralità collettiva, e raccoglie capannelli di familiari o amici. Mail a frotte, nugoli di sms, telefonate, tweet, parole di persone comuni che si ammantano di solennità nello sforzo di esprimere rabbia, delusione, passione, e parole di persone importanti che diventano semplici e dirette perché la crisi mette a nudo gli animi, rende inutili gli orpelli verbali. Una gigantesca assemblea permanente, tesa, a tratti cattiva e insultante. Litigi. Polemiche. Divisioni. Trame. Un’emotività contagiosa, che la mediaticità capillare spalma ovunque. Faremmo male a non prendere atto che manca, da questo scenario così pubblico e insieme così privato, la violenza. Dico quella violenza diffusa, premeditata, spesso anche omicida, che ha insanguinato l’infanzia e la giovinezza della democrazia italiana. La violenza politica, la violenza della politica. Siamo abituati a pensare, della società italiana, quasi tutto il male possibile. Ma qualche cosa, forse, l’abbiamo imparata. Almeno un poco siamo cresciuti.
LA REPUBBLICA del 13 marzo 2013
Senza volerlo, il party abusivo del centrodestra nel Palazzo di Giustizia di Milano può dare un piccolo grande aiuto al dibattito in corso sull’uso migliore (o meno peggiore) di questa legislatura. Chi avesse ancora qualche dubbio, nel centrosinistra, su chi sono i sovversivi in questo Paese, può toglierselo: i sovversivi sono i pretoriani di un leader plurinquisito, plurimputato, condannato per avere comperato sentenze e accusato di avere corrotto membri del Parlamento. Il picchetto berlusconiano sulla scalinata bianca del Palazzo milanese sembra, vent’anni dopo Tangentopoli, l’immagine stessa della Restaurazione: a dover temere le monetine degli intemperanti, questa volta, sono i giudici. Si presume che nel partito di Bersani e Renzi eventuali supporter di un “governissimo” si sentano indeboliti dal truce spettacolo milanese: non è solo l’elettorato, sono la decenza e il buon senso a suggerire di abbandonare Berlusconi e i berlusconiani al loro destino di dissoluzione, in attesa che (tra un anno? un secolo? nella quarta dimensione?) nasca perfino in Italia una destra legalitaria e fedele alla Costituzione, che possa definirsi “moderata” senza far ridere gli astanti.
LA REPUBBLICA del 14 marzo 2013
Il Pd (anche per colpa sua) non gode di buona stampa. Per niente. Quasi proverbialmente, del resto, si dice da anni che “la sinistra è incapace di comunicare”. Ma in qualche caso — va detto — questa sua incapacità è largamente assecondata dal sistema mediatico nel suo complesso (web compreso). Piccolo esempio: l’altro giorno la capogruppo delle Cinque Stelle Roberta Lombardi ha ripetuto che “alla Camera siamo la prima forza politica”. Ne è onestamente convinta. E lo ero anche io. E credo lo sia l’opinione pubblica italiana quasi al completo: M5S ha preso più voti di tutti alla Camera dei deputati, come è stato scritto sui giornali, detto nei telegiornali. Poche ore dopo, timidamente, qualche deputato del Pd, qualche sito periferico, voci sparse sul web, spiegano che non è vero. Il primo partito alla Camera è il Pd, con 8.932.615 voti. Cinque Stelle secondo con 8.784.499 voti. Differenza di 148.116 voti in favore del Pd. Dopo il voto si era imposta la notizia che Grillo fosse primo alla Camera perché lo spoglio era incompleto: mancava ancora il voto degli italiani all’estero, oltre un milione di schede valide. Ho potuto verificare il dato su Huffington Post. Altrove, nessuna traccia.
LA REPUBBLICA del 17 marzo 2013
Devo dire che se fossi una persona per bene eletta alla Camera (ce ne sono parecchie), non so come reagirei trovando tutta la parte alta dell’emiciclo occupata simbolicamente dai cinquestellati. È, quello «stare sopra», la rappresentazione simbolica di una superiorità morale autoproclamata: «Stiamo in alto, sopra a tutti quanti, perché il nostro compito è controllarvi». Essendo di indole gentile, non so se riuscirei a pronunciare, sia pure con un sorriso amichevole, il sonante, meritatissimo «vaffanculo» che ristabilirebbe finalmente un rapporto paritario e solidale tra il grillismo e il resto del genere umano. So invece che la collocazione parlamentare di quei deputati ci aiuta non poco a definire la loro natura politica. Esattamente come è avvenuto per “destra” e “sinistra”, concetti nati attorno alla semplice descrizione della porzione di Parlamento occupata dai gruppi. Rispettando la volontà dei cinquestellati di non stare (anche fisicamente) né a destra né a sinistra né al centro, propongo ufficialmente di chiamarli, di qui in poi, i Superiori, in quanto membri del Gruppo Superiore alla Camera dei deputati
LA REPUBBLICA del 29 marzo 2013
Anche a basso costo – dunque senza contrariare gli psicoragionieri delle Cinque Stelle – esistono ottime telecamerine (e giovani cameraman volonterosi e magari anche volontari) in grado di offrire immagini meno squallide, meno mutilate, meno avvilenti di quelle propinate agli italiani con l’ormai famoso streaming Bersani-Crimi. C’è un’estetica non da Camera, ma da cameretta in quell’umiliante you tube sfocato, con l’audio rimbombante, e l’occhio fisso e stupido di un portatile che non è in grado, dell’umano, di darci che una traccia quasi robotica, come nei porno fatti in casa, o nelle consolle delle guardiole di sorveglianza. Se proprio dobbiamo essere ostaggi di questo orwellismo da operetta, che almeno ci concedano la facoltà di scegliere come essere inquadrati. Non è che pretendiamo Barry Lindon, con i tamburi che danno il passo alla fanteria e le nuvole d’Irlanda sullo sfondo. Ma qualche immagine da minimo sindacale, alla quale, dopo tutti questi anni di società dello spettacolo, ognuno avrebbe diritto, compresi i poveri Crimi e Lombardi. Ogni rivoluzione ha la sua estetica, la francese ebbe il lampo della ghigliottina e l’urlo della folla, la russa il futurismo, questi qui vorranno mica propinarci la fissità depressa e vagamente onanista del web… Ma che se lo cucchino loro, il fottuto web. Noi vogliamo morire in Cinemascope.
LA REPUBBLICA del 2 marzo 2013
Si riparla, per il povero Berlusconi, di un’uscita di scena “da Caimano”, aizzando la folla dai gradini di uno dei tanti palazzi di Giustizia che è costretto a frequentare. C’è però una clamorosa novità che neanche Nanni Moretti e i suoi sceneggiatori potevano prevedere: che la drammatica scena possa svolgersi in secondo piano, e quasi in ombra, e boati e bagliori ci arrivino come un’eco lontana (lontana nello spazio e nel tempo). Lui non è più al centro della scena: abbiamo ben altro a cui pensare. E le sue sorti personali – alle quali parevano appese come un trascurabile accessorio anche le nostre — non sono più decisive, se non per lui. Perfino il colpo di maglio giudiziario che gli arriva non dalla “comunista” procura milanese, ma dalla imprevista Napoli, con la terribile accusa di avere comperato e corrotto un senatore, arriva attutito all’opinione pubblica. Come qualcosa che cade in un recipiente già troppo colmo. Come l’ennesima puntata di un serial che non è più di moda, e sta perdendo progressivamente, spettatore dopo spettatore, tutto il suo pubblico.