LA REPUBBLICA del 3 aprile 2013
Approfitto della confusione generale, e della rassicurante irrilevanza della mia opinione, per fare i miei nomi per il Quirinale. Barbara Spinelli o Emma Bonino, donne di grande intelligenza e totale indipendenza politica (a Bonino si perdonerà facilmente, nel nome del superiore interesse del Paese, l’ostinata fedeltà a Marco Pannella e alle sue stramberie; a Spinelli di essere, tra le altre cose, editorialista di questo giornale). Lo stimolo proviene da un amico di penna che propone di lanciare la campagna “una Bergoglio per il Colle”, dicitura sapiente e anche molto maliziosa perché esclude la reperibilità di “un” Bergoglio e ne suggerisce, dunque, “una”. Se tifo per una donna Capo dello Stato non è per ruffianeria femminofila (sempre sospetta, tra l’altro, in un maschio). È perché davvero il segno di una così inedita e radicale diversità contribuirebbe non solo a segnare la fine del passato che non passa mai; ma anche a distrarre per un attimo le energie degli attori politici dalla loro rissa permanente, costringendoli a contemplare tutti insieme l’incredibile spettacolo di una femmina che regola e indirizza le ambizioni dei maschi. Ma poi pensate, l’ultimo dell’anno, sentire una voce di donna che ci accompagna e ci consiglia.
LA REPUBBLICA del 5 aprile 2013
Anche il vecchio Billy Bragg, storica voce del proletariato inglese (una specie di Ken Loach della canzone), se la prende con Paolo Di Canio, “il fascista”. Per Di Canio quasi mi dispiace, la sua protervia politica rasenta l’ingenuità, ho un elenco lungo un chilometro di sportivi ben più sgradevoli e impresentabili di lui. Ma spero che la sua contrastata avventura sulla panchina del Sunderland serva a capire, non solamente a lui, che il fascismo, nell’Europa democratica, non è un’opzione politica. È un tabù. Da noi, specie nella capitale con i muri tappezzati di fascisterie, e in quello stadio che è spesso una selva di saluti romani, gli ultimi anni sono serviti a rendere familiare e dunque digeribile ciò che nel resto del continente puzza di deportazione, di guerra e di macerie fumanti. Quando Di Canio faceva il saluto romano alla curva laziale si poteva anche fare finta di niente e pensare che tanto, un’ora dopo, sarebbero tutti andati dalla sora Lella a fasse ’na magnata. Ma a Londra, in Francia, in Germania, in Scandinavia, non sono solo gli ebrei come David Miliband a considerare come un oltraggio razziale il saluto romano. In Italia l’antifascismo, grazie alla devastazione culturale e politica del berlusconismo, è diventato modernariato. Altrove, è ancora memoria cocente della dittatura che ha incenerito mezza Europa.
LA REPUBBLICA del 24 febbraio 2013
Amici mi telefonano in fibrillazione, altri angosciati, “se vince il Bugiardo io questa volta espatrio davvero”, “se vince il Matto va a catafascio il paese”, “se vince Bersani tanto poi non può governare”, “su due elettori uno è un imbecille certificato”, “la gente vota col portafogli o con la pancia, mai col cervello”, “la zia di mia moglie è una nazista”, e tutto il repertorio, ragionevole ma lugubre, sulla democrazia ammalata… Io invece, per motivi certamente irragionevoli, ma immutati nei decenni, vado a votare sempre di buon umore. Ho perso quasi tutte le elezioni dal 1974 a oggi, e dunque dovrei avere maturato, a proposito del voto, una radicata ostilità. Ma ci ricasco ogni volta, e ci ricasco volentieri, vado al seggio carico di rispetto e di fiducia, se incontro la zia nazista del mio amico la saluto e non mi sembra neanche così nazista, forse è il mio amico che è paranoico. Dove voto io sta nevicando forte, e la neve, a patto che uno non dia retta ai telegiornali che ne parlano come di una piaga biblica, mi mette di buon umore. Andrò a votare con il berretto di lana. Credo che abbia ragione quel mio amico: “Su due elettori, uno è un imbecille”, e quello imbecille sono io.
LA REPUBBLICA del 18 aprile 2013
Si dice, da anni, che la sinistra italiana non è più in grado di captare gli umori del paese. Ora sappiamo che non è più in grado di captare neanche gli umori della sua gente: quella che alla sinistra vuole bene, che dentro la sinistra vive, che nella sinistra ancora spera. Eventuali primarie tra Marini e Rodotà vedrebbero il secondo trionfare con un margine così schiacciante da far sembrare perfino stravagante la candidatura del primo. Non che Marini non sia una persona degna, o un incapace. Nessuno lo sostiene. Ma tutti intendono che il cambiamento tanto invocato dallo stesso Bersani non passa da Berlusconi, no che non ci passa: e invece è proprio dal parlottio con Berlusconi e i suoi che il nome di Marini è sortito. Tutti intendono che Rodotà incarna la politica alta e la sinistra degna. Tutti sanno che Rodotà è stato presidente del Pds. Tutti colgono il vero e proprio colpo di fortuna toccato alla sinistra con l’esito delle “quirinarie” grilline, con la rinuncia di Gabanelli e Strada e il nome di Rodotà che chiede solamente di essere riconosciuto. Tutti, infine, ora intendono che Grillo ha avuto ragione a sfidare il Pd su Rodotà al Colle, già sapendo che quel partito non avrebbe avuto l’estro, la libertà, la forza di accettare. Ieri Grillo ha stravinto. Il Pd ha straperso. E molte persone, chi con il magone, chi schiumando rabbia, si sono chieste come è possibile farsi talmente male.
LA REPUBBLICA del 22 marzo 2013
Da un gruppo politico che fa le pulci all’universo mondo («è ora di resocontare anche le caramelle»), non ci si aspetterebbe l’ostinata contraffazione numerica che ancora ieri la capogruppo, signora Lombardi, ha ribadito dopo il colloquio al Quirinale: chiediamo l’incarico perché abbiamo avuto più voti degli altri. Con affabilità non formale, e pur sapendo che non è questo il punto determinante nell’attuale sconquasso politico, ripetiamo anche noi: Pd 8.932.523 voti, M5S 8.784.499 (alla Camera; al Senato il distacco è di quasi un milione e mezzo di voti in favore del Pd). Dati definitivi del Viminale, comprensivi del voto degli italiani all’estero. Davvero non si capisce per quale puerile impuntatura un movimento nato per rivoluzionare la politica e sbugiardare l’ipocrisia dei partiti sia così affezionato a un dato sbagliato. Ben altre sarebbero le ragioni per le quali Grillo può chiedere che l’incarico sia dato ai suoi: sono una novità politica dirompente, pur non essendo il loro simbolo il più votato. Dubitiamo, però, che questo rilievo (ormai reiterato su parecchi media e sul web) sia accolto dai portavoce delle Cinque Stelle: nello stato d’animo entusiasta tipico dei movimenti nascenti, la realtà è spesso di puro impiccio.
LA REPUBBLICA del 4 aprile 2013
Si ignora se, e quanto, quelle che Barbara Spinelli chiama “le oligarchie dei sapienti” ( Repubblica di ieri) abbiano capito di camminare su ghiaccio sottile, più sottile ogni giorno che passa. A Roma tira uno stracco venticello di conservazione: come se fosse la conservazione a poter riavvicinare una politica vecchia a una società che l’accusa di essere vecchia. Il criticatissimo Bersani almeno una cosa vera, giusta e profonda l’ha detta: responsabilità e cambiamento in questo momento sono la stessa cosa. Sinonimi. Dunque, non cambiare è irresponsabile. Per un vecchio riformista pragmatico, non certo avvezzo ai colpi di testa e alle scelte radicali, non sono parole facili o leggere da pronunciare. Quanti nel suo partito le condividono? Di Grillo ormai si sa, reclama per se stesso il cento per cento del cambiamento, nonché di ogni virtù. Ma nel Pd? Davvero c’è qualcuno convinto di poter ingannare il tempo e domare la crisi sociale con un arrocco partitocratico (parola che detesto, ma qui va usata)? Bisogna conoscere poco e male non solamente gli umori della società, ma soprattutto quelli del proprio elettorato, per pensare che il Pd possa uscire vivo da un eventuale accordo di potere con questa destra. Non genericamente una destra: questa destra. Quella che ci ha portato proprio qui.
LA REPUBBLICA del 16 marzo 2013
Essendo la vecchia politica quasi morta di formalismo, sarebbe davvero un peccato che anche quella nuova avesse lo stesso vizio. Impazza (pure sul blog di Beppe Grillo) il seguente dibattito: una diploma universitario negli Usa vale una nostra laurea breve? Dalla risposta dipendono l’onore e il destino politico della deputata cinquestellata Marta Grande. È accusata (anche da parecchi dei suoi) di avere spacciato per “laurea” un titolo americano non proprio equivalente. Un errore di vanità e di ingenuità. Basterà ad accendere la pira che i Savonarola del web allestiscono minuto per minuto attorno a questo e a quella? Ovviamente c’è chi sogghigna e dice ai cinquestellati: chi di moralismo ferisce, di moralismo perisce, o perirà presto. Vero, ma non è questo il punto. Il punto è che nessuna rivoluzione può nutrirsi di pura meschinità, del gusto spicciolo di sbugiardare Tizio e incastrare Caio, in una specie di patologica parodia de “Le vite degli altri” con il web nel ruolo della Stasi. A furia di controllare le vite altrui, in quel meraviglioso film lo spione se ne lascia contagiare. Avranno uguale fortuna i nuovi inquisitori? Facendo le pulci ai curricula e alle note spese, riusciranno a intravedere gli esseri umani?
LA REPUBBLICA del 20 marzo 2013
Ha perfettamente ragione chi sostiene che la sostanziale esclusione del centrodestra (otto milioni di voti) dai giochi politici in corso è un problema di democrazia. Ma non è alla democrazia e alle sue regole che il problema va imputato. Un leader multiprocessato e multinquisito non è ordinaria amministrazione: è un’emergenza morale e politica, che si somma, tra l’altro, alla piaga incancrenita di un conflitto di interessi abnorme, che solo i disinformati e i faziosi sono riusciti, per quasi vent’anni, a mettere tra parentesi. A parte le sue petulanti pretoriane e il povero Alfano, gli unici che vanno in televisione a difenderlo, nessuna persona di buon senso può non vedere l’oggettiva catastrofe in atto: centrodestra al suo minimo storico dal 1945 a oggi, e con un leader che appare, più che impresentabile, inverosimile, totalmente screditato nel mondo, come sa bene ogni italiano che abbia mai messo il naso fuori dai confini. Possibile che, di fronte a un problema di rappresentanza così evidente, così irrisolto, così grave, nel centrodestra si continui ad accusare il mondo cattivo di persecuzione senza rendersi conto che si tratta di un caso classico di masochismo politico? Quanti Tafazzi ci sono, anche a destra?
LA REPUBBLICA del 17 aprile 2013
Semplificando brutalmente (a volte è necessario): per la corsa al Quirinale la sinistra deve scegliere se accontentare Berlusconi oppure accontentare Cinque Stelle. Così richiede il tripolarismo imperfetto uscito dal voto. La prima scelta (accontentare Berlusconi) equivale a un suicidio politico non solo per la sinistra, ma per l’intero assetto politico repubblicano. Sarebbe la fotografia di una vecchia classe di potere che si barrica nel Palazzo nella speranza di reggere ancora qualche mese o anno. La seconda (non scontentare Cinque Stelle) è ad alto rischio, perché le intenzioni e la natura stessa di quel movimento sono in parte imperscrutabili. Ma lascerebbe aperto un varco verso quel “cambiamento” che lo stesso Bersani, giustamente, considera sinonimo di “responsabilità”: niente è più irresponsabile, nella presente situazione, che decidere di non cambiare nulla. So che è molto comodo sputare sentenze senza mettersi nei panni degli altri. Ma fossi Bersani non avrei dubbi. A rischio di mettermi contro mezzo partito, accetterei di votare Rodotà o Gabanelli e sfiderei Grillo a trarne le conseguenze. La sinistra italiana ha quasi sempre scelto di rischiare poco, ed è rischiando poco che si è infiacchita e ha perduto molte battaglie. Qui il rischio è altissimo: ma la posta in gioco è cercare di venirne fuori da vivi, e finalmente con il vento in faccia.
LA REPUBBLICA del 24 aprile 2013
Mai parlato tanto di politica da molti anni. Da giorni video accesi in quasi tutte le case, non solo i computer e i tablet per fruitori monadi, anche il vecchio televisore che ritrova una dimenticata centralità collettiva, e raccoglie capannelli di familiari o amici. Mail a frotte, nugoli di sms, telefonate, tweet, parole di persone comuni che si ammantano di solennità nello sforzo di esprimere rabbia, delusione, passione, e parole di persone importanti che diventano semplici e dirette perché la crisi mette a nudo gli animi, rende inutili gli orpelli verbali. Una gigantesca assemblea permanente, tesa, a tratti cattiva e insultante. Litigi. Polemiche. Divisioni. Trame. Un’emotività contagiosa, che la mediaticità capillare spalma ovunque. Faremmo male a non prendere atto che manca, da questo scenario così pubblico e insieme così privato, la violenza. Dico quella violenza diffusa, premeditata, spesso anche omicida, che ha insanguinato l’infanzia e la giovinezza della democrazia italiana. La violenza politica, la violenza della politica. Siamo abituati a pensare, della società italiana, quasi tutto il male possibile. Ma qualche cosa, forse, l’abbiamo imparata. Almeno un poco siamo cresciuti.