LA REPUBBLICA del 28 febbraio 2013
Vedremo (e sentiremo) cose che voi umani non avete mai visto e sentito. Decida ognuno se spaventarsi o gioire, la sola cosa certa è che le chiuse del tempo si sono spalancate di colpo, dopo molti anni di stagnazione. Quando Grillo candida al Quirinale Dario Fo che candida Carlo Petrini, chi storce il naso si domandi se lo storce perché ha a cuore le sorti della Repubblica o perché ha a cuore solo le proprie abitudini e le proprie categorie di giudizio. Spetta a tutti, di qui in poi, uno sforzo gigantesco per evitare le due evidenti maniere di diventare patetici. La prima è manifestare raccapriccio e sgomento per ognuna delle tante nuove cose con le quali ci toccherà fare i conti (e saranno anche conti con noi stessi). La seconda è manifestare entusiasmo a prescindere, come chi si accoda al nuovo solo per il terrore di sentirsi vecchio. Siamo in mezzo a un’onda di piena, nuotare o annegare è questione di sfumature.
LA REPUBBLICA del 24 marzo 2013
Non so se sia una considerazione lieta o triste: ma bastano poche ore lontano dall’Italia e passa il magone. Forse è solo una fuga. Il sollievo di allontanarsi dal livore e dall’impotenza che paiono i due binari lungo i quali arranchiamo. Forse, invece, è un ritorno alla normalità: la normale urbanità, la normale educazione, la normale mancanza di aggressività che dovrebbe segnare il ritmo della società quando si è fuori dalle guerre o dalle oppressioni o dalla fame. Il paragone tra l’Italia e gli altri paesi europei (anche quelli più poveri del nostro, dove la gente è vestita peggio, le automobili più vecchie, i negozi più modesti) sta diventando impietoso. Parlo della vita quotidiana – il traffico, le cose da sbrigare, i rapporti formali con gli altri – quella che dà tono all’umore sociale quasi quanto lo stato dell’economia. Viene spontaneo, quando si è all’estero, pensare che l’Italia stia diventano un paese “cattivo”, dove il malanimo reciproco è fuori controllo, le ostilità sociali non più temperate dalla politica. Non era questo, un tempo, il nostro segno distintivo: il mito della dolce vita e del buon vivere ci rendevano “simpatici”, e invidiati malgrado la fama di pasticcioni e di furbi. Ora mi capita – ed è un rovesciamento imprevisto – di trovare molto più dolce la vita all’estero; e molto più simpatici gli sconosciuti passanti di città a un paio d’ore d’aereo da noi.
LA REPUBBLICA del 16 aprile 2013
Ma Stefano Rodotà, per esempio, è da considerarsi “un politico”, e dunque un contaminato, oppure no? Capita che una delle persone più rispettate e stimabili di questo Paese, per giunta dotato di alta cultura istituzionale, sia stato, tra le tante altre cose, quattro volte deputato, presidente di un partito (il Pds) e vicepresidente della Camera. La sua intera esistenza è fortemente innervata di passione politica e di attività politica. Ha riscosso, da politico, regolare stipendio. Viene da domandarsi, dunque, se il conclave delle Cinque Stelle (webbico, ma non molto più numeroso del conclave vero), valutando la candidatura del cittadino Rodotà, abbia considerato con sospetto il suo curriculum, oppure abbia dovuto ignorarlo pur di mantenere Rodotà nella rosa. Mi basterebbe che uno solo, dico uno solo dei militanti grillini rifletta (grazie a Rodotà o anche alla Bonino) su quanto sia assurdo considerare l’appartenenza ai partiti come una colpa o uno svantaggio. Ci sono emeriti mascalzoni e notevoli coglioni anche fuori dai partiti. Osteggiare o favorire una candidatura sulla base di un pregiudizio così ridicolo da assomigliare a una superstizione è una colpa che i cinquestellati si infliggono da sé soli. Non glielo ha ordinato il medico.
LA REPUBBLICA del 9 febbraio 2013
Non era meglio la vecchia lotta di classe, piuttosto che il rancoroso e fragile borbottìo che ne ha preso il posto? Parlo della stonatissima polemica contro la figlia di Pietro Ichino, che ha il torto di lavorare (pensate che scandaloso privilegio!) in una casa editrice. La vecchia cultura di classe, piuttosto che sollevare sgradevoli e inutili casi personali, avrebbe messo l’accento sul vantaggio culturale e sociale che deriva dall’appartenenza alla borghesia urbana: vedi don Milani e la sua celebre considerazione sul padrone che è tale perché conosce più parole dell’operaio. Non faceva nome e cognome del padrone, don Milani. Parlava in generale perché voleva parlare di tutti e voleva parlare a tutti. Forse che questo rendeva meno forte, meno preciso il suo pensiero? Pensare politicamente vuol dire capire (o cercare di capire) la struttura della società e provare poi a cambiarla, non certo regolare conti personali. La polemica contro i “figli di”, con nomi e cognomi a volte congrui a volte del tutto ingiustificati, puzza di agitazione populista, non di ragionamento politico.
LA REPUBBLICA del 2 aprile 2013
Dire che la situazione politica è oscura è dire poco. Anche i più esperti meccanici istituzionali stanno consultando il libretto di istruzioni nella speranza di ridare regolarità a un motore che fa rumori stranissimi, e sempre più fiochi. Se la curiosa trovata dei “dieci saggi” è stata accolta solo da un borbottio poco convinto e non dalle solite urla ostili, è perché nessuno è sicuro di avere una soluzione in tasca, e perfino il famosissimo blog di Grillo, che ha una parola definitiva per ciascuno dei problemi che affliggono l’umanità, inganna il tempo indicendo strambe primarie per il Quirinale, aperte ai soliti (pochi) membri di quel riservatissimo club. La sola certezza è che una politica sempre meno comprensibile è una politica sempre più ammalata, distante, alchemica. Roma in questi giorni è lontanissima da tutto e da tutti, forse anche da se stessa. Non trova neanche le parole per dire della propria impotenza, e forse del proprio spavento. Il primo che chiedesse aiuto con le mani nei capelli, tra quei signori in giacca a cravatta che passano la vita rilasciando dichiarazioni ai telegiornali, avrebbe tutta la nostra comprensione. Dev’essere durissimo passare tutta la vita fingendo di sapere che cosa si sta facendo, che cosa si sta dicendo.
LA REPUBBLICA del 23 marzo 2013
Negli ambienti diplomatici circola un test, da sottoporre ai laureandi in politica internazionale e agli aspiranti ambasciatori come prova cruciale di ammissione. Il test è composto di una sola domanda: attraverso quali decisioni e quali atti ufficiali sarebbe possibile peggiorare le prestazioni del governo italiano nel caso dei due marò contesi con l´India? Queste le possibili risposte. A – Restituire uno solo dei marò tenendosi l´altro. B – Restituirli tutti e due, però muniti di turbante perché possano fingere di essere indiani e passare inosservati tra la folla. C – Pretendere che il tribunale indiano sia presieduto da un ammiraglio italiano in alta uniforme, accompagnato dalla Banda della Marina. D – Affidare la difesa dei due marò all´avvocato Taormina. E – Sostenere nel processo in India che le vittime non potevano essere pescatori indiani, perché gli indiani non sanno pescare. F – Pretendere dalle autorità indiane un congruo risarcimento per lo spreco di pallottole. G – Ricoverare i due marò al San Raffaele per accertamenti su un´eventuale uveite. H – Sostenere che la giurisdizione sull´Oceano Indiano è notoriamente di competenza della Pretura di Caserta. I – Invadere l´India. L – Indire una conferenza stampa e scoppiare in un pianto dirotto.
LA REPUBBLICA del 25 aprile 2013
Se Letta ce la fa, saremo di fronte al sogno di Grillo: un governo Pd-Pdl. Con l’alto patrocinio della presidenza della Repubblica, il consenso entusiasta di Berlusconi, la complicità convinta di pezzi del Pd, la rassegnazione impotente degli altri pezzi di un Pd in pezzi. Lo so, è una sintesi rozza e approssimativa. Non dà atto delle ragioni, anche rispettabili, di chi sottolinea l’emergenza, l’urgenza, la contingenza e tutti gli altri enza. Ma descrive la bruta sostanza di un esito politico durissimo da digerire per molti milioni di italiani. E tanto più duro quanto non obbligatorio, come in molti vogliono farci credere. Non lo rendeva obbligatorio il risultato elettorale (anzi!), che indicava una volontà magari scomposta, ma inequivocabile, di svolta radicale. Non lo rendeva obbligatorio il tripolarismo traballante del nuovo Parlamento, che metteva sullo stesso piano di improbabilità un’intesa Pd-M5S e un’intesa Pd-Pdl, ma un poco più improbabile la seconda almeno a giudicare dai programmi, dagli umori dei due elettorati, dalla storia degli ultimi vent’anni. È stata dunque scelta una strada evitandone un’altra. Gli attori di questa scelta (compreso lo stesso Grillo, che ha trattato la sinistra con spregio astioso) abbiano l’onestà, di qui in poi, di rivendicarla come tale: una scelta.
LA REPUBBLICA del 3 aprile 2013
Approfitto della confusione generale, e della rassicurante irrilevanza della mia opinione, per fare i miei nomi per il Quirinale. Barbara Spinelli o Emma Bonino, donne di grande intelligenza e totale indipendenza politica (a Bonino si perdonerà facilmente, nel nome del superiore interesse del Paese, l’ostinata fedeltà a Marco Pannella e alle sue stramberie; a Spinelli di essere, tra le altre cose, editorialista di questo giornale). Lo stimolo proviene da un amico di penna che propone di lanciare la campagna “una Bergoglio per il Colle”, dicitura sapiente e anche molto maliziosa perché esclude la reperibilità di “un” Bergoglio e ne suggerisce, dunque, “una”. Se tifo per una donna Capo dello Stato non è per ruffianeria femminofila (sempre sospetta, tra l’altro, in un maschio). È perché davvero il segno di una così inedita e radicale diversità contribuirebbe non solo a segnare la fine del passato che non passa mai; ma anche a distrarre per un attimo le energie degli attori politici dalla loro rissa permanente, costringendoli a contemplare tutti insieme l’incredibile spettacolo di una femmina che regola e indirizza le ambizioni dei maschi. Ma poi pensate, l’ultimo dell’anno, sentire una voce di donna che ci accompagna e ci consiglia.
LA REPUBBLICA del 5 aprile 2013
Anche il vecchio Billy Bragg, storica voce del proletariato inglese (una specie di Ken Loach della canzone), se la prende con Paolo Di Canio, “il fascista”. Per Di Canio quasi mi dispiace, la sua protervia politica rasenta l’ingenuità, ho un elenco lungo un chilometro di sportivi ben più sgradevoli e impresentabili di lui. Ma spero che la sua contrastata avventura sulla panchina del Sunderland serva a capire, non solamente a lui, che il fascismo, nell’Europa democratica, non è un’opzione politica. È un tabù. Da noi, specie nella capitale con i muri tappezzati di fascisterie, e in quello stadio che è spesso una selva di saluti romani, gli ultimi anni sono serviti a rendere familiare e dunque digeribile ciò che nel resto del continente puzza di deportazione, di guerra e di macerie fumanti. Quando Di Canio faceva il saluto romano alla curva laziale si poteva anche fare finta di niente e pensare che tanto, un’ora dopo, sarebbero tutti andati dalla sora Lella a fasse ’na magnata. Ma a Londra, in Francia, in Germania, in Scandinavia, non sono solo gli ebrei come David Miliband a considerare come un oltraggio razziale il saluto romano. In Italia l’antifascismo, grazie alla devastazione culturale e politica del berlusconismo, è diventato modernariato. Altrove, è ancora memoria cocente della dittatura che ha incenerito mezza Europa.
LA REPUBBLICA del 24 febbraio 2013
Amici mi telefonano in fibrillazione, altri angosciati, “se vince il Bugiardo io questa volta espatrio davvero”, “se vince il Matto va a catafascio il paese”, “se vince Bersani tanto poi non può governare”, “su due elettori uno è un imbecille certificato”, “la gente vota col portafogli o con la pancia, mai col cervello”, “la zia di mia moglie è una nazista”, e tutto il repertorio, ragionevole ma lugubre, sulla democrazia ammalata… Io invece, per motivi certamente irragionevoli, ma immutati nei decenni, vado a votare sempre di buon umore. Ho perso quasi tutte le elezioni dal 1974 a oggi, e dunque dovrei avere maturato, a proposito del voto, una radicata ostilità. Ma ci ricasco ogni volta, e ci ricasco volentieri, vado al seggio carico di rispetto e di fiducia, se incontro la zia nazista del mio amico la saluto e non mi sembra neanche così nazista, forse è il mio amico che è paranoico. Dove voto io sta nevicando forte, e la neve, a patto che uno non dia retta ai telegiornali che ne parlano come di una piaga biblica, mi mette di buon umore. Andrò a votare con il berretto di lana. Credo che abbia ragione quel mio amico: “Su due elettori, uno è un imbecille”, e quello imbecille sono io.