LA REPUBBLICA del 16 marzo 2013
Essendo la vecchia politica quasi morta di formalismo, sarebbe davvero un peccato che anche quella nuova avesse lo stesso vizio. Impazza (pure sul blog di Beppe Grillo) il seguente dibattito: una diploma universitario negli Usa vale una nostra laurea breve? Dalla risposta dipendono l’onore e il destino politico della deputata cinquestellata Marta Grande. È accusata (anche da parecchi dei suoi) di avere spacciato per “laurea” un titolo americano non proprio equivalente. Un errore di vanità e di ingenuità. Basterà ad accendere la pira che i Savonarola del web allestiscono minuto per minuto attorno a questo e a quella? Ovviamente c’è chi sogghigna e dice ai cinquestellati: chi di moralismo ferisce, di moralismo perisce, o perirà presto. Vero, ma non è questo il punto. Il punto è che nessuna rivoluzione può nutrirsi di pura meschinità, del gusto spicciolo di sbugiardare Tizio e incastrare Caio, in una specie di patologica parodia de “Le vite degli altri” con il web nel ruolo della Stasi. A furia di controllare le vite altrui, in quel meraviglioso film lo spione se ne lascia contagiare. Avranno uguale fortuna i nuovi inquisitori? Facendo le pulci ai curricula e alle note spese, riusciranno a intravedere gli esseri umani?
LA REPUBBLICA del 20 marzo 2013
Ha perfettamente ragione chi sostiene che la sostanziale esclusione del centrodestra (otto milioni di voti) dai giochi politici in corso è un problema di democrazia. Ma non è alla democrazia e alle sue regole che il problema va imputato. Un leader multiprocessato e multinquisito non è ordinaria amministrazione: è un’emergenza morale e politica, che si somma, tra l’altro, alla piaga incancrenita di un conflitto di interessi abnorme, che solo i disinformati e i faziosi sono riusciti, per quasi vent’anni, a mettere tra parentesi. A parte le sue petulanti pretoriane e il povero Alfano, gli unici che vanno in televisione a difenderlo, nessuna persona di buon senso può non vedere l’oggettiva catastrofe in atto: centrodestra al suo minimo storico dal 1945 a oggi, e con un leader che appare, più che impresentabile, inverosimile, totalmente screditato nel mondo, come sa bene ogni italiano che abbia mai messo il naso fuori dai confini. Possibile che, di fronte a un problema di rappresentanza così evidente, così irrisolto, così grave, nel centrodestra si continui ad accusare il mondo cattivo di persecuzione senza rendersi conto che si tratta di un caso classico di masochismo politico? Quanti Tafazzi ci sono, anche a destra?
LA REPUBBLICA del 17 aprile 2013
Semplificando brutalmente (a volte è necessario): per la corsa al Quirinale la sinistra deve scegliere se accontentare Berlusconi oppure accontentare Cinque Stelle. Così richiede il tripolarismo imperfetto uscito dal voto. La prima scelta (accontentare Berlusconi) equivale a un suicidio politico non solo per la sinistra, ma per l’intero assetto politico repubblicano. Sarebbe la fotografia di una vecchia classe di potere che si barrica nel Palazzo nella speranza di reggere ancora qualche mese o anno. La seconda (non scontentare Cinque Stelle) è ad alto rischio, perché le intenzioni e la natura stessa di quel movimento sono in parte imperscrutabili. Ma lascerebbe aperto un varco verso quel “cambiamento” che lo stesso Bersani, giustamente, considera sinonimo di “responsabilità”: niente è più irresponsabile, nella presente situazione, che decidere di non cambiare nulla. So che è molto comodo sputare sentenze senza mettersi nei panni degli altri. Ma fossi Bersani non avrei dubbi. A rischio di mettermi contro mezzo partito, accetterei di votare Rodotà o Gabanelli e sfiderei Grillo a trarne le conseguenze. La sinistra italiana ha quasi sempre scelto di rischiare poco, ed è rischiando poco che si è infiacchita e ha perduto molte battaglie. Qui il rischio è altissimo: ma la posta in gioco è cercare di venirne fuori da vivi, e finalmente con il vento in faccia.
LA REPUBBLICA del 24 aprile 2013
Mai parlato tanto di politica da molti anni. Da giorni video accesi in quasi tutte le case, non solo i computer e i tablet per fruitori monadi, anche il vecchio televisore che ritrova una dimenticata centralità collettiva, e raccoglie capannelli di familiari o amici. Mail a frotte, nugoli di sms, telefonate, tweet, parole di persone comuni che si ammantano di solennità nello sforzo di esprimere rabbia, delusione, passione, e parole di persone importanti che diventano semplici e dirette perché la crisi mette a nudo gli animi, rende inutili gli orpelli verbali. Una gigantesca assemblea permanente, tesa, a tratti cattiva e insultante. Litigi. Polemiche. Divisioni. Trame. Un’emotività contagiosa, che la mediaticità capillare spalma ovunque. Faremmo male a non prendere atto che manca, da questo scenario così pubblico e insieme così privato, la violenza. Dico quella violenza diffusa, premeditata, spesso anche omicida, che ha insanguinato l’infanzia e la giovinezza della democrazia italiana. La violenza politica, la violenza della politica. Siamo abituati a pensare, della società italiana, quasi tutto il male possibile. Ma qualche cosa, forse, l’abbiamo imparata. Almeno un poco siamo cresciuti.
LA REPUBBLICA del 23 aprile 2013
Passando agevolmente dentro lo sbrego che la destra di potere e specialmente la Lega hanno aperto, lungo gli anni, nel tessuto democratico del nostro Paese, i neonazisti europei si ritrovano volentieri nei dintorni di Varese (Lombardia, Italia), dove da anni si celebra con molta birra, e liete danze, il compleanno di Hitler, cioè si festeggia (implicitamente o esplicitamente poco importa) lo sterminio di milioni di uomini, donne, bambini. Questo accade sotto lo sguardo preoccupato della Digos, che si presume ne approfitti per raccogliere utili informazioni sui partecipanti al party: che si è svolto, sotto forma di festa privata, in un’area affittata ai nazisti da un circolo culturale vicino alla Lega. Non eguale allarme il raduno hitleriano sembra suscitare tra le autorità locali e regionali. Per ora non sono pervenute reazioni formali – neanche quelle parolette rituali che aiutano, comunque, a sapere che chi deve sapere, sa – da parte del governatore della Lombardia Maroni, né dalle istituzioni politiche di Varese e provincia. Eppure esistono in Italia, così come in tutta Europa, leggi contro l’istigazione all’odio razziale. In provincia di Varese no? Chissà se le vivaci curve ultras locali, almeno per coerenza, hanno mandato agli ospiti con svastica, arrivati da così lontano, un messaggio di benvenuto.
LA REPUBBLICA del 28 marzo 2013
Sperare che Grillo conceda uno spiraglio d´intesa, o anche solo di ascolto, a qualunque forma politica che non sia quella da lui creata e controllata, è pura illusione (lo dico da illuso conclamato, primo firmatario di un appello in favore di un governo di cambiamento rivolto anche a lui e ai suoi). La sua forza sta nell´isolamento, nel potere di veto e di distruzione, nella "superiorità" anche logistica che i suoi deputati e senatori hanno scelto in Parlamento. Mai mischiarsi, mai confondersi, mai abbassarsi allo stesso livello degli altri, massa indistinta di contaminati. Anche perché confrontandosi – cioè mettendosi sullo stesso piano degli altri – si rischia di vivere la stessa esperienza vissuta dal Capo in persona parlando faccia a faccia con Napolitano. Insolentito da lontano, il vecchio uomo di Stato non gli è dispiaciuto da vicino. Basta così poco – basta la realtà – a mutare il disprezzo in curiosità. Allo stesso modo, fino a che se ne rimane nel suo e tra i suoi, Grillo può comodamente definire "padri puttanieri" anche persone alle quali, faccia a faccia, probabilmente non oserebbe dirlo. Rischierebbe un ceffone in pieno viso, come può capitare quando si offende così orribilmente un essere umano in carne e ossa. Fatta da lontano, la politica è a rischio zero.
LA REPUBBLICA del 2 febbraio 2013
In bocca a Mario Monti, la battuta sulla data di nascita del Pd (che il professore farebbe coincidere con quella del Partito Comunista d’Italia, 1921) suona davvero incongrua. Se l’intenzione è accusare la sinistra di scarsa contemporaneità, viene spontaneo far notare che l’aura severamente contabile del professore rimanda dritti alla Destra storica e alla borghesia ottocentesca (volendo esser maligni, dunque, anche ai cannoni di Bava Beccaris), e non balza certo all’occhio per la sua verve scapigliata. Se invece l’idea era rinfacciare alla sinistra di ogni epoca e di ogni landa i suoi lombi “comunisti”, beh quello non è un argomento buono per l’elettorato centrista e moderato di Monti, e può fare colpo, piuttosto, sulla piccola borghesia reazionaria e non proprio coltissima che adora il sedicente Silvio. Il quale avrebbe volentieri rubato a Monti la battuta sulla data di nascita del Pcd’I-Pci-Pidiesse- Diesse-Pidì, se solo si raccapezzasse con le date: il 1921, per Berlusconi, è solo un anno come gli altri, un numero qualunque nella confusa nebulosa dei secoli e dei millenni che hanno preceduto la sua discesa in campo.
LA REPUBBLICA del 20 dicembre 2012
Se un macellaio vi vende carne marcia, o un falegname vi consegna una sedia con le gambe rotte, non c’è cavillo giuridico che possa salvarli dall’obbligo di risarcimento. Perfino i medici sono chiamati a rispondere di eventuali lesioni dovute a cure sbagliate o interventi maldestri. La sentenza di Milano che riconosce responsabili quattro banche per avere investito il denaro del Comune nei famosi “derivati” — l’equivalente finanziario della carne marcia e della sedia con le gambe rotte — è dunque storica perché “laicizza”, finalmente, l’idea stessa che abbiamo del sistema bancario, sconsigliando, per il futuro, la classica definizione di “santuari della finanza”. Se è vero che esiste un margine di rischio (ogni investitore è tenuto a saperlo), è anche vero che le banche, negli anni precedenti il crac del 2008 e la paurosa crisi susseguente, hanno non solo accettato di trattare robaccia dal rendimento dopato e dalle basi inconsistenti; ma hanno – smerciando quella robaccia a piene mani – contribuito a renderla normale, plausibile, consigliabile. Così come il mestiere del macellaio è controllare che la carne non sia guasta, non dovrebbe una banca, fatto salvo il margine di rischio, verificare che un prodotto finanziario non sia una bufala?
LA REPUBBLICA del 29 novembre 2012
Se Taranto fosse in America, attorno alle mura dell’Ilva in fiamme sfilerebbero i predicatori e i pazzi. Direbbero che l’incredibile coincidenza tra il danno prodotto dagli uomini e il colpo di maglio del tornado è segno di maledizione, di colpa da scontare, dell’ira di Dio. (E diciamolo: ieri, alla notizia, anche il più laico e disincantato di noi ha pensato che l’accanimento del destino su quel preciso luogo d’Italia ha qualcosa di sovrannaturale…). Ma non siamo in America. E, tra i tanti svantaggi, abbiamo il notevole vantaggio di essere meno suggestionabili da quelle panzane parabibliche. Si chiama sfiga (neologismo da bar per dire “sventura”) e come tale va considerata e affrontata, senza fare confusione tra il percorso accidentato degli uomini e la rotta delle tempeste. Sarebbe utile – ed è pure probabile – che il sommarsi delle disgrazie, piuttosto che abbattere quella gente, ne ravvivi l’orgoglio e ne aguzzi l’ingegno. Nessuna punizione, nemmeno quelle evocate o meglio invocate dagli apocalittici, è mai veramente meritata. Alla sfiga ci si ribella, la si prende a schiaffi e la si mette in fuga.
LA REPUBBLICA del 8 gennaio 2013
Si può anche capire che monsieur Depardieu, preoccupato per l’assottigliarsi delle sue scorte pantagrueliche di formaggio, porchette e damigiane di vino, sia irritato con il fisco del suo Paese. Si può capire, anche, che madame Bardot, addolorata per la malattia che affligge due anziane elefantesse dello zoo di Lione, sia furente con il servizio veterinario nazionale che non provvede a ricoverare i pachidermi in una clinica per lungodegenti, magari cacciando un paio di magrebini (Bardot, sposata a un fervente lepenista, non li sopporta). Quello che si capisce meno è che le due popolari star abbiano scelto come patria adottiva la Russia di Putin, paese che nel campo dei diritti arranca, e dista dalla Francia un paio di secoli. Probabile che chez Putin il fisco sia meno penalizzante (non per caso le immense ricchezze di quel Paese sono in mano a pochi oligarchi, che lo hanno depredato). Incerto il trattamento mutualistico riservato agli elefanti. Certissimi, invece, la galera per le Pussy Riot, la persecuzione (fino all’assassinio) delle voci libere come la Politkovskaja, lo spregio “virile” per gli omosessuali, il nazionalismo isterico, il neointegralismo religioso “di Stato”. Il putinismo di Depardieu e Bardot è così ridicolo da rivaleggiare con quello, già leggendario, dell’amico Silvio.