LA REPUBBLICA del 3 ottobre 2012
La foto di Lele Mora che lavora in un campo soddisfa, di primo acchito, il facile piacere di vedere un ex privilegiato faticare come l’ultimo dei braccianti. Ma è questione di un attimo – il tempo di mettere davvero a fuoco quell’immagine – e si vede solo un uomo di una certa età che prova ad affidare a mani e braccia il compito di ridare un poco di senso, forse una regola, a un’esistenza travolta prima da una tempesta economica, poi dallo scandalo e dalla galera. Non ho nessuna simpatia per Mora, per il lavoro vacuo e cortigiano in cui eccelleva, per l’odiosa leggerezza con la quale ostentava le sue simpatie mussoliniane. Ma quella foto non può che generare rispetto. Rimanda a qualcosa che sappiamo (o intuiamo) riguardare tutti, indistintamente: nell’umiltà del lavoro manuale, e specialmente del lavoro agricolo, c’è una misura che dissolve molti inganni, e suggerisce la più ovvia, la più basica delle ripartenze: chinare la schiena. La fatica fisica è stata, per i nostri avi, una maledizione. Per molti regimi carcerari è una punizione. Per un evo ammalato di virtualità, potrebbe essere una guarigione.
LA REPUBBLICA del 7 settembre 2012
Il codazzo di fotografi, cameramen e cronisti che fa da scorta a Nicole Minetti costituisce, in sé, una delle prove più schiaccianti della mancanza di dignità e di libertà del sistema mediatico così come ci illudiamo di gestirlo e così come lo stiamo subendo, per metà impotenti e per metà complici. Non c’è persona di buon senso, di qualunque orientamento ideologico e livello culturale, che non ritenga futile e dannoso dedicare tempo, tecnologia, parole e pensieri a una figuretta minore della nostra scena pubblica che è stata, a suo tempo, co-protagonista di uno scandalo di regime e oggi è protagonista di niente. Con la sola e spiegabile eccezione della stessa signorina Minetti, nessuno ha interesse a tenere acceso anche un solo riflettore su di lei. Se questo avviene è solo perché il potere (anzi: il dovere) di scegliere che cosa mostrare, di che cosa parlare è progressivamente venuto meno fino a scomparire dentro l’alibi – davvero ignobile – che bisogna “dare alla gente quello che vuole”: ma la gente legge e clicca ciò che le viene offerto, non altro. Non è la gente che fabbrica le notizie, sono i media. Anche il più scalcinato dei bancarellai ha facoltà di decidere quali merci esporre. I media sono gli unici commercianti che danno sempre al cliente la colpa della loro merce avariata.
LA REPUBBLICA del 14 settembre 2012
Breve sunto dei pensieri e dei dubbi di un probabile elettore alle probabili primarie del centrosinistra. Bersani è una persona seria, competente e anche simpatica, ma è troppo legato alla cultura produttivista del Novecento e all’ossessione della crescita. Renzi è tosto e ha ragione da vendere quando accusa il paese (e il Pd) di essere castali e gerontocratici, ma ancora non ho capito che idea di società ha in testa, ammesso ne abbia una. Vendola ogni volta che parla mi fa capire che senso ha essere di sinistra, ma vederlo in fotografia con Diliberto e Ferrero mi fa dubitare delle sue capacità di stare in un governo senza sfasciarlo. Tabacci è bravo e intelligente, quando lo vedo da Gad Lerner sono tanto contento, ma con il centrosinistra che accidenti c’entra? Laura Puppato (vedi intervista a Concita De Gregorio, Repubblica di ieri) è l’unica donna e il suo programma è di gran lunga la cosa più intelligente, bella e consolante fin qui udita, ma fino a ieri l’altro non sapevo chi fosse e un dalemiano chiederebbe: quante divisioni ha Laura Puppato? Classifica (del tutto personale, nonché aggiornabile): prima Puppato, secondi ex aequo Bersani e Vendola, quarto Renzi, fuori concorso Tabacci.
LA REPUBBLICA del 4 settembre 2012
Finché siamo noi della sinistra incanutita, a borbottare contro la dittatura dei mercati finanziari, possiamo anche credere di star ripetendo le solite vecchie solfe, come ufficiali in congedo nel loro circolo polveroso. Ma quando è la signora Merkel a dire che i mercati finanziari «non sono al servizio del popolo perché negli ultimi cinque anni hanno consentito a poca gente di arricchirsi a spese della maggioranza”, aggiungendo che “non bisogna consentire ai mercati di distruggere i frutti del lavoro della gente”, beh, ci sentiamo un poco rinfrancati. Forse alcune delle fole novecentesche attorno alle quali ci siamo formati — per esempio che il lavoro degli esseri umani deve avere più valore della speculazione, per il semplice fatto che vale di più — andrebbero rivalutate, visto che seducono anche una valorosa scampata al comunismo della Ddr, nemicissima dell’economia pianificata e statalizzata, leader autorevole del liberismo applicato. Non per tartufismo, ma per evidente comodità tattica, di qui in poi potremmo sempre aggiungere ad ogni critica ai mercati finanziari una postilla invincibile: “Credete che l’abbia detto Nichi Vendola? Macché! L’ha detto la Merkel”.
LA REPUBBLICA del 9 ottobre 2012
Ogni volta che sento di giornalisti contigui ai servizi segreti capisco in quale area di privilegio – quella del freddurista/ fantasista – ho sempre potuto muovermi: neanche al più sgangherato degli spioni potrebbe venire in mente di contattare uno come me, che confonderebbe un dossier con il libretto di istruzioni della caldaia. Questo vuol dire che, per mia fortuna, conto pochissimo. Ciò detto, mi chiedo come facciano questi colleghi (parola malinconica in sé, tristissima se detta tra giornalisti) a reggere il peso del loro ruolo. Già questo mestiere è gravato da condizionamenti pesantissimi: il primo dei quali, indiscutibilmente, è la mediocrità personale di ciascuno di noi. Poi si è vincolati a un editore, e dunque soggetti a qualche ovvia limitazione, meno grave se si è scelto un editore in sintonia con le proprie idee, ma pur sempre in atto. Se poi all’editore “in chiaro” si aggiunge un editore occulto (servizi, logge, gruppi di potere), ecco che la vita del giornalista diventa un autentico inferno. Mi auguro che la cassa mutua dei giornalisti rimborsi le terapie psichiatriche per i colleghi finiti nel tunnel dei servizi.
LA REPUBBLICA del 27 giugno 2012
In televisione, dopo un paio di stagioni di requie, c’è un improvviso affollamento di Santanché, Cicchitto, Gasparri e perfino Brunetta, con il Berlu in camicia nera (alla Hugh Hefner: non è fascista, è burino) che fa finta, come sempre, di sapere quello che dice. È un memento, l’improvviso ritorno a una realtà che è rimasta come sospesa per lunghi mesi. Il governo Monti è stato ed è tante cose, ma principalmente ne abbiamo approfittato, chi più chi meno, per prenderci una specie di anno (speriamo) sabbatico. Se abbiamo chiuso un occhio su parecchie cose è perché non ci pareva vero di poter interrompere per un poco quella pazzesca somministrazione quotidiana di persone inverosimili e parole inverosimili che, forse troppo pomposamente, abbiamo chiamato “berlusconismo”. Ora, spero di sbagliarmi, ma la sensazione è come quando, a fine estate, qualcosa nell’aria dice che le vacanze stanno finendo. Qualche nube sul mare, un temporale, refoli di vento autunnale, e i bagnini che cominciano a piegare le sdraio sempre più presto, alla sera. Ci si prepara al rientro. L’abbronzatura durerà meno di una settimana.
LA REPUBBLICA del 12 luglio 2012
Parecchi anni fa i “microfoni aperti” di Radio Radicale fecero intendere, per la prima volta, che il prezzo di una libertà senza regole e senza selezione è moltiplicare la voce dei mascalzoni e — soprattutto — degli idioti. Oggi, su una scala infinitamente più grande, è il web che provvede a ricordarcelo. E non è necessario tirare in ballo i siti nazisti o le altre macro-paranoie che trovano, in rete, troppo comodo alloggio. Basta leggersi i normali “commenta la notizia” che ogni sito, anche quelli dei quotidiani importanti, si sentono in obbligo di attivare. Ieri, per esempio, le edizioni online di tutti i quotidiani davano la notizia di un incidente stradale, fortunatamente non grave, a Nicoletta Braschi, moglie di Roberto Benigni. Seguiva, tra gli altri, questo commento di un lettore: “Poteva anche prendersi un’auto più sicura di una Golf, non mi pare un’auto da signori”. La domanda che dovremmo farci, e che ormai nessuno di noi si fa più, è: perché questo pensierino gretto e mediocre, un tempo confinabile al bancone di un bar, deve finire sotto gli occhi di centinaia di migliaia di persone? È obbligatorio? Lo stabilisce una legge? Ce l’ha ordinato il dottore? E soprattutto: siamo ancora in tempo per discuterne?
LA REPUBBLICA del 15 giugno 2012
Leggendo del caso Penati e del cosiddetto “sistema Sesto”, si cerca (invano) traccia di una qualche percepibile differenza rispetto ad altri “Sistemi”. Non sto parlando solo del tasso di (il) legalità, degli eventuali reati commessi, delle violazioni delle norme sugli appalti pubblici. Parlo delle differenze politiche: se cioè gli attori della vicenda (amministratori e imprenditori) avessero in testa un’idea di città, di società, di destinazione delle aree dismesse, riconoscibile come “di sinistra”. Perché – dico un’ovvietà – il rispetto delle leggi è importante, ma è una precondizione uguale per tutti. È la politica, invece, che dovrebbe essere diversa per tutti, costruire alternative di sistema, immaginare paesaggi differenti, mutare il peso dei poteri (e se si è di sinistra, mutarlo a vantaggio dei poteri deboli). È grave che si rubi, ma è almeno altrettanto grave accorgersi che si ruba non solo tutti alla stessa maniera, ma tutti per gli stessi identici scopi, gli stessi appalti, lo stesso futuro identico al presente. Per dirla schematicamente e brutalmente, una sinistra ladra è colpevole quanto una destra ladra; ma una sinistra incapace di rubare per ragioni differenti, e con scopi differenti, è colpevole il doppio.
LA REPUBBLICA del 11 luglio 2012
Le sinistre analogie tra l’amico Putin e Stalin (vedi la bella inchiesta di Nicola Lombardozzi su R2 di ieri) vanno ovviamente prese con le molle, tanto mutati sono i tempi e i modi. Ma fanno tornare in mente, lustrandolo un poco, l’antico argomento polemico di quei comunisti che imputavano non all’ideologia in sé, ma alla sua applicazione asiatica la nefasta illiberalità di quei regimi. Manca ogni ombra di controprova: se un comunismo parigino sarebbe stato più charmant, uno inglese più spiritoso, uno italiano più lassista, eccetera. Ma intanto Putin viene a ricordarci — e dobbiamo essergliene grati — che a non amare la libera opposizione, le armi della critica, la stampa indipendente, non sono solo le dittature conclamate. Infiniti poteri e uomini di potere sono, anche nelle democrazie formali, ingessati dal sussiego o dalla paura o dalla tracotanza, e si sentono depositari di una verità o di un bene che sono disposti a infliggere ad ogni costo. Di Putin non conta sapere quanto sia stato del Kgb, quanto comunista, quanto anticomunista, quanto oggi sia di destra e filoplutocratico e amico delle varie caste e mafie che si sono mangiata viva la Russia. Conta sapere se conosce i suoi limiti personali e i limiti del suo potere: solo quella è la democrazia.
LA REPUBBLICA del 24 luglio 2012
Barak Obama – che un nome se lo è conquistato, eccome – non ha voluto pronunciare il nome del miserabile assassino di Denver. La condanna all’anonimato come punizione massima per chi è disposto a qualunque nefandezza pur di uscirne. Giusto. Così giusto che fa riflettere, per esteso, sull’equivoco esiziale che guasta i sogni della società massificata: la totale confusione tra fama e valore. Si ritiene che se non si è famosi non si esiste, non si vale, ma è un falso spaventoso, è il padre di tutti i falsi. Ci sono evidenti casi di famosi farabutti e di famosi imbecilli; e di persone il cui valore, anche grande, è conosciuto da pochi, e tra quei pochi loro stessi. Ho sentito Benigni, in Santa Croce a Firenze, a commento del canto Undicesimo, dire che il lavoro umano prosegue il lavoro di Dio. Ho pensato al “lavoro ben fatto” di Primo Levi, ai tanti (e sempre più rari) esempi di persone felici del loro fabbricare, creare, mettere ordine, disporre in giustezza le cose. Il loro valore è inestimabile, e non importa quanti lo sanno (lo sa Dio, direbbe il poeta). Se si riuscisse a fare capire questo – che il valore è più della fama – ai miliardi di anonimi e ai milioni di frustrati, ci sarebbe qualche pazzo infelice di meno, e qualche traccia in più della potenza umana.