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LA REPUBBLICA del 3 luglio 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  L'Amaca
Si capisce che non è al sindaco Alemanno che si deve chiedere ragione della svastica al Circo Massimo, e in generale del rosario di svastiche, fasci littori e croci celtiche che impavesano da molti anni l’Olimpico, e dell’onnipresente iconografia fascista (perfino nello stile grafico dei manifesti murali) che sborda un poco ovunque nella città visivamente più fascista d’Europa, dopo Latina. Diciamo che non è la persona giusta, il sindaco, per affrontare il fenomeno con qualche speranza di autorevolezza, perché ognuno ha la sua storia e non è che a cinquant’anni suonati Alemanno se ne possa inventare un’altra. Ma che il problema esista sarebbe ora di dirselo con franchezza, anche perché Roma, oltre a essere sede della Roma e della Lazio, è anche e non secondariamente la capitale d’Italia, a Roma ci sono il Quirinale, il palazzo del governo, le due Camere, un sacco di ministeri, e insomma che nutriti drappelli di nazisti, di picchiatori di omosessuali, di antisemiti si radunino oggi qui e domani là, sentendosi a casa loro come circoli dopolavoristi o cicloturisti, non è una cosa normalissima. Non è colpa di Alemanno, per carità. Ma qualcuno dovrà pure occuparsene. In sua vece. 

LA REPUBBLICA del 21 giugno 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  L'Amaca
C’è davvero una “incompatibilità tra le regole dominanti dell’economia e le regole, ad essa sottomesse, della democrazia”, come si chiedeva ieri su questo giornale Gad Lerner riflettendo sulla situazione greca? Guardate che la domanda, specie se a porla non è un giovane rivoluzionario ma un maturo socialdemocratico come Lerner (e come me), è di quelle che fanno tremare le vene ai polsi. Perché se è vero, che le regole di questa economia sono monocratiche e sopraffattrici, prima o poi si tratterà di sovvertirle — o almeno correggerle radicalmente — prima che la democrazia ne esca definitivamente commissariata. E non sono le frange radicali, è la sinistra di massa, quella oramai incanutita nel quasi placido tran tran del parlamentarismo, delle elezioni, di un’alternanza che di alternativo ha davvero pochino, che si gioca il futuro se non sarà in grado di scuotersi. Il socialismo europeo, scrive ancora Lerner, rischia l’irrilevanza se si rassegna a considerare velleitaria una riforma democratica dell’architettura dell’Unione. Dato (quasi) per scontato che i socialisti non credono più nel socialismo, possiamo sperare che credano almeno nel primato della democrazia, e nella possibilità di sottomettere i famosi “mercati” ad essa, e non essa ai “mercati”? Vendola sappiamo già quello che pensa. Ma Bersani? Qui non serve la cavalleria. Serve la fanteria. 

LA REPUBBLICA del 6 giugno 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  L'Amaca
Oggi i calciatori azzurri, in Polonia per gli Europei, andranno in visita ad Auschwitz. Non è una presenza scontata, per almeno due ragioni. La prima (profondamente rimossa nella nostra memoria nazionale) è che l’Italia è stata il principale alleato di Hitler e dunque il principale complice dello sterminio: chissà se qualcuno, nella nostra delegazione, avrà la volontà di spiegarlo a ragazzi di vent’anni comprensibilmente poco avvezzi alla riflessione storica. Il secondo è che il calcio, inteso come fenomeno popolare globale, è ormai da molti anni un micidiale incubatore dei razzismi vecchi e nuovi, e in specie dell’antisemitismo: gli stadi europei sono forse l’ultimo posto al mondo dove vengono tranquillamente esposte svastiche e croci celtiche, e il saluto romano (un brevetto italiano…) accomuna le curve nazional-fasciste di mezza europa. I calciatori hanno, in questo senso, responsabilità enormi. Di complicità (a volte cosciente, a volte no) con tifoserie razziste, e soprattutto di omissione di buon esempio. Il loro comportamento, le loro parole, il loro atteggiamento in campo (per esempio quando il pubblico insulta un “negro”) sono fondamentali. Lo sport è (anche) un potentissimo vettore di valori. La speranza è che questa mattina, ad Auschwitz, qualcosa scatti nella testa degli azzurri. 

LA REPUBBLICA del 6 luglio 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  L'Amaca
La feroce determinazione con la quale i berlusconiani cercano di conservare il controllo della Rai non si spiega solo con i normali parametri della lotta per le poltrone. C’è un sovrappiù simbolico che è perfino imbarazzante dover ripetere: un forte complesso di inferiorità culturale che scatena nella destra italiana l’impulso violento a occupare per potere ciò che non è in grado di occupare per merito. La vera tragedia del berlusconismo morente, dopo quasi due decenni di purghe, censure e scorrettezze (la più scandalosa delle quali è avere imposto alla Rai uomini Mediaset, leali alla concorrenza anche se ritiravano la busta paga in viale Mazzini), è non essere stato capace di formare dirigenti, produttori, conduttori, artisti all’altezza degli odiati e cosiddetti “rossi”. Il centrodestra — con gli ovvi distinguo — ha avuto la sua piena espressione culturale ed estetica in Mediaset. Ma sapeva, sentiva, che molte trasmissioni e molti uomini della Rai facevano ombra, eccome, a quella cultura e a quell’estetica. Per questo la governanceberlusconiana alla Rai si è manifestata soprattutto in poche e dimenticate produzioni colate a picco, e nell’accanito boicottaggio di quello che, in Rai, funzionava bene. Non c’era bisogno di ordini superiori. Era un invincibile istinto: colpire chi è più bravo di te. 

LA REPUBBLICA del 5 giungo 2012

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  L'Amaca
Sento in un talk-show l’impressionante Sallusti definire Roberto Saviano “un ricco scrittore”, espressione che al pubblico che fa riferimento a Sallusti deve sembrare l’acme della corruttela morale. Pare di capire che la destra bastonatrice ( Giornale e Libero, per non far nomi) voglia indicare in Saviano il nuovo, odiato simbolo dei “radical chic”, il leader blandito “nei salotti che contano” dalle signore svenevoli e dagli orditori delle trame demo-pluto-massoniche. I toni e gli argomenti usati contro l’autore di Gomorrasono piuttosto spregevoli (anche se non raggiungono l’allucinata violenza toccata un mesetto fa da Giuliano Ferrara sul Foglioin uno degli articoli più ignobili della storia del giornalismo mondiale), ma la sostanza della campagna di stampa fa decisamente sorridere. Saviano può piacere o non piacere, ma con i radicalchic c’entra come i cavoli a merenda. È uno scrittore-soldato, che paga la sua guerra alla malavita conducendo una vita tremenda. Non è di sinistra, ha valori popolari molto simili a quelli di un meridionale tradizionalista non colluso e non servo. È un uomo libero e coraggioso. In un Paese munito di una destra decente (cioè legalitaria e repubblicana) sarebbe di destra. Dunque, non in questo Paese. 

LA REPUBBLICA del 20 giugno 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  L'Amaca
Adesso che la Lega ha perduto gran parte del suo potere di ricatto, forse possiamo tornare a parlare, con sollievo, di alcune qualità del Nord senza sentirci complici di una cultura di strapaese. Per esempio: le candidature di Gherardo Colombo e Benedetta Tobagi alla Rai (scelta felice dell’associazionismo, innescata dal passo indietro virtuoso di Bersani) sono una rivincita della Milano migliore, la Milano etica, democratica e “protestante” che si contrappone quasi naturalmente alla Roma peggiore, quella maneggiona, consociativa e curiale. Probabile che questo dato (due milanesi su due) sia sfuggito alle associazioni nazionali sollecitate a indicare due nomi per il Consiglio d’amministrazione più discusso d’Italia. Ma non c’è dubbio che a configurare il tasso (alto) di autonomia e di eticità di Colombo e Tobagi abbia contribuito assai la loro formazione nella Milano di cui sopra, la stessa di Ambrosoli, di Mani Pulite, di Tobagi padre. È strano, piuttosto, che il dato sfugga a una persona che a Milano ha lungamente lavorato, Tonino Di Pietro, che non riesce a vedere nell’indicazione di quei due nomi altro che una nuova e mutata forma di lottizzazione partitica. Dall’uomo che ha portato in Parlamento De Gregorio, Scilipoti e Razzi ci si aspetterebbe, sulle nomine di qualunque ordine e grado, maggiore prudenza nei giudizi. 

LA REPUBBLICA del 29 maggio 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  L'Amaca
La vera domanda, attorno ai cosiddetti misteri vaticani, è quanto ancora possono incidere, i maneggi e le lotte intestine di quegli anziani prelati, sulla vita della società italiana. Nel resto del mondo il loro peso politico è ormai vicino allo zero: la stampa estera ne parla, in genere, con divertito esotismo, come se noi parlassimo degli intrighi alla corte del marajah. Del resto, se la Chiesa romana avesse inteso – anche solo per marketing – coronare l´avvento di due papi stranieri concedendo più potere e visibilità ai porporati d´Asia, d´Africa e delle Americhe, forse il mondo la considererebbe quell´istituzione internazionale che pretende di essere. Invece, così come stanno le cose, con quel Bertone che si occupa soprattutto dell´Udc, si capisce che "romana" vuol dire proprio romana, soltanto romana. Tornando dunque alla domanda iniziale: quello che accade dietro quelle alte mura, che ricadute avrà fuori di esse? Avrà ripercussioni anche oltre l´Udc, arrivando a lambire la famosa componente cattolica del Pd? O una cortese indifferenza prevarrà anche da noi, perfino da noi, visto che di alcune dinamiche interne al Vaticano molti commentatori scrivono come se in ballo ci fosse non il destino del Paese, ma quello di una prestigiosa ma polverosa istituzione, tipo i Lincei o la Crusca? 

LA REPUBBLICA del 17 giugno 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  L'Amaca
Il calcio italiano non merita un “premier” come Cesare Prandelli. Che di fronte all’insopportabile e onnipresente cicaleccio sul “biscotto” (per i non addetti: pareggio concordato) tra spagnoli e croati, semplicemente rifiuta di considerare l’ipotesi, parendogli che il pensare male faccia male, e basta. Una sorta di onestà obbligatoria, sicuramente a rischio di ingenuità, ma esemplare in un uomo di sport. Prandelli non può dirlo, ma certamente pensa che il nostro calcio, in questo momento, è l’ultimo al mondo che può permettersi il lusso di fare la morale agli altri. È il calcio più inquisito del mondo, segnato da scandali infiniti nel senso che sono tanti ma anche nel senso che non finiscono mai. È un calcio che non sopporta neanche le proprie regole (vedi l’assurda polemica sulla “terza stella” della Juve). È un calcio in larga parte succube delle sue curve malavitose (vedi la disgustosa cerimonia della “consegna delle maglie” dei giocatori del Genoa ai capi tribù ultras). È un calcio che da quattro giorni non riesce a parlare d’altro che di un fantomatico “biscotto” ai propri danni: perché è tipico degli immorali essere anche vittimisti: la colpa è sempre di qualcun altro. 

LA REPUBBLICA del 28 giugno 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  L'Amaca
Se tutti “seguono”, chi dirige? Se lo chiede Thomas Friedman sul New York Times e su questo giornale (ieri), in un eccellente editoriale, “Il potere dei followers”, nel quale ragiona sulla coincidenza, non casuale, tra trionfo dei nuovi media e crisi delle leadership mondiali. Classi dirigenti risucchiate dall’ossessione di “piacere alla gente”, e condannate a saperlo in tempo reale, non sono più in grado di concentrarsi sul diritto-dovere di fare scelte e fare programmi (cioè di fare il proprio mestiere di classe dirigente) senza farsi schiacciare da quel costante aggiornamento sulle opinioni e le emozioni di massa che sono Twitter, Facebook e i media sociali in genere. È come se ogni gesto, ogni parola fosse continuamente sotto il ricatto di un fischio o di un applauso. A quanto scrive Friedman va aggiunto che i media sociali sono al tempo stesso causa ed effetto di un nuovo tipo di democrazia diretta che si considera tanto più efficiente e virtuosa quanti più “followers” e “mi piace” riesce a rastrellare, ovvero quanto più “uguale a me” risulta essere il mondo. Ma, forse per un vecchio equivoco, credo che la forza della democrazia non è permettermi di votare per chi è uguale a me, ma per chi è migliore di me. 

LA REPUBBLICA del 17 luglio 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  L'Amaca
Risuonano ripetuti “allarme crescita”. Rimandano all’obbligo, decisamente ansiogeno, di ricominciare a correre, incrementare numeri, migliorare il rendimento. Come il tamburo nelle triremi romane, l’“allarme crescita” esorta ad accelerare il ritmo della voga: ma a parte i rematori scoppiati, c’è un sacco di gente che non ha più nemmeno un remo da impugnare, neanche per darsi un contegno. I disoccupati, i pensionati, gli esodati, gli imprenditori espulsi dalla corsa, i ragazzi in coda in attesa di un imbarco che non verrà mai. Capita così che l’allarme crescita finisca per sembrare più irritante che invogliante. È un “dover essere” che assomiglia sempre meno alla ricerca di un decente equilibrio tra vita e lavoro, soldi e libertà, consumi e necessità. Se c’è un momento per pensare a un’alternativa, per inventarsi una via di fuga, è esattamente questo. Si ignora se davvero esistano una o più rivoluzioni “fai da te”, lavori nuovi, romitaggi, farsi monaca, vivere di pane e ceci, aprire un bar in Alaska, diventare ricchi brevettando le bolle di sapone quadrate, non so. Certo quando risuona, lugubre e trafelato, l’“allarme crescita”, si avverte con certezza assoluta che non è più questo il ritmo che ci salverà. 
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