LA REPUBBLICA del 16 giugno 2012
Fa simpatia il nuovo sindaco di Parma, il pallido Pizzarotti, che per raccomandarsi a qualche santo dei dintorni si insedia citando Guareschi. La citazione è un po’ goffa, ma congrua: “nel suo mondo alcune figure si scontrano, ma poi arrivano al bene dei cittadini”. Voleva dire che Peppone e don Camillo litigano su tutto, ma sulle grandi scelte, quelle che mettono in gioco la dignità e l’identità dell’intera comunità, si ritrovano alleati. È una versione nobile (e letteraria) di quello che oggi si chiama “consociativismo”. Fa specie, la citazione, in bocca al primo sindaco importante di un movimento che ha fatto sfracelli maledicendo i compromessi, minacciando sfracelli, rifiutando qualunque tipo di alleanza o apparentamento. Così, del resto, è il potere: se si è stupidi rende più arroganti, se si è intelligenti rende più umili, perché se ne percepisce il peso. Quando ero giovane giudicavo malissimo il rivoltoso che entrando a Palazzo abbassava la cresta, cambiava tono e atteggiamento. Pensavo al tradimento. Con gli anni, si arriva a capire che è fisiologico debuttare da rivoluzionari e governare da riformatori. Pizzarotti merita tutti i nostri auguri. Anche perché governa una città difficile e poco affidabile: prima di lui i parmigiani avevano eletto la maggioranza più incapace e corrotta del pianeta. Non so se lo meritano, Pizzarotti.
LA REPUBBLICA del 4 luglio 2012
Un senatore che si chiama Bodega è stato molto sbertucciato sul web perché ha sbagliato un congiuntivo parlando a Palazzo Madama. Non si vede dove stia la notizia: questa legislatura è ricca di onorevoli (specie leghisti e dipietristi) che hanno problemi già con l’indicativo, non si può pretendere che padroneggino addirittura il congiuntivo. Piuttosto, si è avuto modo di sapere, a margine del discorso di Bodega, che costui, eletto nella Lega, oggi fa parte di un raggruppamento politico che si chiama, ve lo giuro, Siamo Gente Comune. (Il solo precedente politico noto è “Semo gente de borgata” dei Vianella). Immagino che questa gioiosa rivendicazione di ordinarietà, nelle intenzioni del Bodega e dei suoi compagni di strada, giustifichi e anzi rivendichi un parlato molto spiccio: è gente che lavora, non ha mica tempo da perdere con quel tipico espediente da radicalchic che è il congiuntivo. Il problema è che la gente comune, proprio perché sa quanto sia faticoso e importante esprimersi bene, si è via via affidata, nei secoli, a tribuni dall’oratoria trascinante, leader di alto profilo intellettuale, oratori in grado di affrontare alla pari i rappresentanti delle classi privilegiate. In sintesi: perché la gente comune, con tutti gli svantaggi che ha, dovrebbe anche farsi rappresentare in Parlamento dal senatore Bodega?
LA REPUBBLICA del 26 maggio 2012
Il capitalismo ha molti difetti, ma tra i suoi pregi annovera l´etica del rischio individuale. Non si capisce, dunque, con chi ce l´hanno i risparmiatori che hanno strapagato le azioni di Facebook e ora vogliono rivalersi in tribunale dopo il tracollo delle medesime. Si dice "giocare in Borsa", significa – appunto – che si può vincere ma si può anche perdere. Se qualcuno (brocker o altri) ha sopravvalutato il valore di Facebook, qualcun altro ha deciso di fidarsi dei suoi consigli e ha perso la scommessa. Se la prenda con se stesso. Gli investitori spennati che vanno dall´avvocato mi ricordano i fumatori ammalati che fanno causa ai produttori di sigarette. Prima di smettere ho fumato per quarant´anni, sapevo benissimo che i miei polmoni non se ne sarebbero avvantaggiati, considererei vile e stupido dare la colpa al tabacco: la colpa, se mi ammalo di cancro ai polmoni, è solo mia. Colpisce constatare, dopo un paio di secoli di cultura capitalista e di culto dell´individualismo, che la pratica della responsabilità personale è ancora così poco diffusa, e dare la colpa ad altri (allo Stato, alle banche, alla Borsa, al sistema) è un vizio spalmato ovunque, tra le piagnucolanti clientele dello Stato assistenziale così come tra gli intrepidi (apparentemente) investitori americani.
LA REPUBBLICA del 27 giugno 2012
In televisione, dopo un paio di stagioni di requie, c’è un improvviso affollamento di Santanché, Cicchitto, Gasparri e perfino Brunetta, con il Berlu in camicia nera (alla Hugh Hefner: non è fascista, è burino) che fa finta, come sempre, di sapere quello che dice. È un memento, l’improvviso ritorno a una realtà che è rimasta come sospesa per lunghi mesi. Il governo Monti è stato ed è tante cose, ma principalmente ne abbiamo approfittato, chi più chi meno, per prenderci una specie di anno (speriamo) sabbatico. Se abbiamo chiuso un occhio su parecchie cose è perché non ci pareva vero di poter interrompere per un poco quella pazzesca somministrazione quotidiana di persone inverosimili e parole inverosimili che, forse troppo pomposamente, abbiamo chiamato “berlusconismo”. Ora, spero di sbagliarmi, ma la sensazione è come quando, a fine estate, qualcosa nell’aria dice che le vacanze stanno finendo. Qualche nube sul mare, un temporale, refoli di vento autunnale, e i bagnini che cominciano a piegare le sdraio sempre più presto, alla sera. Ci si prepara al rientro. L’abbronzatura durerà meno di una settimana.
LA REPUBBLICA del 12 luglio 2012
Parecchi anni fa i “microfoni aperti” di Radio Radicale fecero intendere, per la prima volta, che il prezzo di una libertà senza regole e senza selezione è moltiplicare la voce dei mascalzoni e — soprattutto — degli idioti. Oggi, su una scala infinitamente più grande, è il web che provvede a ricordarcelo. E non è necessario tirare in ballo i siti nazisti o le altre macro-paranoie che trovano, in rete, troppo comodo alloggio. Basta leggersi i normali “commenta la notizia” che ogni sito, anche quelli dei quotidiani importanti, si sentono in obbligo di attivare. Ieri, per esempio, le edizioni online di tutti i quotidiani davano la notizia di un incidente stradale, fortunatamente non grave, a Nicoletta Braschi, moglie di Roberto Benigni. Seguiva, tra gli altri, questo commento di un lettore: “Poteva anche prendersi un’auto più sicura di una Golf, non mi pare un’auto da signori”. La domanda che dovremmo farci, e che ormai nessuno di noi si fa più, è: perché questo pensierino gretto e mediocre, un tempo confinabile al bancone di un bar, deve finire sotto gli occhi di centinaia di migliaia di persone? È obbligatorio? Lo stabilisce una legge? Ce l’ha ordinato il dottore? E soprattutto: siamo ancora in tempo per discuterne?
LA REPUBBLICA del 15 giugno 2012
Leggendo del caso Penati e del cosiddetto “sistema Sesto”, si cerca (invano) traccia di una qualche percepibile differenza rispetto ad altri “Sistemi”. Non sto parlando solo del tasso di (il) legalità, degli eventuali reati commessi, delle violazioni delle norme sugli appalti pubblici. Parlo delle differenze politiche: se cioè gli attori della vicenda (amministratori e imprenditori) avessero in testa un’idea di città, di società, di destinazione delle aree dismesse, riconoscibile come “di sinistra”. Perché – dico un’ovvietà – il rispetto delle leggi è importante, ma è una precondizione uguale per tutti. È la politica, invece, che dovrebbe essere diversa per tutti, costruire alternative di sistema, immaginare paesaggi differenti, mutare il peso dei poteri (e se si è di sinistra, mutarlo a vantaggio dei poteri deboli). È grave che si rubi, ma è almeno altrettanto grave accorgersi che si ruba non solo tutti alla stessa maniera, ma tutti per gli stessi identici scopi, gli stessi appalti, lo stesso futuro identico al presente. Per dirla schematicamente e brutalmente, una sinistra ladra è colpevole quanto una destra ladra; ma una sinistra incapace di rubare per ragioni differenti, e con scopi differenti, è colpevole il doppio.
LA REPUBBLICA del 11 luglio 2012
Le sinistre analogie tra l’amico Putin e Stalin (vedi la bella inchiesta di Nicola Lombardozzi su R2 di ieri) vanno ovviamente prese con le molle, tanto mutati sono i tempi e i modi. Ma fanno tornare in mente, lustrandolo un poco, l’antico argomento polemico di quei comunisti che imputavano non all’ideologia in sé, ma alla sua applicazione asiatica la nefasta illiberalità di quei regimi. Manca ogni ombra di controprova: se un comunismo parigino sarebbe stato più charmant, uno inglese più spiritoso, uno italiano più lassista, eccetera. Ma intanto Putin viene a ricordarci — e dobbiamo essergliene grati — che a non amare la libera opposizione, le armi della critica, la stampa indipendente, non sono solo le dittature conclamate. Infiniti poteri e uomini di potere sono, anche nelle democrazie formali, ingessati dal sussiego o dalla paura o dalla tracotanza, e si sentono depositari di una verità o di un bene che sono disposti a infliggere ad ogni costo. Di Putin non conta sapere quanto sia stato del Kgb, quanto comunista, quanto anticomunista, quanto oggi sia di destra e filoplutocratico e amico delle varie caste e mafie che si sono mangiata viva la Russia. Conta sapere se conosce i suoi limiti personali e i limiti del suo potere: solo quella è la democrazia.
LA REPUBBLICA del 24 luglio 2012
Barak Obama – che un nome se lo è conquistato, eccome – non ha voluto pronunciare il nome del miserabile assassino di Denver. La condanna all’anonimato come punizione massima per chi è disposto a qualunque nefandezza pur di uscirne. Giusto. Così giusto che fa riflettere, per esteso, sull’equivoco esiziale che guasta i sogni della società massificata: la totale confusione tra fama e valore. Si ritiene che se non si è famosi non si esiste, non si vale, ma è un falso spaventoso, è il padre di tutti i falsi. Ci sono evidenti casi di famosi farabutti e di famosi imbecilli; e di persone il cui valore, anche grande, è conosciuto da pochi, e tra quei pochi loro stessi. Ho sentito Benigni, in Santa Croce a Firenze, a commento del canto Undicesimo, dire che il lavoro umano prosegue il lavoro di Dio. Ho pensato al “lavoro ben fatto” di Primo Levi, ai tanti (e sempre più rari) esempi di persone felici del loro fabbricare, creare, mettere ordine, disporre in giustezza le cose. Il loro valore è inestimabile, e non importa quanti lo sanno (lo sa Dio, direbbe il poeta). Se si riuscisse a fare capire questo – che il valore è più della fama – ai miliardi di anonimi e ai milioni di frustrati, ci sarebbe qualche pazzo infelice di meno, e qualche traccia in più della potenza umana.
LA REPUBBLICA del 14 giugno 2012
È in atto un “attacco militare” per la “liquidazione dei centri di resistenza all’omologazione”, allo scopo di “normalizzare dall’alto l’Italia”. Chi lo scrive? Anarchici? Circoli neopunk? Okkupanti? Cesare Battisti intervistato da Toni Negri sulla spiaggia di Rio (o viceversa)? Macché. Questa prosa insurrezionale appartiene — incredibile ma vero — al plurigovernatore di Lombardia Roberto Formigoni. Uno che è passato dalla Prima Comunione al potere senza neanche fare un salto a casa per salutare la famiglia. Uno che è riuscito a mettere insieme, pezzo dopo pezzo, potere politico, potere economico, potere curiale, tanto da fare credere ai suoi milioni di parrocchiani, e probabilmente credere egli stesso, di aver gestito la regione più ricca d’Europa, per decenni, in seguito a qualche remota investitura spirituale. Uno consustanziale a Ligresti, al San Raffaele, all’Expo prima spacciato per “agricolo” (ah ah ah!) e poi coltivato a calcestruzzo. E uno così ha il coraggio di definire il proprio potere “centro di resistenza all’omologazione”??!! Ma non erano molto meglio, dico, i Gava, i Lima, gli Andreotti, i democristi di potere e di appalto, padroni e padrini delle città, nessuno dei quali si è mai sognato di sentirsi “resistente” ad alcunché? Tutta gente omologatissima, pace all’anima loro, che almeno non ci prendeva per i fondelli?
LA REPUBBLICA del 5 luglio 2012
La deragliante tirata polemica del presidente del Napoli Calcio, De Laurentiis, contro i giornalisti sportivi, avrebbe potuto riscuotere — nonostante i modi — anche parecchi consensi: perché il capo d’accusa di De Laurentiis è che la stampa sportiva si interessa solo di contratti, compensi, trame economiche. Ossessionata dai soldi come la nostra società nel suo complesso. E dunque, mentre De Laurentiis sbraitava, uno si aspettava che, da un momento all’altro, indicasse ai giornalisti, a mo’ di sprone, le tante belle cose che lo sport sa raccontare. Il lato umano. L’epopea. Il romanzo. Ma ecco che — colpo di scena — De Laurentiis, allontanandosi furente, si volta di scatto e sibila, come drammatico finale della sua scena madre, questa memorabile frase: “Fate lievitare i costi! ”. Ma come? Noi si sperava che la sua ribellione contro la dittatura del denaro, pur non essendo egli un comunista, né un comboniano, e nemmeno un fautore del cinema d’essai, povero ma bello, potesse sfociare in un sublime monito morale, di quelle frasi da far leggere ai giovani. E invece: era incazzato perché calciatori e procuratori, leggendo certe cifre sul “Corriere dello sport”, alzano le pretese. Insomma, aveva in testa i quattrini: manco fosse un giornalista sportivo…