LA REPUBBLICA del 11 maggio 2012
Che possa essere "un genovese di una certa età già militante nell´area brigatista" uno dei sospettati per l´attentato al dirigente dell´Ansaldo, è solamente un´illazione. Piuttosto verosimile, però, perché ci rimanda dritti alla decrepitezza del nostro Paese, al nostro invecchiare tutti insieme e sempre uguali, e sempre più ingombranti, tignosi e insopportabili mano a mano che il tempo passa (possibile che non ci sia un´età pensionabile anche per i terroristi? Non è un lavoro usurante?). Non sono un´illazione, invece, le rivendicazioni che circolano in rete, laggiù nella remota e fantasmatica galassia detta "insurrezionale". Dove si parla di "infami rappresentanti del capitalismo", di "parassiti" e di "masse popolari" come nei canti di fine Ottocento, come nei manifesti murali del Dopoguerra, come nei ciclostilati degli anni Sessanta, come se tutto fosse eternato (la Storia e le persone) in un bassorilievo museale. Magari chi parla in quella maniera muffita ha vent´anni: ed è perfino più triste e più sinistra, la figura del ventenne già rincoglionito, di quella del vecchietto brigatista.
LA REPUBBLICA del 1 maggio 2012
Il breve rosario di belinate sulla mafia scappate di bocca a Beppe Grillo nella sua predica palermitana ha una spiegazione tecnica quasi ovvia, ma stranamente rimossa dal discorso pubblico su Grillo e il grillismo: Grillo è un comico, ragiona e parla come un comico. E il linguaggio comico lavora sulla sintesi.
Procede per battute e brutali semplificazioni che possono anche essere fulminanti, ma solo in quel contesto. Se un intellettuale o un politico osasse liquidare un argomento tremendo come la mafia con quattro battute, verrebbe considerato un cialtrone.
La semplificazione comica è bene accetta, e liberatoria, perché ci solleva dalla complicazione della vita. Il successo di Grillo dipende (anche) dall’avere trasposto il suo carisma di semplificatore in mezzo alla polis, e di averlo fatto in un momento in cui la vita pubblica ed economica è così complicata da essere angosciante. Ma ci sono istanti rivelatori (il discorso di Palermo è uno di questi) in cui il gioco della semplificazione crea un cortocircuito, e anche il re dei semplificatori all’improvviso è nudo. Semplicemente, così come un politico che fa lo spiritoso in genere è deprimente, un comico che fa politica in genere è irritante. Contro la mafia don Ciotti, che non ha mai fatto ridere nessuno, vale un milione di Grillo messi insieme.
LA REPUBBLICA del 24 aprile 2012
"I partigiani lottavano per la libertà, i fascisti stavano con i nazisti". Così Francesco Guccini si ribella all´appropriazione indebita di un verso della Locomotiva ("gli eroi sono tutti giovani e belli") stampato su un manifesto che inneggia a Salò. Non si potrebbe esprimere in maniera più semplice, e insieme più giusta, la differenza tra partigiani e repubblichini: contro il nazismo oppure a fianco del nazismo, questa fu la scelta. Eppure questa verità, oggi, suona quasi anticonformista, e perfino intellettualmente difficile: le carte sono state tutte rimescolate, e alcune anche truccate, dalla pervasiva, insistente, annosa campagna di revisionismo storico che ha accompagnato gli anni di Berlusconi, primo premier della storia repubblicana non antifascista. L´espediente retorico di rendere omaggio alla "voce dei vinti" ha finito per trasformare, pian piano, i lupi in agnelli, e la minoranza di ragazzi generosi e coraggiosi che, sebbene cresciuti dentro un regime stupido e razzista, presero la via dei monti, nel racconto revisionista viene spacciata per un potere soverchiante e opportunista. Domani è il 25 aprile e ogni anno che passa festeggiarlo diventa sempre più importante, sempre più giusto e, per quanto mi riguarda, sempre più emozionante.
LA REPUBBLICA del 25 maggio 2012
Confesso di essere stato colto di sorpresa dalla vastità, dalla varietà, dalla serietà delle commemorazioni per Falcone e Borsellino. Non era scontato. Abbiamo l´impressione di vivere un tempo sbrecciato, di abitare in una società destrutturata, dove la gran parte delle idee e dei sentimenti sono momentanei e volatili. Dove la bomba messa da un demente riesce a monopolizzare la scena e a levare la parola alla fatica quotidiana (compresa la fatica politica) di milioni di cittadini. Fortunatamente, non è così. Il lavoro ventennale (e oltre) di associazioni, insegnanti, sindacati, partiti, intellettuali, cittadini contro le mafie e la cultura mafiosa si è sedimentato in un´opinione pubblica (o almeno in una sua parte) che non è disposta a vivere alla giornata, senza princìpi, senza memoria, in balia del più forte. Si sono sentite (anche alla Rai, che una volta tanto ha fatto il suo mestiere di servizio pubblico) parole non banali, ricostruzioni non di comodo dei due attentati, analisi utili della vulnerabilità del nostro tessuto democratico. Che è fragile, ma non fragilissimo se vent´anni dopo le due stragi mafiose il denso groviglio di dolore, di paura ma anche di orgoglio è sembrato rivivere come allora. Non sempre le commemorazioni sono pompose e vuote. Questa è stata poco retorica, e piena di speranza.
LA REPUBBLICA del 10 maggio 2012
Santanché ha ragione, perfettamente ragione. Che cosa c´entra la destra così come Berlusconi l´ha aggregata pezzo dopo pezzo (antistatale, antifiscale, illegalitaria, la sola vera "antipolitica" fin qui vincente in Italia) con il governo Monti? La fanfaluca del "partito dei moderati" che il Pdl ha finto di accreditare, negli anni, per drenare anche il voto di qualche orfano della Dc, di qualche liberale in pensione e di qualche ex lettore di Montanelli, è miseramente crollata alla prova dei fatti: ben pochi degli elettori del Pdl ha rivotato per un partito che sostiene gli odiati professori moderati e borghesi al governo, quelli che Libero e il Giornale trattano da aguzzini, servi delle banche, pedine del complotto pluto-massonico ai danni del "popolo", che sarebbe poi il nome d´arte che la piccola borghesia berlusconiana si è data… Piuttosto si astengono, o votano Grillo, facendo implodere dall´interno il presunto "moderatismo" di una destra massicciamente populista, aggressiva e antirepubblicana. Quella che ci ha governato fino a ieri, e che da qualche parte – ha ragione Santanché – prima o poi si riprenderà la scena, non appena troverà qualcuno che sia all´altezza della sua potenza e del suo rancore.
LA REPUBBLICA del 25 aprile 2012
Lunedì tivù e giornali rigurgitavano di indignazione e di "mai più" per l´incredibile sequestro di uno stadio intero ad opera di una cosca di ultras del Genoa. Ventiquattr´ore dopo, la montagna emotiva ha partorito un ridicolo topolino: una manciata di "daspo" (divieti di entrare allo stadio) che conferma la totale resa del calcio italiano, e dello Stato, di fronte agli ultras (co-protagonisti, per altro, di tutti o quasi gli episodi di violenza politica degli ultimi anni, dalle aggressioni fasciste e omofobe ai saccheggi e agli incendi della primavera scorsa a Roma). Negli stadi italiani si può delinquere nella certezza dell´impunità, e i pavidi mercanti che gestiscono lo sport nazionale, a cominciare dai presidenti di società, sanno indignarsi giusto nei pochi minuti del dopo-partita, quando in favore di telecamere dichiarano solennemente che è una vergogna e che non si ripeterà mai più. Mentono. La loro unica urgenza è strappare qualche briciola di diritti televisivi in più per tappare i buchi di bilancio causati dagli spalti deserti, evitati come la peste dalla gente perbene che non ama sentirsi ostaggio di bande armate. Non è un paese civile quello che rinuncia a tutelare gli onesti e i mansueti e li lascia in balia di chi vive di illegalità, ricatto, violenza. Gli ultras non sono più un problema di ordine pubblico, sono un problema di democrazia.
LA REPUBBLICA del 24 maggio 2012
Cambiare nome al partito, rifondarlo, fondarne uno nuovo, assemblarne un paio di vecchi… tra i cocci della sedicente seconda Repubblica si sente dire di tutto, ma è specialmente nel pittoresco mondo dei "moderati" che la confusione appare suprema. Tra l´avvento di Montezemolo (del quale si mormora dai tempi di Nuvolari), gli appelli di Casini, le manovre di Scajola (a sua insaputa?), la scomparsa di Fini, la sola scintillante certezza, per la quale facciamo un tifo indiavolato, è la minaccia di Berlusconi di ritornare alla guida del partito. Ammesso che, in quel rottame, riesca a trovare il volante ancora avvitato, lo spettacolo sarebbe imperdibile. Invidiando a Grillo, da uomo di spettacolo, la trionfale platea, il Berlu resuscitato farebbe qualunque cosa pur di recuperare il suo pubblico: assaltare di persona Equitalia, fare della castità il punto di forza della sua leadership, perfino mostrarsi calvo e senza cerone per commuovere le madri. Mai avremmo pensato, pochi mesi dopo la fuoruscita dall´orrendo regimetto del Silvio, di desiderare la sua rentrée, per giunta per futili motivi. Eppure accade: segno che la storia ha ripreso a correre veloce perfino nella vecchia Italia.
LA REPUBBLICA del 9 maggio 2012
Il fenomeno dei giornalisti tifosi è troppo patetico perché io vi ammorbi con la mia opinione sulla controversa "terza stella" della Juventus. Mi limito a un´osservazione strettamente tecnica, temo inoppugnabile. La Juventus ha tutto il diritto di ritenersi vittima di una sentenza sbagliata e cucirsi sulle maglie la terza stella. Ma un secondo dopo, la Federazione italiana gioco calcio dovrebbe dichiararsi sciolta, perché il suo operato e quello della giustizia sportiva sono ritenuti carta straccia, e giudicati nulli, da una delle società più autorevoli e note del calcio italiano. Terze vie non ce ne sono, perfino in un Paese di ipocrisie e di pateracchi. Perché attribuirsi due scudetti revocati per frode sportiva non è solo un gesto di "orgoglio ritrovato", come pensa abbastanza puerilmente il presidente Andrea Agnelli. È, a tutti gli effetti, un gesto che sconquassa dalle fondamenta le istituzioni del calcio, le sconfessa, le rifiuta. È un durissimo chiamarsi fuori dal mondo in cui si opera e dalle sue regole. Nella vita, ovviamente, ci si può anche ribellare. Quello che non si può fare è credere che ci si possa ribellare al modico prezzo di qualche titolo di giornale, e cavarsela temperando le polemiche con un paio di interviste diplomatiche.
LA REPUBBLICA del 23 maggio 2012
I partiti spariranno "in un peto", i loro leader sono zombie, morti, quasi morti, un´accolita di fantasmi incapaci e – peggio ancora – di persone indistinte, non-uomini indegni di incarnare un´idea, destra uguale a sinistra, birilli che il vento della democrazia diretta (il Sacro Web) spazzerà via. Il movimento delle Cinque Stelle merita rispetto, non è antipolitica, è impegno civile di una moltitudine di autoconvocati, in larga parte giovani e disinteressati. Ma il linguaggio del loro leader è un problema grosso come una casa. E´ un linguaggio carico di disprezzo, maneggia la morte (spesso e volentieri) come l´insulto definitivo, non riconosce MAI dignità all´avversario, è ignobile e ripugnante tanto quanto il latrato leghista. Usciamo da vent´anni di semplificazioni rozze, di parole usate come sputi. Possibile che la nuova politica usi un linguaggio così vecchio? Si capisce la gratitudine (meritata) che le persone delle Cinque Stelle hanno per il loro fondatore. Ma, a meno che non siano un triste calco delle legioni bossiane, entusiaste del dito medio e dell´insulto metodico, possibile che nessuno di loro osi chiedere al capo di non urlare, e soprattutto di non urlare quelle cose?
LA REPUBBLICA del 21 aprile 2012
Impressionante la storia del ciclista Riccò, dopato, squalificato, recidivo, cacciato via dalle strade che aveva percorso da protagonista. Impressionanti la cecità e la spavalderia con la quale un ragazzo di vent´anni sciala il proprio talento e corre a perdifiato verso la rovina. Se capissimo che cosa ha in testa uno come Riccò, come e quando ha perduto il senso del limite e con esso quello della realtà, capiremmo qualcosa di molto importante anche di noi stessi e della nostra maniera di vivere. La nostra società è dopata ormai strutturalmente. Lo è a partire dalle sue fondamenta economiche: è dopata di debiti (pubblici e privati). Dopata di farmaci, di cibo, di impegni, di obiettivi da raggiungere, di delusioni da evitare. È dopata di applausi, di fracasso, di ritmo, di velocità, di insonnia, di desideri sempre nuovi, "derivati" come i prodotti finanziari guasti. Quelli che chiamiamo "drogati" sono solo le cavie (spesso volontarie) di un virus che avrà requie solo quando ci avrà contagiati tutti. Il virus (già isolato dagli antichi) della rana che, per diventare bue, si gonfiò fino a scoppiare.