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LA REPUBBLICA del 19 maggio 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  L'Amaca
Nell´orribile declino leghista sconcerta la rassegnata, quasi bonaria comprensione che dirigenti e "base" riservano al vecchio capo, che pure è
l´evidente artefice del clan avido e rozzo che usava le casse del partito per i propri comodi. Si tende a dire che è la fede popolare a impedire certe rese dei conti, ma è vero fino a un certo punto. Ho viva memoria della vergogna, dell´ira, delle assemblee tumultuose e certo non reticenti nelle quali la base comunista, ai tempi di Tangentopoli, accusava i suoi capi di essersi fatti coinvolgere in quel sistema di illegalità. Non era meno appassionata, quella base, e neanche meno devota alle gerarchie di partito. Solo che anteponeva a tutto, e a tutti, un interesse collettivo al quale le persone, compresi i capi, erano sottoposti. Non così, evidentemente, i leghisti, ai quali la struttura dispotica e familista del loro movimento non è mai parsa, fin qui, degna di dibattito (quale dibattito, poi, in un partito che ha fatto il suo ultimo congresso dieci anni fa?). Da chi ha ingoiato senza fiatare quell´assetto ducesco del partito, quella coincidenza (folle) tra Capo e Destino, non ci si può aspettare, oggi, una reazione sana. Molto probabile che la Lega segua Bossi nella sua tomba politica. Se lo saranno meritato entrambi. 

LA REPUBBLICA del 1 giugno 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  L'Amaca
Genova sarà governata da una maggioranza di donne, e da un sindaco, Marco Doria, che ha saputo infrangere lo sconsolante maschilismo del potere italiano. In sé è una bella notizia, ma forse arriva tardi. Più della metà dei genovesi non è andata a votare al secondo turno, uno scollamento impressionante in una città dalla storia politica gloriosa. Non è, ovviamente, colpa di Doria, ma ci si domanda se la malattia della politica non sia oramai così avanzata da rendere vani anche i bei gesti, i giusti rimedi, i cambiamenti. Medicine che, se prese per tempo (cinque anni fa? dieci? o meglio ancora venti, quando dopo Tangentopoli pareva che tutto potesse cambiare per il meglio, e tutto tornò come prima?), forse avrebbero guarito i partiti, la politica e il Paese. In questo momento, a Genova come altrove, "l´altra metà del cielo" non sono le donne, sono i cittadini che non sono andati a votare per sconforto, o per rabbia, o per definitivo menefreghismo. È presto per sapere se un governo delle donne, e un sindaco eletto con le primarie e molto indipendente dai partiti, sono qualcosa di ancora percepibile, e apprezzabile, anche dalla metà di Genova che non ne vuole più sapere. O se neppure le belle notizie, ormai, riescono a fare breccia nel disgusto e nel rifiuto.
 
 

LA REPUBBLICA del 13 maggio 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  L'Amaca
La lista degli italiani che odiano lo Stato è così lunga da richiedere incessanti ritocchi e aggiornamenti. Gli anarchici informali, gli evasori fiscali, i secessionisti, la destra eversiva, i vetero e i neo terroristi, i qualunquisti del bar, gli ultras del calcio, alcuni tra i NoTav (mega scritta su un muro di Bologna: "no Tav no Stato!"), la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta. Questi gruppi umani hanno in comune una cosa soltanto: la totale difformità della loro natura sociale, degli scopi e (quando c´è) della prassi. Non solo è impossibile immaginarli alleati, ma perfino all´interno di ogni loro segmento le rivalità interne li distraggono e li assorbono: esilarante, in questo senso, la parentesi polemica che l´anarchico estensore della rivendicazione dell´agguato di Genova dedica ad altri anarchici rivali, una zuffa tra eversori che interessa perfino meno di certe dispute tra eruditi. Lo Stato, invece, per quanto sbrindellato, per quanto incapace e fellone (per quanto, dunque, effettivamente odiabile) ha l´enorme, riposante pregio di essere uno solo, e come tale unificante per natura, anche solo per comodità. Visitando la splendida mostra sui centocinquant´anni di Stato unitario, all´Officina Grandi Riparazioni di Torino, ho pensato che senza lo Stato noi italiani saremmo solamente dei miserabili, litigiosi narcisi. 

LA REPUBBLICA del 29 marzo 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  L'Amaca
L´atroce rogo di Bologna davanti alla sede di Equitalia non è certo il solo episodio che ci parla della solitudine e della disperazione di molti lavoratori autonomi, artigiani, piccoli imprenditori nella tempesta della crisi. Oscar Giannino ha dedicato (meritoriamente) un´intera puntata della sua trasmissione radiofonica alla catena di suicidi (per debiti) che ha scosso il Nord-Est, dando rilievo e voce all´iniziativa di un sindacalista della Cgil veneta che cerca di costruire, attorno a queste solitudini, una rete di solidarietà. A differenza di Giannino io sono statalista. Forse proprio per questo non riesco ad accettare che lo Stato non sia in grado di distinguere tra i ladri evasori e i galantuomini che non hanno liquidità per pagare le tasse. Sono proprio questi ultimi che avvertono in modo lacerante il peso del loro debito: l´evasore, delle proprie inadempienze, è orgoglioso, il cittadino onesto ne è sopraffatto, ne avverte la vergogna. Non è possibile che non esista, per chi è onesto ma non ha più fiato, per chi lavora ma non ha più margine economico, una zona di tregua, una camera di compensazione che lo aiuti a sopravvivere e a ricostruirsi una solvibilità. Un Fisco ottuso serve solo agli evasori per avere un alibi in più. 

LA REPUBBLICA del 17 marzo 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  L'Amaca
In un giornale radio della sera, ieri, i primi cinque o sei titoli erano tutti su casi di corruzione di politici, o sul loro coinvolgimento, a vario titolo, in affari poco limpidi, favori ricevuti da potenti, commistione opaca tra il loro ruolo pubblico e le loro amicizie private. Ovviamente ogni caso è un caso a sé, si va dal malaffare da milioni di euro al puro equivoco, dallo scandalo vero alla mezza diceria. Ma l´insieme faceva veramente impressione, e parlava, senza possibilità di equivoci, di una catastrofe etica che non può avere alcuna "soluzione giudiziaria", perché potrebbe avere solamente una soluzione culturale: respingere il regalo troppo costoso (e interessato) di un potenziale vincitore di appalti non è, per un sindaco, un obbligo di legge, è un´elementare misura di igiene morale, e di autotutela. Di quell´igiene, evidentemente, si è perduta la cognizione. E non è, questo, solo un problema della classe politica. L´insieme della società italiana, sortita con sollievo da Tangentopoli così come si scampa a una guerra, ha ritenuto che molte di quelle regole fossero "moralismo" (parola tra le più abusate degli ultimi vent´anni). È stata la maniera più diretta ed efficace per non pronunciare più la parola "morale". I risultati si vedono.

LA REPUBBLICA del 13 aprile 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  L'Amaca
La rissa al Colosseo tra centurioni e vigili, con urla in vernacolo e largo impiego di tipi umani da Cinecittà, sembrava una scena ancora inedita di "Roma" di Fellini. Invece era vera, come probabilmente vero è il bisogno che spinge padri di famiglia non più giovani e non più aitanti a travestirsi da antichi romani per rastrellare qualche mancia tra i turisti.
Vedendo omoni travestiti da legionario, con l’elmo di latta basculante, spingersi ed evocare i rispettivi mortacci tra le pietre millenarie e i pini secolari, si intendeva che neppure una faida tra cammellieri al Cairo, o una resa dei conti tra cocaleros in Colombia, avrà mai la stessa strepitosa e direi immortale teatralità. La nostra catastrofe, e in specie quella capitolina, ha questo di bello e questo di brutto: che è irriducibile al fluire dei secoli, un evergreen della commedia umana. Tra mille anni, quando Roma e l’Italia saranno da molte generazioni sotto la dominazione cinese, guardie rosse inutilmente disciplinate tenteranno, senza successo, di liberare il Colosseo dai centurioni discendenti di questi centurioni qui, forse dai loro ologrammi. E li mortacci di ogni epoca – da quelli di Enea a quelli di Alemanno a quelli del futuro governatore cinese Wu – faranno corona al trionfo, ennesimo, di una plebe eterna e indomabile.
 

LA REPUBBLICA del 18 marzo 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  L'Amaca
Percorrendo la via Cassanese, lungo quell´angosciante dedalo di capannoni, rotonde e quartieroni para-urbani che è la Lombardia nordorientale, si rimane sbigottiti passando accanto al parco di Villa Invernizzi. Un imprevisto scorcio di bellezza laddove la bellezza è stata piallata via dalle classi dirigenti lombarde dal dopoguerra in poi, compresa la Lega che è colpevole al quadrato perché "partito territoriale" che del territorio ha fatto scempio (dunque, scempio della propria anima). Il parco di Villa Invernizzi, anche all´automobilista che passa in fretta, lascia intuire, in mezzo a quel susseguirsi di non-luoghi, una decisa disciplina estetica (che nella Lombardia agricola non era affatto privilegio dei ricchi: cascine e case coloniche avevano armonia e dignità). Il contrasto con ciò che sta intorno – decollando da Orio al Serio la fascia prealpina appare uno sterminato ammasso di cemento sparso a casaccio – è totale. Tanto che ci si chiede: ma come è possibile che sia rimasto intatto un pezzo di Italia così perfetto? Infatti, non è possibile. Leggo sui giornali che una fetta di parco sarà abbattuta per fare posto alla nuova autostrada Brebemi. La Lombardia, in fin dei conti, cerca una sua armonia: il bello, in mezzo al brutto istituzionalizzato, è una stonatura. 

LA PREPUBBLICA del 14 aprile 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  L'Amaca
C’è una tipologia di trasmissioni tivù e radio che funziona così: si piazza una telecamera e/o un microfono sotto il naso di un personaggio pubblico (meglio se un politico) nella speranza che dica una puttanata. Poi la si manda in onda come un trofeo. Il giorno dopo tutti i giornali, su quella puttanata, aprono un accanito dibattito, mettendo le ali tanto alla puttanata quanto alla trasmissione che l’ha diffusa. Il caso più recente è quello di Daniela Santanché, che su Radio 24 ha paragonato Nicole Minetti a Nilde Iotti (è come paragonare le sorelle Lecciso a Madame de Staël). Con susseguente, inutile spreco di reazioni indignate, chiarimenti, approfondimenti. Ora: fare da ricettori, anzi da ricettatori di puttanate, specialmente in questo paese, è un gioco da ragazzi. Tra l’onorevole ignorante che non sa in che anno siamo, il nazista che odia gli ebrei, la velina che straparla di economia (e con Scilipoti Borghezio e Santanché comunque utilizzabili come jolly) c’è solo l’imbarazzo della scelta. Il difficile sarebbe usare telecamera e microfono per scovare chi dice cose intelligenti, utili o – addirittura – belle. Ma si farebbe molta fatica (toccherebbe lavorare), e il giorno dopo quasi nessun giornale se ne occuperebbe. 

LA REPUBBLICA del 5 aprile 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  L'Amaca
C’è una sola cosa che mette più tristezza di un calciatore che si vende una partita. Sono i tifosi ultras che scommettono contro la propria squadra, come è accaduto a Bari, e minacciano i giocatori di “andarli a prendere a casa” se non rispettano le consegne. Gente che almeno una volta nella vita avrà vergato su qualche cartello le sguaiate, patetiche professioni di fede delle curve, e poi la fede se la gioca nella prima bisca che gli capita a tiro. È proprio vero che i fanatici sono sempre i primi a tradire. Le passioni gonfiate, le estasi drogate sono le meno verosimili, gas che esplode ma non lascia sostanza, neppure cenere. È come in politica: per un estremista che si immola, cieco di passione, ce ne sono cento che voltano gabbana non appena si stufano di quel giochino, e ne vogliono un altro. È da tempo immemorabile che il calcio italiano vive nel terrore che gli ultras “lo vadano a prendere a casa”. Giocatori minacciati, inseguiti, pestati, irruzioni sui campi di allenamento con la tracotanza di una cosca che comanda e decide, autogrill devastati, coltellate omicide, bombe carta, spalti devastati. Ora la novità di un pezzo di curva che si vende il tifo per un tozzo di scommessa. I calciatori vengono sospesi e radiati. Ma i tifosi? 

LA REPUBBLICA del 16 marzo 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  L'Amaca
L´altra sera guardavo un programma tivù in compagnia di un amico molto più giovane di me, e molto interconnesso. Quasi ogni minuto, dunque quasi in diretta, lui leggeva (e mi leggeva) la gragnola di commenti su Twitter. Più ancora della violenza verbale, e della sommarietà dei giudizi (si sa, lo spazio è quello che è), mi ha colpito la loro assoluta drasticità: il conduttore era per alcuni un genio, per altri un coglione totale, e tra i due "insiemi", quello pro e quello contro, non esisteva un territorio intermedio. Era come se il mezzo (che mai come in questo caso è davvero il messaggio) generasse un linguaggio totalmente binario, o X o Y, o tesi o antitesi. Nessuna sintesi possibile, nessuna sfumatura, zero possibilità che dal cozzo dei "mi piace" e "non mi piace" scaturisse una variante dialettica, qualcosa che sposta il discorso in avanti, schiodandolo dal puerile scontro tra slogan eccitati e frasette monche.
Poiché non è data cultura senza dialettica, né ragione senza fatica di capire, la speranza è che quel medium sia, specie per i ragazzi, solo un passatempo ludico, come era per le generazioni precedenti il telefono senza fili. E che sia altrove, lontano da quel cicaleccio impotente, che si impara a leggere e a scrivere. Dovessi twittare il concetto, direi: Twitter mi fa schifo. Fortuna che non twitto… 
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