LA REPUBBLICA del 3 aprile 2012
Gli italiani seguono le cose della Fiat con speciale partecipazione e un velo di affetto. È inevitabile, in ogni famiglia c´è stata almeno una Fiat, e ben pochi marchi sono simbiotici all´immagine e alla storia di un Paese quanto Fiat e l´Italia. Anche per questo il crollo delle vendite mette di cattivo umore, è come un presagio malevolo, si somma all´asprezza dello scontro sindacale, alle tante voci di fuga in America, e soprattutto all´ormai annosa attesa di "nuovi modelli" che, più di ogni altra cosa, darebbe il segno di una perdurante vitalità industriale, creativa, futuribile. Al di là dei comunicati ufficiali, e di un volto aziendale che su questi argomenti appare inespressivo, reticente o del tutto chiuso, una questione "tecnica" sta diventando, di anno in anno, un tema popolare: si aspetta una Fiat davvero nuova come un piccolo scatto d´epoca, un colpo di reni, e si pensa che
l´assenza di nuove Fiat (che non siano l´ennesimo remake, o un’americana travestita) sia uno dei più evidenti sintomi della crisi del nostro sistema industriale, dell´ingegneria creativa che ha dato, se non tutto, moltissimo allo sviluppo economico italiano. Da quando sono nato ogni età della mia vita ha avuto per corredo una nuova Fiat. Tranne l´età presente e, temo, quella futura. Collego la Fiat al passato, e non è un bel segno.
l´assenza di nuove Fiat (che non siano l´ennesimo remake, o un’americana travestita) sia uno dei più evidenti sintomi della crisi del nostro sistema industriale, dell´ingegneria creativa che ha dato, se non tutto, moltissimo allo sviluppo economico italiano. Da quando sono nato ogni età della mia vita ha avuto per corredo una nuova Fiat. Tranne l´età presente e, temo, quella futura. Collego la Fiat al passato, e non è un bel segno.
LA REPUBBLICA del 30 maggio 2012
È solo un dettaglio. Ma vedere e sentire il redivivo Capezzone sbucare in un tigì per dire che «la vera grande opera è mettere in sicurezza tutto il Paese» desta totale sbalordimento. Neanche rabbia: puro sbalordimento. Ma come? Non era e non è, Capezzone, portavoce del partito di Berlusconi o di quel poco che ne rimane? E quando mai, nei lunghi anni di potere dell´uomo del ponte sullo Stretto, della New Aquila (!?), della cementificazione allegra, la messa in sicurezza di qualcosa è stata una priorità, o anche semplicemente un´urgenza? Non erano forse gli ambientalisti menagramo e nemici dello sviluppo a sostenere che bisognava usare tutti i quattrini a disposizione per aggiustare l´esistente, piuttosto che speculare sull´inesistente? Non erano forse gli intellettuali rompiballe, i geologi squattrinati, i vetero di ogni risma, quelli che remavano contro, a ripetere che è assurdo vaneggiare di grandi opere straordinarie in un Paese che, ordinariamente, si sgretola e cigola in ogni sua giuntura, strutturale e infrastrutturale? E adesso sbuca questo qui, verso l´ora di pranzo, a spiegarci che «la vera grande opera» è aggiustare quello che è rotto? Ma con che faccia? Con che coerenza? Con che curriculum? Con quali parole e quali atti alle spalle, che lo autorizzino a qualcosa di diverso da un doveroso silenzio?
LA REPUBBLICA del 15 aprile 2012
"Facciamo il possibile per combattere il razzismo ma anche i media devono darci una mano", dice il direttore sportivo della Juventus Marotta. Eccoci qua, pronti a dare una mano e addirittura un suggerimento. Quasi ogni stadio italiano ha, in curva, il suo nazi-point. Quello in dotazione alla Juve ha accumulato, quest’anno, il record di multe per cori razzisti, e il cumulo è tale da rasentare la squalifica del campo. Nessuno meglio dei dirigenti della Juve è in grado di sapere chi sono i farabutti che insozzano quel magnifico stadio. Più in generale: nessuno meglio dei dirigenti del calcio italiano conosce nome, cognome e indirizzo dei capi tribù che tengono in ostaggio gli stadi, gli autogrill, le domeniche di noi tutti. Ecco dunque il suggerimento: la società Juventus, che dalla piaga del razzismo è danneggiata moralmente ed economicamente, faccia pressione sulle altre società professionistiche per una denuncia congiunta, forte, energica, ufficiale, molto pubblicizzata, di quei mascalzoni. È pericoloso? Sì, probabilmente lo è. Ma è certamente più pericoloso, in Sicilia o a Napoli o in Calabria, ribellarsi al pizzo. Eppure c’è chi lo fa. Gli ultras sono forse più potenti della mafia? E nello specifico, la Fiat è disposta a farsi tenere in pugno da quattro nazistelli?
LA REPUBBLICA del 17 aprile 2012
In mezzo a tutte queste tristezze, chi l’avrebbe mai detto che le notizie made in Berlusconi, per vent’anni fonte di depressione e scoramento, ci sarebbero venute in soccorso? I resoconti (nelle pagine molto interne dei giornali) del cosiddetto processo Ruby sono uno dei pochi momenti di svago di questo periodo: come quando, nei cinema di una volta, i cinegiornali sulle attricette facevano capolino tra primo e secondo tempo di un polpettone troppo impegnativo. Ieri, per esempio, siamo venuti a sapere che una delle ragazze si esibiva “travestita da Ronaldinho”. Non la Minetti, che per rispetto del suo ruolo politico-istituzionale si vestiva autorevolmente da suora. Un’altra, una delle tante, non si sa se di quelle poi gratificate e promosse, o disgustate e oggi testimoni a carico. Vestita da Ronaldinho, comunque. Chissà se completa di scarpe bullonate e altri accessori, nessuno dei quali, comunque, di intuitiva funzione erotica. Si commenta con gli amici del bar e si ride. Il rischio – diciamolo – è di dubitare dell’orgia, e dovere ammettere, con deplorevole ritardo, che si trattava effettivamente, se non di cene eleganti, di festicciole per stupidoni e stupidone.
LA REPUBBLICA del 7 marzo 2012
I commenti di molti dirigenti del Pd alle primarie di Palermo sono in qualche caso meschini, e in tutti i casi divaganti. Meschini: perché la sconfitta della Borsellino è usata per la propria parrocchia, con i centristi che ricusano l´alleanza con Vendola e la sinistra che accusa i centristi di avere remato contro. Divaganti: perché nonostante le mazzate prese per ogni dove dal "candidato del Pd", nel Pd ancora non si è capito che l´errore madornale (lo spiegava bene ieri, su questo giornale, Giancarlo Bosetti) è proprio proporre un "candidato del Pd". Le primarie, per loro natura, non prevedono investiture preventive. Si fanno apposta per far scegliere ai propri elettori, in una rosa piuttosto varia, chi sarà il candidato, in questo caso alla poltrona di sindaco. Perdere le primarie è dunque impossibile, e lo è strutturalmente: perché "il candidato del Pd", molto banalmente, è quello che vince tra i vari concorrenti. Come accade negli Usa per le primarie democratiche e repubblicane. Se capisse questa ovvietà (che lo espone a "scalate" di outsiders, ma lo qualifica come un partito aperto e vivo) il Pd vincerebbe tutte le primarie di qui al Tremila. E si libererebbe delle residue incrostazioni da Politburo che lo rendono poco lucido e a tratti – non saprei dirlo diversamente – incredibilmente tonto.
LA REPUBBLICA del 5 febbraio 2012
Muoversi, spostarsi continuamente, viaggiare è una facoltà. Un vantaggio dei tempi. Ma non è un diritto. Non c´è tecnologia, organizzazione sociale, governo illuminato che possano garantire a tutti, sempre, comunque la possibilità di attraversare una città o una regione o un paese. I mari in tempesta, la neve e il ghiaccio, le avversità naturali e climatiche limitano la nostra libertà di movimento. Nelle lamentele e nelle polemiche di questi giorni c´è una parte di ragione: se una città si paralizza perché nessuno ha pensato a spargere il sale nelle strade, siamo di fronte a un´omissione evitabile. Ma c´è un sovrappiù di ira e di stizza che discendono dall´illusione che tutto sia diventato facile, disponibile, agevole, così che al primo ostacolo cominciamo a inveire contro il governo ladro o il sindaco scemo o la Protezione civile inetta. Ma un viaggio, se si è in carne e ossa e ci si muove in un paese dai contorni reali, non è una applicazione del palmare. Non si risolve in un "on" e "off". Non è garantito per contratto. Capita di doversi fermare, anche contro la propria volontà. Capita di non essere onnipotenti e onnipresenti.
LA REPUBBLICA del 8 marzo 2012
Che palle (scusate la franchezza) l´interminabile e purtroppo interminato rosario di film e fiction tivù italiani sul crimine, i criminali, le bande criminali, le storie criminali, le vite criminali… con quei promo tutti uguali, primi piani di bei ceffi tenebrosi o sarcastici che minacciano o irridono, e il sibilo delle pallottole, i tonfi dei corpi, le macchine che inchiodano, le portiere che sbattono, le banconote che frusciano, le righe di cocaina e la recitazione sempre sopra le righe. Li si confonde tutti, ormai, perché la moda è moda, ripetizione pigra e modulare di idee un tempo inedite e oggi dozzinali, così che dopo Gomorra sono arrivati i similGomorra e i viceGomorra, e dopo la banda della Magliana qualunque assembramento di giovani farabutti di cui resti traccia negli archivi dei giornali, anche di provincia, diventa "un´epopea del crimine". A furia di promuovere tutti quei banali giovani maschi feroci, e vecchi maschi avidi, a "supereroe del crimine", c´è chi teme il cattivo esempio. Non so se davvero l´emulazione sia un problema. Ma francamente, nel dubbio, il primo che fa un film dove il criminale è solo un poco invidiabile stronzo, lo propongo per l´Oscar.
LA REPUBBLICA del 8 febbraio 2012
"In un Paese normale dopo un fatto del genere ci si ritirerebbe a vita privata", dice Ignazio Marino a proposito del senatore Luigi Lusi. Il concetto parrebbe ovvio, ma ovvio non è. Accusato di avere fatto sparire la bellezza di 13 milioni dalle casse del suo partito (Margherita, poi Pd), Lusi non solo non si è ritirato a vita privata, ma occupa la vita pubblica con il piglio del protagonista, passandosela da capro espiatorio, da vittima predestinata, da "mostro che fa comodo a molti", in un crescendo sibillino e confuso di dichiarazioni e confidenze che tutto spiegano, tranne perché diavolo si sia appropriato di quattrini non suoi. Si capisce che Lusi, colpito da accuse tanto gravi, possa avere perduto lucidità, e cerchi di difendersi con tutte le sue forze. Ma si capisce, anche, quanto sia mutato, negli ultimi anni, il clima psicologico e culturale che circonda questo genere di reati. Un tempo erano una macchia infamante sull´onore del politico: bastava un avviso di garanzia per sentirsi fuori dai giochi. Oggi è come se questi maneggi disinvolti di denaro pubblico fossero parte integrante della lotta politica e dunque materia di dibattito, di distinguo, di contrattacchi polemici, in un guazzabuglio etico e perfino normativo che descrive spietatamente la progressiva perdita di senso del lecito e dell´illecito.
LA REPUBBLICA del 9 marzo 2012
Naturalmente il ministro Riccardi, per responsabilità di ruolo, deve rimangiarsi la frase su quanto è schifosa la politica quando è giochino di bottega, ricatto, sotterfugio ipocrita per non svelare i propri veri scopi. Ma quel giudizio, per quanto ruvido, esprime un sentimento diffuso, e ahimè ampiamente giustificato da quello che la politica dei partiti è stata, in larga misura, negli ultimi anni. Che un giudizio del genere non provenga da un qualunquista da bar, o da un grillino di passaggio, ma dal ministro di un governo che di politica (giusta o sbagliata che sia) ne fa a tonnellate, nonché da una persona impegnata nel sociale come dieci leader di partito messi assieme, è cosa che non può non mandare in bestia i mandarini del Pdl, che vedono il proprio potere usurpato dal "governo tecnico" e il proprio patrimonio di voti scemare di giorno in giorno. La novità che rende affascinante, incerto, decisamente inedito il panorama politico italiano è proprio questa: fuori dai partiti non c´è solo l´antipolitica, come è stato molto comodo dire negli ultimi anni. Fuori dai partiti c´è anche molta politica, e in questo momento, addirittura, c´è il governo. I partiti cominciano a capirlo, e per questo diventano ogni giorno più nervosi. Nel caso del Pdl, più aggressivi.
LA REPUBBLICA del 16 febbraio 2012
I (pochi) oppositori del "no" olimpico di Monti sostengono che il rilancio di un paese in crisi passa anche dalla fiducia nelle proprie forze e nel futuro, e rinunciare ai Giochi significa quasi ufficializzare il clima da Grande Depressione, perpetuandolo. Sarà: ma deprime di più pensare a un paese che, per anni, ha lasciato dissestare il proprio territorio e andare in malora le proprie infrastrutture, accettando treni vergognosi (a parte la Tav), servizi scadenti, scuole languenti, in cambio dell´illusione di Grandi Opere megalomani e spesso solo sulla carta, fumo negli occhi come il Ponte sullo Stretto, vetrine pacchiane che celano un retrobottega vuoto. Tra le famose "scelte della politica", specie in tempi di penuria, una normalità decente vale molto di più di una straordinarietà luccicante ma illusoria. Il famoso paese normale che tutti invochiamo – per ora inutilmente – è anche un paese che non considera mediocre o perdente una dignitosa quotidianità, e diffida dell´ottimismo cialtrone come delle sabbie mobili. Le Olimpiadi non dispiacciono a nessuno, ma il vero sogno italiano, di qui al 2020, sarebbe ristabilire un minimo di gerarchia tra l´indispensabile e il superfluo. Il secondo, senza il primo, è puro inganno.