LA REPUBBLICA del 3 marzo 2012
Il Quotidiano di Calabria chiede di dedicare il prossimo otto marzo a Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola, Giuseppina Pesce. Sono tre donne nate in famiglie di ‘ndrangheta che si sono ribellate al loro destino. Il patriarcato assassino che regge le sorti di quello sventurato pezzo di Italia ha ucciso la prima (Lea) e ha costretto al suicidio la seconda (Maria Concetta). Giuseppina è riuscita a fuggire ed è testimone di giustizia, a nome suo e di tutte le persone libere. Al Quotidiano arrivano migliaia di adesioni. Aggiungo anche la mia. Chi ritiene l´otto marzo una ricorrenza inutile, fuori tempo massimo, rifletta sulla condizione di assoggettamento e umiliazione che ha spinto Lea, Maria Concetta, Giuseppina al martirio e alla fuga. "Famiglia", nel meridione d´Italia, è spesso parola di spietata ambiguità. Rimanda alle mafie, ai vincoli ferrei e spesso mostruosi che fanno di ogni individuo non una persona, ma il membro di un branco; e fanno delle donne le custodi mute e sottomesse di quella catena di sangue, avidità e oppressione. Se a disobbedire è una donna, l´intera catena rischia di spezzarsi. Alle donne, nella maggior parte di questo pianeta, si adatta perfettamente ciò che Marx disse dei proletari: non hanno da perdere che le loro catene.
LA REPUBBLICA del 1 febbraio 2012
Travolgente successo, in tutti i telegiornali, dell’ondata di freddo che riporta, in pieno inverno, l’inverno. Il gelo è telegenico. Non hanno mai fatto notizia, al contrario, il tepore malato e il clima siccitoso che negli ultimi mesi hanno disseccato il Nord, prosciugando i bacini e le falde. Ogni geologo, ogni agronomo sa benissimo che le conseguenze di una siccità da primato saranno ben più profonde e gravi rispetto a pochi giorni di sottozero. E non c’è contadino, al Nord, che non abbia salutato con sollievo l’arrivo, molto tardivo, della neve e delle perturbazioni.
Paolo Rumiz, pochi giorni fa su questo giornale, è stato tra i pochissimi a raccontare le conseguenze nefaste di questo inverno caldo e secco. Sapeva farlo magistralmente, quando era ancora tra di noi, Mario Rigoni Stern. Il clima e la natura sono diventati argomenti da scrittori. Non più da giornalisti, non più da media. Come se clima e natura fossero stati esclusi dalla nostra vita materiale, e fossero diventati o un vezzo letterario, o una suggestione spirituale. Non sappiamo più capire come è fatta la terra sopra la quale camminiamo e il cielo sotto il quale respiriamo.
LA REPUBBLICA del 6 marzo 2012
Fa male sentire che qualche tigì chiama ancora "delitto passionale" mattanze come quelle di Brescia, dove un maschio reso feroce dalla sua demenza, o reso demente dalla sua ferocia, uccide una donna che considera "sua" e non lo vuole più. E come contorno della sua orribile esecuzione ammazza altre tre persone (due delle quali ventenni) che avevano per sola colpa essere prossimi alla vittima: amico, figlia, fidanzato della figlia. Perché gratificare di "passione" questo nazismo maschile che ogni anno produce, solo qui in Italia, un vero e proprio olocausto di femmine soppresse solo perché non vogliono più appartenere (come bestie, come cose) a un padrone, e per giunta un padrone violento? "O mia o di nessuno", dice il boia di turno, ed è la perfetta sintesi di una cultura arcaica e mostruosa che – esattamente come il movente razziale – dovrebbe costituire un´aggravante, in un paese civile. Mentre l´aggettivo "passionale" rimanda, purtroppo, a una sorta di attenuante, quasi di "spiegazione": e fino a una generazione fa, qui in Italia, era di fatto un´attenuante giuridica. Levato dai codici quell´infame eufemismo che erano le "ragioni di onore", rendiamo onesto, veridico anche il linguaggio giornalistico. Passione e amore non c´entrano, c´entrano il potere, il terrore di perderlo, l´odio della libertà.
LA REPUBBLICA del 2 febbraio 2012
I dati sulla cementificazione del suolo in Italia diffusi dal Fai e dal WWF sono implacabili. Dicono, con il nudo linguaggio delle cifre, della strutturale perdita di senso, e forse di senno, di un sistema produttivo anarchico, ingordo e suicida, che ha smarrito ogni rapporto con la realtà materiale del territorio, delle acque, dell’aria. Nessun discorso politico o ideologico ha la stessa concreta evidenza di questo consumo esponenziale e canceroso della terra, che in Italia, non per caso, è più forte nelle regioni malavitose. Eppure, ancora oggi, nonostante le alluvioni, nonostante la devastazione fisica e sociale di intere zone del paese, il discorso ambientale è sospettato, tacitamente o a piena voce, di essere il lussuoso cruccio di una élite petulante, roba da vecchie contesse in pena per le loro aiuole, o vezzo per esteti che preferiscono gli uccellini alle rotatorie. Chissà quando capiremo che questa materia è più cruda, più strutturale, più decisiva per il futuro di qualunque appassionato dibattito sull’euro o sul deficit pubblico. È un discorso sul corpo stesso del mondo. Se a farlo non è più la politica, ma sono le vecchie contesse, è un problema per la politica, non certo per le vecchie contesse.
LA REPUBBLICA del 17 febbraio 2012
Nella baraonda sanremese ogni parola affoga, quella televisiva e quella della post-produzione giornalistica, che della tivù è pateticamente gregaria. Salverei, potendo, alcune delle (troppe) parole pronunciate da un uomo anziano (e non rifatto), che ha denunciato l´assurda brevità della vita, indicando come unica consolazione il Paradiso e la compagnia degli angeli. Saranno cinquant´anni, con l´eccezione di un paio di letture dantesche, che nessuno parlava di vita eterna in prima serata. Di tutto si è sempre cianciato, soprattutto di poderose stronzate, avendo competenze anche inferiori di quelle di Adriano Celentano: ma senza sollevare altrettanto scandalo. Curioso che la Chiesa – suoi uomini o sue propaggini – non abbia colto la novità. Vero è che ogni clero teme, più di Satana, chi predica senza avere la patente, violando il contratto di concessione esclusiva che le gerarchie religiose vantano con l´Eterno. E a proposito (e ovviamente senza nesso alcuno con Celentano): oggi, 17 febbraio, è l´anniversario del rogo di Giordano Bruno. Un amico di penna mi chiede di celebrarlo con le parole di Shakespeare: "Eretico è chi appicca il fuoco, non chi vi brucia dentro" (Winter´s Tale, atto II, scena III).
LA REPUBBLICA del 10 marzo 2012
Fossi leghista quello che davvero mi brucerebbe, leggendo i giornali, è vedere che l´affaire Boni viene raccontato come una specie di sub-concessione all´ombra del sistema di potere formigoniano. Neanche il "lusso", l´estro, la fantasia di uno scandalo autonomo, inedito, di nuovo conio, che si confaccia a un partito nato contro tutti gli altri partiti, nel nome di una "diversità" talmente radicale da spacciarsi addirittura per anti-italiana. Macché: uno scandalo di imitazione, lo scandalo gregario di un partito gregario, con un odore muffito di vecchio potere, di partitocrazia, di lottizzazione degli appalti, dei favori, delle entrature. La Lega, di questo passo, rischia di non avere neanche il privilegio di collassare da sé sola, per ragioni in qualche modo "storiche" come la fine di ogni sogno di secessione. Collasserà all´ombra dei palazzi altrui, della rovina altrui, e così come il mondo intero, quando è finito il governo di Roma, parlò della caduta di Berlusconi, non certo di quella di Bossi, l´Italia intera, quando finirà il vecchio potere alla Regione Lombardia, parlerà della caduta di Formigoni, non certo di quella di Davide Boni.
LA REPUBBLICA del 18 febbraio 2012
Il ventennale di Mani Pulite è stato celebrato meno istericamente del previsto (il clima sobrio e leggermente soporifero di questa parentesi "tecnica" serve, almeno, a mitigare i bollori politici). Ma è stato celebrato, quasi da tutti, come una sconfitta. Specie alla luce dei recenti e desolati calcoli sulla corruzione, che gode di eccellente salute. Ci si illuse, allora, che un manipolo di giudici valorosi avrebbe rimesso in riga un Paese che era, quanto a illegalità, perfettamente speculare alla sua classe dirigente. Le fiaccolate e il mito della "società civile" fecero corona a quell´appassionante colpo di reni della legge, e tutti facemmo finta che due evidenti minoranze (quei giudici, preceduti da decenni di insabbiamenti e omissioni; e la "società civile") incarnassero un´irresistibile volontà popolare. Così non è stato, e l´innamoramento di mezza Italia per Berlusconi segnò anche il bisogno irresistibile di abbandonare la plumbea severità della legge per tornare alla pacchia generalizzata e all´autoassoluzione di un Paese che di sentirsi in colpa non aveva alcuna voglia. Questi vent´anni sono dunque serviti almeno a capire che se non cambiano gli italiani, grazie a un profondo travaglio culturale e politico, nessuna legge sarà in grado, da sé sola, di cambiare alcunché.
LA REPUBBLICA del 26 gennaio 2012
Nel nostro paese il novanta per cento delle merci viaggia in camion. Al di là di ogni questione ecologica (l´impatto ambientale è disastroso), colpisce la quasi totale dipendenza dei nostri consumi dagli autotrasporti. E il conseguente, smisurato potere (anche di ricatto) che la categoria può vantare nei confronti della società intera. Se i consumi a chilometri zero e la filiera corta vi sembrano solo ridicole utopie, o snobberie da nostalgici, ecco un´ottima occasione per rifletterci sopra, come si dice, laicamente. Il mercato, da sé, non è in grado di distinguere (ne è interessato a farlo) tra consumi virtuosi e consumi viziosi. Ma noi, magari, potremmo almeno provarci. Le arance siciliane a Milano sono una logica conquista (a Milano non crescono arance), ma bere a Roma acqua minerale delle Alpi, o mangiare in Piemonte peperoni olandesi, è una fesseria indotta da interessi del tutto estranei a quelli di chi li compera e li mangia. Comperare un cibo o una merce significa anche pagargli il biglietto del viaggio, ma quasi nessuno ci pensa. Il linguaggio dei consumi è complicato, o cominciamo a impadronircene, e a governarlo, o restiamo analfabeti, e come tali manipolabili, e sottomessi, e in balia di meccanismi destinati a sovrastarci in eterno.
LA REPUBBLICA del 11 gennaio 2012
Le dimissioni di Malinconico erano un atto dovuto, e urgevano per preservare il buon nome di un governo che vanta discontinuità e dunque deve dimostrarla ogni giorno. Ma non basteranno a spegnere l´incendio anti-casta, che divampa senza più distinguere gli alberi tarlati da bruciare, e quelli sani da rispettare. Non solo le vacanze pagate dalle varie cricche, anche quelle pagate di tasca propria ormai valgono come capo d´imputazione per chi fa politica. L´altra sera alla radio una signora invelenita rinfacciava a Rutelli il Natale alle Maldive (frequentate da centinaia di migliaia di italiani) accusandolo "di non avere mai lavorato". Non sono un fan di Rutelli, ma in quell´accusa stridula e assurda risuonavano i peggiori umori (da forca) di una fetta ahimè larga di opinione pubblica, che ha il sangue agli occhi e ha stabilito che è "la politica", in sé, il capro espiatorio di tutte le nostre tare. E il clima è tale che il conduttore, di solito perspicace, non ha avuto l´ovvia accortezza di replicare alla signora che la politica, quando è fatta con coscienza, è un lavoro eccome. E non dei più facili. Latrare contro "i politici", presi in un solo mazzo come lestofanti e scrocconi, è un´idiozia come tutte le fole che fanno le veci della realtà. E, quel che è peggio, prepara il campo al primo dittatore o demagogo in grado di fare propri quegli umori da servi maldicenti.
LA REPUBBLICA del 3 gennaio 2012
Perché i "conflitti sociali" evocati da Susanna Camusso siano una concreta possibilità, non è cosa che richieda di essere spiegata. Solo uno sciocco può non capire che laddove le disuguaglianze aumentano, aumenta la tensione sociale. Quello che impressiona, piuttosto, è la grande difficoltà di immaginare – da parte di tutti – quali forme questi "conflitti sociali" possano assumere, quale volto possano avere. Al di là dei fuochi fatui dell´estremismo di piazza (che è la più vecchia e dunque la più inutile delle forme di antagonismo), è da molti anni che la voce degli ultimi non trova la maniera di farsi ascoltare. I sindacati faticano a drenare gli umori e le esigenze dei non rappresentati, dei precari e dei ragazzi senza lavoro. La fabbrica, da tempo, non è più il teatro che possa mettere in scena in modo rappresentativo e solenne l´incontro-scontro tra capitale e lavoro. La sinistra, che è il vettore storico (bisecolare) della protesta sociale, è semiparalizzata dal carico di responsabilità (anche istituzionali) che la crisi finanziaria le scarica sulle spalle. Siamo, in un certo senso, all´anno zero del conflitto sociale "new age". Largo spazio a chi inventerà qualcosa di nuovo: forme organizzative, parole, azione politica.