LA REPUBBLICA dle 19 febbraio 2012
Nel clima certo non favorevole ai partiti, stupisce che si sia parlato così poco, e in modo piuttosto frammentario, di uno scandalo che a me pare gigantesco, e davvero gravissimo in termini di credibilità della politica. Mi riferisco al finto tesseramento al Pdl, con migliaia, forse decine di migliaia di iscritti "a loro insaputa" (tra i quali, per garantire anche il lato comico, anche morti e comunisti…), compreso, per fare prima e non faticare troppo a stilare liste, l´elenco completo di un´associazione di cacciatori del Veneto. Pare che la causa scatenante di questo mercato fraudolento sia il controllo, regione per regione, del partito, che almeno sulla carta dovrebbe funzionare, di qui in poi, attraverso regolari congressi, proprio come se fosse un partito vero, e non più per acclamazione del suo fondatore, finanziatore e proprietario. La cosa triste, e politicamente micidiale, è che sarebbe dunque proprio l´abbandono del sistema ducesco-acclamatorio, e il transito alla democrazia, ad avere scatenato questa schifosa frode. Tanto per assestare un colpo in più – come se ce ne fosse bisogno – al sistema dei partiti. E dare qualche argomento in più a chi, della democrazia, proprio non sentiva l´esigenza, e gli bastava l´ovazione al Capo per sentirsi un militante modello.
LA REPUBBLICA del 7 febbraio 2012
Zapping casuale (e fulminante) domenica sera. Su Raitre, Gherardo Colombo sostiene che il vero problema del nostro Paese non è giudiziario, è culturale: la maggioranza degli italiani non capisce a che cosa servono le regole, e fino a che non lo capirà anche il più equo dei sistemi giudiziari potrà fare ben poco. Su Raidue, in quel preciso momento, Fabio Capello, uno dei più stimati allenatori italiani, a domanda risponde che Luciano Moggi è stato un eccellente dirigente sportivo (il giovane Andrea Agnelli, pochi giorni prima, aveva detto: il migliore di tutti). Neanche mezza parola sul processo per frode sportiva, sulle schede telefoniche estere regalate agli arbitri, sull´intera, complicata ma ineludibile vicenda che chiamiamo Calciopoli. Capello ha risposto, indirettamente, a Gherardo Colombo. Confermandone la tesi. Moggi è stato "il migliore di tutti" perché ha vinto moltissimo, non importa con quali mezzi, né trasmettendo quali valori al suo gruppo di lavoro. Le ombre etiche e le macchie giudiziarie sono considerate irrilevanti perché irrilevante, in fin dei conti, è il rispetto delle regole. Per molti italiani, anche di livello (Capello lo è), le regole sono considerate, in fondo, l´ultima risorsa dei deboli e degli invidiosi.
LA REPUBBLICA del 15 marzo 2012
Sì, la ministra Fornero poteva evitare di dare in pasto ai cronisti la parola "paccata" (e più in generale: i professoroni al governo dovrebbero mantenere un aplomb più professorale). Ma che dire di una comunità mediatica che su quella parola costruisce la descrizione di una trattativa, quella sul lavoro, che dura da settimane, e attorno a frasette del genere disfa e ricuce la trama di un rapporto (quello tra governo, sindacati e Confindustria) che è complicato da capire perfino per i protagonisti? Che dire di un giornalismo per il quale ogni dissidio diventa "rissa", ogni inciampo diventa "rottura", e per speziare il suo minestrone quotidiano abusa di "proposte shock", "dichiarazioni shock", "notizie shock", come se l´opinione pubblica fosse sordastra e solo l´urlaccio nelle orecchie potesse attirare la sua attenzione? A che servono, poi, le pazienti ricostruzioni, le schede tecniche, le inchieste che sviscerano e spiegano, se la confezione è quasi sempre un titolaccio "shock", se i titoli dei telegiornali (che danno il là all´intero coro mediatico, anche quello di carta) si fabbricano con i cocci di frase raccattati nei corridoi? Sono i media grossolani a costruire un pubblico superficiale. L´alibi, poi, è accusare il pubblico di essere superficiale.
LA REPUBBLICA del 3 marzo 2012
Il Quotidiano di Calabria chiede di dedicare il prossimo otto marzo a Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola, Giuseppina Pesce. Sono tre donne nate in famiglie di ‘ndrangheta che si sono ribellate al loro destino. Il patriarcato assassino che regge le sorti di quello sventurato pezzo di Italia ha ucciso la prima (Lea) e ha costretto al suicidio la seconda (Maria Concetta). Giuseppina è riuscita a fuggire ed è testimone di giustizia, a nome suo e di tutte le persone libere. Al Quotidiano arrivano migliaia di adesioni. Aggiungo anche la mia. Chi ritiene l´otto marzo una ricorrenza inutile, fuori tempo massimo, rifletta sulla condizione di assoggettamento e umiliazione che ha spinto Lea, Maria Concetta, Giuseppina al martirio e alla fuga. "Famiglia", nel meridione d´Italia, è spesso parola di spietata ambiguità. Rimanda alle mafie, ai vincoli ferrei e spesso mostruosi che fanno di ogni individuo non una persona, ma il membro di un branco; e fanno delle donne le custodi mute e sottomesse di quella catena di sangue, avidità e oppressione. Se a disobbedire è una donna, l´intera catena rischia di spezzarsi. Alle donne, nella maggior parte di questo pianeta, si adatta perfettamente ciò che Marx disse dei proletari: non hanno da perdere che le loro catene.
LA REPUBBLICA del 14 febbraio 2012
Èmolto in voga, tra i governanti deposti, lodare il governo Monti come ideale prosecutore della loro opera illuminata.
Da Alfano al socialista (ah! ah! ah!) Cicchitto e addirittura alla Santanché, che avendo sentito dire che Monti è "di destra" se ne sente in qualche modo imparentata. Il trucco è patetico, ma fa parte di quegli auto-inganni che aiutano a tirare avanti quando i conti con se stessi sarebbero troppo dolorosi. Basterebbe una lettura anche distratta della stampa del pianeta Terra per prendere atto che il cambio Berlusconi-Monti è vissuto, nel mondo intero, come un miracoloso ribaltamento: come se la Costa Concordia si raddrizzasse da sé sola, tirasse un muggito con la sirena e riprendesse la navigazione. Niente – non lo stile, non gli obiettivi, non la velocità di esecuzione, perfino non l’aplomb dei maschie delle femmine- rassomiglia, nel governo Monti, al precedente. Destra, per altro, significa poco, forse anche meno di sinistra. Di destra furono Mussolini e Einaudi, Almirante e Scalfaro. Di destra è la Minetti e probabilmente il ministro degli Interni Cancellieri. Non solo non c’è nesso, ma c’è una cesura clamorosa, mai vista nella storia repubblicana, tra la destra di Arcore e quella che ne ha pietosamente rimosso la salma.
LA REPUBBLICA del 1 febbraio 2012
Travolgente successo, in tutti i telegiornali, dell’ondata di freddo che riporta, in pieno inverno, l’inverno. Il gelo è telegenico. Non hanno mai fatto notizia, al contrario, il tepore malato e il clima siccitoso che negli ultimi mesi hanno disseccato il Nord, prosciugando i bacini e le falde. Ogni geologo, ogni agronomo sa benissimo che le conseguenze di una siccità da primato saranno ben più profonde e gravi rispetto a pochi giorni di sottozero. E non c’è contadino, al Nord, che non abbia salutato con sollievo l’arrivo, molto tardivo, della neve e delle perturbazioni.
Paolo Rumiz, pochi giorni fa su questo giornale, è stato tra i pochissimi a raccontare le conseguenze nefaste di questo inverno caldo e secco. Sapeva farlo magistralmente, quando era ancora tra di noi, Mario Rigoni Stern. Il clima e la natura sono diventati argomenti da scrittori. Non più da giornalisti, non più da media. Come se clima e natura fossero stati esclusi dalla nostra vita materiale, e fossero diventati o un vezzo letterario, o una suggestione spirituale. Non sappiamo più capire come è fatta la terra sopra la quale camminiamo e il cielo sotto il quale respiriamo.
LA REPUBBLICA del 6 marzo 2012
Fa male sentire che qualche tigì chiama ancora "delitto passionale" mattanze come quelle di Brescia, dove un maschio reso feroce dalla sua demenza, o reso demente dalla sua ferocia, uccide una donna che considera "sua" e non lo vuole più. E come contorno della sua orribile esecuzione ammazza altre tre persone (due delle quali ventenni) che avevano per sola colpa essere prossimi alla vittima: amico, figlia, fidanzato della figlia. Perché gratificare di "passione" questo nazismo maschile che ogni anno produce, solo qui in Italia, un vero e proprio olocausto di femmine soppresse solo perché non vogliono più appartenere (come bestie, come cose) a un padrone, e per giunta un padrone violento? "O mia o di nessuno", dice il boia di turno, ed è la perfetta sintesi di una cultura arcaica e mostruosa che – esattamente come il movente razziale – dovrebbe costituire un´aggravante, in un paese civile. Mentre l´aggettivo "passionale" rimanda, purtroppo, a una sorta di attenuante, quasi di "spiegazione": e fino a una generazione fa, qui in Italia, era di fatto un´attenuante giuridica. Levato dai codici quell´infame eufemismo che erano le "ragioni di onore", rendiamo onesto, veridico anche il linguaggio giornalistico. Passione e amore non c´entrano, c´entrano il potere, il terrore di perderlo, l´odio della libertà.
LA REPUBBLICA del 19 gennaio 2012
Sono molti gli spettacoli che urtano nel profondo la mia sensibilità, e contravvengono regole e princìpi che mi sono cari. Ma non mi sognerei mai di chiederne la soppressione, o di contestarne il diritto alla messa in scena. E´ questo – tra l´altro – che distingue nel profondo quelli come me dalle centurie di ultras cattolici, furibondi perché il Teatro Franco Parenti, a Milano, sta per mettere in scena un dramma che ritengono blasfemo, "Sul concetto di volto nel figlio di Dio", di Romeo Castellucci. Siamo abituati a chiamare tolleranza ciò che è, più semplicemente, fiducia nelle proprie convinzioni. Che possano essere messe a repentaglio da uno spettacolo, o da un´opinione altrui, è cosa che può pensare solo chi abbia un impianto culturale scarso, e una psicologia fragile. Ed è perlomeno curioso che i cosiddetti "relativisti etici" siano dotati, in questo senso, di un impianto ideologico evidentemente assai più solido di quello degli integralisti dogmatici, in apparenza muniti di un castello ideologico fortificato e inespugnabile. Le grida isteriche dei fanatici religiosi, la loro miserabile violenza verbale, sono la dimostrazione lampante della debolezza estrema del loro credo. Per primi sanno, e non osano dirselo, di avere una fede carente tanto in se medesimi quanto nel loro Dio.
LA REPUBBLICA del 31 dicembre 2011
Per diventare dittatori bisogna essere, prima di tutto, dei mentitori patentati. Umberto Bossi è, in questo senso, un talento sprecato, perché pur essendo un incallito mentitore non ha la possibilità oggettiva di diventare dittatore, se non acquistando un atollo sperduto e ribattezzandolo Padania per trasferircisi, come un reverendo americano matto, con i suoi fedeli. L´ultima balla – pronunciata ieri di fronte alla solita claque di partito – è un perfetto esempio di ribaltamento della verità. Bossi accusa Napolitano di avere "riempito il Nord Italia di tricolori, che alla gente del Nord non piacciono". È vero esattamente il contrario: è la gente del Nord che ha riempito le proprie città e le proprie case di tricolori, che a Bossi non piacciono. E lo ha fatto, per giunta, proprio perché a Bossi non piacciono, per spiegargli in modo definitivo, e politicamente ultimativo, che la Lega, al Nord, è solo una minoranza invadente e rumorosa. Non fosse stato per Bossi e per la Lega, il Centocinquantenario non sarebbe mai stato il trionfo popolare che è stato. L´anno che si conclude oggi lo annovera, in questo senso, tra i grandi artefici involontari della storia italiana.
LA REPUBBLICA del 25 gennaio 2012
Anteporre una buona scuola professionale a una mediocre e tardiva laurea, come ha fatto il viceministro Martone, significa affrontare un tabù. Nella tradizione classista del nostro Paese, le scuole professionali e i lavori manuali sono considerati da sempre lo sbocco naturale dei figli dei poveri; la laurea, il dovuto approdo dei figli dei ricchi. E dunque, quel politico che faccia l’elogio delle scuole professionali rischia di passare per un reazionario che non vuole aprire a tutti le porte dell’università. Ma io credo che Martone alludesse a un’altra verità, tutt’altro che reazionaria: tra un "dottore" dequalificato e mal pagato e un artigiano che sa il fatto suo, chi se la passa meglio? La destrezza manuale è, tra l’altro, cultura essa stessa, specie in un Paese di artigiani e tecnici sopraffini quale siamo da qualche secolo. Il disprezzo per il lavoro manuale in quanto tale, e per scuole professionali a volte ben più brillanti e funzionali di certi deprimenti atenei, è uno dei veri grandi problemi dei nostri figli. Convinti, anche per colpa nostra, che un dottorato a prescindere valga un’autorevolezza sociale che solo il lavoro (anche manuale) è invece in grado di dare. Una società di piccolo-borghesi frustrati non è affatto migliore di una società di artigiani e operai realizzati.