LA REPUBBLICA del 15 ottobre 2011
In una trasmissione radio che va per la maggiore, e ama esibire i casi umani della politica italiana (il deputato razzista, quello analfabeta, quello nazista, quello mafioso) come "numeri" divertenti, l´altra sera ho sentito una lunga, incredibile intervista all´onorevole Razzi, ex dipietrista oggi reclutato da Berlusconi. Per quanto avvezzi al progressivo sfacelo del Paese, non si poteva fare a meno di rimanere sgomenti di fronte alle sgrammaticature, gli errori di sintassi, l´italiano disperato di questo signore. Non indovina un ausiliare, ha detto «non avrei andato» e il concetto più articolato espresso è stato questo: «devolgo i soldi a costruire una chiesa distrutta». Si possono immaginare gli sghignazzi di chi l´ha nominato (per puro, incontrovertibile dolo) membro della commissione Cultura della Camera: uno sfregio che deve piacere molto anche a Vittorio Sgarbi, presente in trasmissione, che ha molto lodato il Razzi ricorrendo a quel gongolante cinismo che la destra italiana confonde con l´aplomb degli uomini di mondo. Parevano molto divertiti anche i due conduttori della trasmissione. A me è venuto un buco nello stomaco per la tristezza. Dato l´ottimo umore di tutti (di Sgarbi, di Razzi, dei conduttori) ho capito che quello fuori posto ero io.
LA REPUBBLICA del 12 ottobre 2011
Credo sia da escludere che Silvio Berlusconi rimanga avvinghiato al suo traballante potere per pura tigna, come un politicante qualunque. Una persona che concepisce se stesso come il migliore, l’indispensabile, l’invidiabile, non accetterebbe mai di sentirsi appena appena sopportato, come una vecchia star sul viale del tramonto. Lo pensasse anche solo per un secondo, se ne andrebbe in una delle sue magioni tropicali a fare il brillante con le ragazzine. No, se resta ostinatamente in sella è perché, evidentemente, vede se stesso ancora e sempre come il migliore, l’indispensabile, l’invidiabile. Per lui nulla è cambiato. Non sente i fischi, e se li sente li attribuisce alle manovre organizzate di consorterie nemiche. Non coglie l’imbarazzo e lo spregio della comunità politica mondiale, ché sono tutte voci montate ad arte dalla stampa comunista. Non vede la crescente insoddisfazione dei suoi, le infedeltà patenti o latenti, perché gli pare inverosimile che qualcuno non lo ami. Per non imputargliele tutte, va detto che è difficile per chiunque cogliere il proprio declino, e accettarlo: un classico (triste) dello sport è il campione che si ostina a salire sul ring anche quando non ce la fa più. Nel suo caso, c’è una difficoltà in più: avendo comperato il ring, gli riesce ancora più difficile capire perché mai dovrebbe scenderne.
LA REPUBBLICA del 10 novembre 2011
È veramente fenomenale la faccia tosta con quale i protagonisti indiscussi dello sfascio ora vogliono chiudere la legislatura come niente fosse (cioè come se lo Stato non fosse in bancarotta) e rinverginarsi con una bella campagna elettorale. Nella quale, magari, giocarsela da vocianti innovatori dopo essere stati, per lunghi anni, l´alfa e l´omega di un potere politico tanto tracotante quanto inetto. Così è il populismo (del quale Berlusconi e Bossi sono il Gatto e la Volpe): un giorno a Palazzo, il giorno dopo a fare casino per le strade, un giorno reazionario e il giorno dopo rivoluzionario, basta non dover rendere conto ad altri che a se stessi e alla propria claque vociante, che fino a un minuto prima strillava sui suoi giornali "giù le mani dalla legislatura" e un minuto dopo strilla "evviva, tutti alle urne!". Il gioco è talmente scoperto da suscitare, per istinto più che per calcolo, una improvvisa simpatia per qualunque soluzione che il Capo dello Stato riesca a trovare, raccogliendo i cocci che il governo in fuga lascia sul pavimento. Va bene tutto, compresa una maggioranza-pateracchio che vada da Fini a Bersani a Pisanu, con dentro anche il Papa e le guardie svizzere: dopo quello che abbiamo trangugiato per vent´anni, qualche mese di quarantena non farebbe una gran differenza.
LA REPUBBLICA del 27 ottobre 2011
Davvero illuminante lo studio di due ricercatori di Cambridge sulla miopia, in aumento soprattutto nel mondo ricco. Dipenderebbe dal minor numero di ore trascorse all´aria aperta, con conseguente restrizione del campo visivo e peggiore qualità della luce artificiale rispetto a quella naturale. Così, quando diciamo che una catastrofe come quella occorsa a mezza Liguria è causata dalla miopia dell´uomo, diciamo una verità assai meno metaforica di quanto pensiamo. Siamo sempre più miopi anche perché non sappiamo più guardare il mondo e misurarlo davvero. Dice Marco Paolini che l´Italia, per una vera e propria turba della personalità, è un Paese di montagna convinto di essere un Paese di pianura, e anche questa non è una metafora: oltre il settanta per cento del nostro territorio è scosceso, ondulato o ripido, ma facciamo finta che non sia così. Ripulire un fosso e impedire che si otturi, mantenere pervie e sorvegliate le vie d´acqua, far respirare i boschi perché siano sani e permeabili, non cementificare da ingordi e da pazzi quali siamo, tutto questo equivarrebbe alla cura del nostro paese e di noi stessi. Ma non abbiamo più cura perché non abbiamo più sguardo, se non per le videate e i tabulati che ci scorrono a un palmo dal naso, mentre fuori vita e morte giocano la loro partita considerandoci, giustamente, appena un dettaglio.
LA REPUBBLICA del 30 novembre 2011
Una comunità civile – strenuamente civile – come quella norvegese maneggia con comprensibile fatica lo stragista Breivik, le sue idee primitive, il suo crimine bestiale. Le leggi impediscono la vendetta, che è barbarica (e dunque familiare a Breivik, non ai suoi giudici) e addirittura costringono quel tribunale a porsi, su un uomo che ha macellato decine di ragazzi come agnelli, la fatidica domanda se sia solo un criminale o soprattutto un pazzo, dunque da curare (la diagnosi dei periti è "schizofrenia paranoica") più che da punire. La domanda, in realtà, andrebbe estesa a molti criminali di guerra, nonché a tutti o quasi i crimini innescati dall´odio razziale o religioso, tanto "folle" appare, alla nostra ragione nonché alla nostra pietà, la decisione di sopprimere qualcuno perché considerato inferiore, infetto, alieno e pericoloso. Molte idee sono malate, schizofreniche e paranoiche fino dalla loro formulazione. Il razzismo lo è certamente, benché abbia disperatamente tentato, per secoli, di darsi una struttura culturale e "scientifica". Far capire ai razzisti che sono malati non risolve certo il nostro problema (che è metterli nelle condizioni di non nuocere). Ma forse, può aiutarli a risolvere il loro.
LA REPUBBLICA del 11 novembre 2011
I cosiddetti "poteri forti" sono, per la destra populista, una vera ossessione, e quasi una superstizione: come l´aglio per le streghe. La Lega, i pretoriani di "Silvio" e Tonino Di Pietro (che incarna ottimamente la porzione di populismo in quota alla sinistra) ne parlano come nei licei si parlava della Cia negli anni Settanta: una presenza malefica e capillare in grado di avvelenare anche i cappuccini nel bar dove ci si riuniva per scrivere i volantini. Nella realtà di davvero forte, in Italia, non c´è niente se non lo spirito di adattamento. L´influenza e il ruolo dei "poteri forti" sono ingigantiti a dismisura, a destra, dalla poca dimestichezza che i nuovi quadri dirigenti del leghismo e del berlusconismo hanno con le istituzioni, da un lato, con la borghesia dall´altro. Si teme soprattutto ciò che non si conosce. Se i poteri forti fossero davvero forti, dovrebbero dunque invitare qualche volta a cena anche Calderoli o la Michela Brambilla o Di Pietro, chiudendo un occhio sugli accostamenti di colore e cercando di piazzarli vicino a commensali disposti a sacrificarsi per la causa. Parlandosi, e sopportando vicendevolmente l´aplomb molto difforme, i nuovi capipopolo e i vecchi notabili capirebbero di avere non poco in comune: per esempio, non sapere che pesci pigliare.
LA REPUBBLICA del 13 ottobre 2011
Raggiunto da un giornalista che gli chiedeva ragione della sua assenza in Parlamento durante il voto sul bilancio, il famoso deputato Scilipoti si è così giustificato: "Non potevano farmi una telefonata? Sarei andato a votare". Ecco che la presenza in Parlamento, da noi ingenuamente considerata un lavoro, viene descritta dallo Scilipoti come una prestazione facoltativa, un atto di liberalità da esercitare a seconda delle circostanze. Allo stesso modo, il pompiere che non spegne l´incendio perché è andato a pescare in orario di lavoro, o il barista che lascia deserto il locale nell´ora di punta, può ben rimproverare al cittadino ustionato, o al cliente senza caffè, di non avergli fatto un colpo di telefono: sarebbe subito accorso, che diamine. Diciamolo: lo Scilipoti, in termini tecnici, è uno che prende per il culo il popolo elettore, a nome dei suoi troppi colleghi assenteisti, disertori e renitenti che rubano lo stipendio e vanno in aula solo quando gli gira, o quando qualcuno gli telefona per segnalargli che in Parlamento, ogni tanto, si vota. Per colpa dello Scilipoti, tra l´altro, siamo costretti per la prima e speriamo ultima volta della nostra vita a fare nostre le parole di Alessandra Mussolini: "Se è vero che Scilipoti non ha votato deve restituire tutto quello che ha avuto". Per farlo, dovrà affittare un camion.
LA REPUBBLICA del 1° dicembre 2011
Le polemiche sui "tempi lenti" del governo Monti fanno abbastanza ridere se rapportate alla sensazione di consolidata immobilità che, per anni, lo ha preceduto. Non è che veniamo da un fox trot. Veniamo da un fermo immagine durato quasi vent´anni, quello che va dal Berlusconi del ´94 che scende in campo contro i comunisti al Berlusconi di tre giorni fa che scende in campo contro i comunisti. Veniamo da una palude fatta di irresolutezza, molte decisioni evitate, pochissime decisioni prese ma clamorosamente sbagliate (l´abolizione dell´Ici), e una nebbia luminescente che avvolgeva tutto e tutti e occultava la realtà della vita, del lavoro, del concreto farsi e disfarsi della nostra società. A pensarci meglio, le critiche sulla lentezza del nuovo governo, a dispetto delle intenzioni di chi le muove, sono la prova provata che abbiamo davvero e finalmente voltato pagina. Si è rimesso in moto l´orologio della realtà, e nella realtà una settimana è lunga, un mese è lunghissimo, un anno è l´eternità. Chiedere a Monti di fare in fretta equivale a dire che ci siamo svegliati da un lungo coma, e il tempo vale, il tempo pesa, il tempo è di nuovo il nostro.
LA REPUBBLICA del 16 novembre 2011
Vuoi mettere il Parlamento Padano? Che è finto come una quinta di cartapesta, ma ti fa provare l´ebbrezza ininterrotta del cento per cento dei voti, perché non c´è opposizione e non c´è politica, c´è solo la parata celebrativa dei capi e dei sottocapi dell´unico partito rappresentato. Le legnate prese a Roma, nel campionato vero, nel Parlamento vero, si dimenticano in fretta nel rassicurante calduccio di una Heimat inventata, circondata dall´indifferenza e dall´ostilità di un territorio che in larghissima maggioranza si sente italiano, e ha già ampiamente dimostrato, nell´anno del centocinquantenario, di averne le tasche piene dell´arrogante pretesa del Carroccio di parlare a nome di un Nord che già cinquanta metri fuori da quel "Parlamento" non lo vota e non lo stima. Per colmo della misura, il frettoloso ricovero dei resti della "Lega di governo" nella sua vecchia tana posticcia ha il sapore, davvero molto sgradevole, di una doppiezza furbastra, che fino a un minuto prima consentiva di parlare a nome di uno Stato di cui si è ministri, e un minuto dopo di colpirlo alle spalle invocando la secessione. In un Paese che dovesse recuperare la propria dignità, una così esplicita e ripetuta fellonia non passerebbe impunita.
LA REPUBBLICA del 29 settembre 2011
Preferisco Grilli perché è di Milano": questa sarebbe, secondo le cronache, l´opinione di Umberto Bossi sulla successione alla Banca d´Italia. Ora: stiamo parlando di un ministro della Repubblica. Del fondatore e leader di un partito che governa l´Italia, con brevi pause, da quasi vent´anni. Di un uomo di settant´anni che ha avuto il privilegio di vivere una vita da protagonista, da capo, da prima pagina, osservando il mondo da una posizione di assoluto rilievo.
Eppure, vedete a quanto poco servono il potere e il successo, quanto poco migliorano gli esseri umani. Di fronte a un atto politico di primo livello (di fronte, dunque, al suo mestiere e alle responsabilità del suo mestiere), il famoso politico Bossi se ne esce con un concetto così implacabilmente cretino da lasciare senza fiato: "preferisco Grilli perché è di Milano", parole che ai fini della scelta in questione – la nomina del governatore di Bankitalia – valgono zero, non hanno senso né decenza logica, e nemmeno un bambino di otto anni oserebbe pronunciarle se non per gioco, ai giardinetti, come quando si dice "io tifo per la Lazio" o "io preferisco tua sorella". Tra i tanti demeriti di Berlusconi non va trascurato quello di avere messo in ombra, con le sue colpe ipertrofiche, il livello zero che Bossi e la Lega hanno introdotto nella scena pubblica italiana.