LA REPUBBLICA del 11 settembre 2011
Da vita, parole e opere dei coniugi Tarantini trapela un rapporto con i quattrini che non ha molto da spartire con la tradizionale avidità. Semplicemente, parlano della ricchezza come di un diritto naturale, di una condizione dovuta. Non il frutto del lavoro o della fortuna o delle disponibilità familiari. Un diritto, tanto evidente che a chi chiede loro ragione dei ventimila euro al mese spillati al Supercitrullo che ci governa, rispondono di avere «un tenore di vita alto». È l´etica sociale esattamente rovesciata: il tenore di vita alto non è più il punto di approdo di un lavoro proficuo o del talento premiato, come è sempre stato. No: il tenore di vita alto è la condizione pregressa che giustifica qualunque forma di scrocco o di questua o di prelievo con destrezza, perché mica vorrete che i coniugi Tarantini si vestano all´Upim o pernottino in pensioni da poco o si arrabattino come chiunque fatica a campare la vita, no? Loro hanno un tenore di vita alto, sono fatti così. Ha ragione Bauman: siamo, fondamentalmente, una società di drogati. Dipendenza da sostanze, dipendenza da consumi, dipendenza da sesso, dipendenza da denaro sono il motore del mondo che abbiamo costruito. Raramente riusciamo a ragionare sul fatto che dipendenza è il contrario di libertà. Sicuramente non è ai coniugi Tarantini che possiamo chiedere qualche consiglio terapeutico, o anche solo qualche mezza riflessione in proposito.
LA REPUBBLICA del 28 settembre 2011
Pure se da un pulpito molto precario (sono il classico relativista etico), faccio parte del folto gruppo di italiani che avevano facilmente colto già sul nascere, nel potere berlusconiano, quei tratti smodati e quella mancanza di misura che il cardinale Bagnasco ha infine denunciato, suscitando grande fragore mediatico. È strano: almeno in teoria, il vaglio morale della Chiesa dovrebbe essere ben più ristretto e severo di quello della gente come me, che non promulga codici di comportamento sessuale né saprebbe indicare Modelli di Famiglia maiuscoli come quello vidimato dal cattolicesimo romano. Evidentemente, non essendo sospettabile che cotanta autorità morale colga lo scandalo con clamoroso ritardo rispetto a noi dilettanti dell´etica, dobbiamo dedurne che altri impedimenti hanno suggerito a Roma di tacere per tanti anni quanti ne sono bastati, a Berlusconi, per dare a bere a un sacco di italiani che lui governava nel nome dei valori della Famiglia. Sono, questi impedimenti, affare interno della Chiesa. Ma rendono difficile da capire, per quelli come me, l´entusiasmo che ha accolto le parole di Bagnasco, essendo quelle stesse parole, o parole molto simili, già state dette e scritte infinite volte da infiniti altri. Ben prima di lui.
LA REPUBBLICA del 14 settembre 2011
Giovanardi che polemizza con Madonna è pura surrealtà, anche perché Madonna non lo saprà mai. Equivale a "Fanfani attacca i Beatles", per i meno anziani propongo "Cota maledice Hollywood". Si ride. Ma è una risata breve, perché un secondo dopo ci sovviene che, partita Madonna, Giovanardi rimane qui con noi, è lui il nostro convivente, lui l´espressione corrente del pensiero piccino che ci fa piccini, sempre più piccini di fronte al mondo. Gli italiani che viaggiano tornano con le mani nei capelli per gli sfottò, le allusioni sessuali, gli sguardi di compatimento. Il capo di Giovanardi è una celebrità planetaria nel campo del gallismo da barzelletta, le sue camicie di seta nera e il suo cerone ne fanno una star dell´avanspettacolo, anche se con quarant´anni di ritardo. Giovanardi ha perfettamente ragione, in questo senso, a rimproverare Madonna perché "la sua cultura non è quella della famiglia". Nella "cultura della famiglia" dell´Italietta di Giovanardi, il padre di famiglia e il puttaniere sono figure tranquillamente coesistenti, spesso coincidenti, ma l´omosessuale non può ereditare dal suo compagno di una vita, né assisterlo in ospedale. Finché quella cultura non sarà morta e sepolta l´Italia sarà eternamente bigotta e, quel che è peggio, eternamente volgare e violenta con una moltitudine di esseri umani.
LA REPUBBLICA del 29 settembre 2011
Preferisco Grilli perché è di Milano": questa sarebbe, secondo le cronache, l´opinione di Umberto Bossi sulla successione alla Banca d´Italia. Ora: stiamo parlando di un ministro della Repubblica. Del fondatore e leader di un partito che governa l´Italia, con brevi pause, da quasi vent´anni. Di un uomo di settant´anni che ha avuto il privilegio di vivere una vita da protagonista, da capo, da prima pagina, osservando il mondo da una posizione di assoluto rilievo.
Eppure, vedete a quanto poco servono il potere e il successo, quanto poco migliorano gli esseri umani. Di fronte a un atto politico di primo livello (di fronte, dunque, al suo mestiere e alle responsabilità del suo mestiere), il famoso politico Bossi se ne esce con un concetto così implacabilmente cretino da lasciare senza fiato: "preferisco Grilli perché è di Milano", parole che ai fini della scelta in questione – la nomina del governatore di Bankitalia – valgono zero, non hanno senso né decenza logica, e nemmeno un bambino di otto anni oserebbe pronunciarle se non per gioco, ai giardinetti, come quando si dice "io tifo per la Lazio" o "io preferisco tua sorella". Tra i tanti demeriti di Berlusconi non va trascurato quello di avere messo in ombra, con le sue colpe ipertrofiche, il livello zero che Bossi e la Lega hanno introdotto nella scena pubblica italiana.
LA REPUBBLICA del 16 settembre 2011
Il domestico peruviano di Lavitola, Rafael Chavez detto "Giuanin", passava personalmente da Palazzo Grazioli, dimora privata del nostro capo del governo, a ritirare buste piene di contanti. Il nostro capo del governo è fidanzato con una ventenne montenegrina che quando ha gli attacchi di gelosia si lancia per le scale ruzzolando. La modella colombiana Debbie Castaneda, dell´entourage del nostro capo del governo, è stata nominata consulente di Finmeccanica. Valter Lavitola è socialista e dirige l´Avanti! La contorsionista egiziana Yamila è stata inviata in dono dal nostro capo del governo al sultano dell´Oman dentro un baule damascato. Il Senato della Repubblica, confermando un precedente pronunciamento della Camera, ha votato a maggioranza un documento nel quale si sostiene che il nostro capo del governo, quando ha telefonato alla Questura di Milano, era preoccupato per le sorti della nipote di Mubarak. Il nostro capo del governo per fare alcune telefonate ha utilizzato una scheda telefonica intestata al cittadino peruviano Ceron Caceres. Il nostro capo del governo, in una conversazione privata, ha definito il cancelliere Merkel "una culona intrombabile". Il premier turco Erdogan rifiuta di incontrare il nostro capo del governo perché è turbato dal suo comportamento privato.
Una sola di queste notizie è sicuramente falsa. Sapreste dire quale?
LA REPUBBLICA del 30 settembre 2011
Centinaia, migliaia di militanti leghisti si sentono traditi dai loro capi. Molto spesso si tratta (vedi la lettera al Corriere del sindaco di Macherio) di persone per bene, che si sono buttate in politica per servire la loro comunità. È un sollievo vederli reagire alla squallida agonia del governo di cui fanno parte. Non è un sollievo, però, sapere che a metterli in allarme, prima di adesso, non sono bastati quel linguaggio da trivio, quegli slogan razzisti, quella violenza verbale, quel dito medio divenuto il misero scettro del capo. Non è una questione di forma. Nessuna cosa davvero buona, davvero utile può nascondersi dentro un involucro così torbido e così sciatto. Il più onesto dei politici, il più virtuoso dei programmi non può usare a lungo parole volgari, battute infami, senza esserne intaccato, sporcato. Senza distruggere, per prima, la sua politica. Il linguaggio ben temperato e la cultura non sono vezzi da fichetti, come credono le camicie verdi (e come credevano gli squadristi). La cultura è ciò che dà dignità al popolo, lo libera dalla sottomissione, lo trasforma in classe dirigente. È facile, adesso che il vassallaggio di Bossi verso Berlusconi è così palese, sentirsi traditi. Peccato non essersi sentiti traditi prima, quando la rivoluzione leghista si annunciava, ancora in culla, con parole rasoterra, meschine, prive di nobiltà. Senza nobiltà (di intenzioni e di parole) la politica non può che tradire.
LA REPUBBLICA del 20 settembre 2011
Diceva il vero (purtroppo) il terribile editoriale di Concita De Gregorio pubblicato ieri su questo giornale: la prostituzione eretta non solo a sistema di potere, ma anche a modello di vita, sarà il lascito "morale" dell´uomo di Arcore. Compiacente, anzi entusiasta, una porzione non piccola di italiani e di italiane, come dimostra la disarmante intervista di una ragazzina pugliese che è riuscita a entrare nel giro delle escort a Sua disposizione. Almeno due, però, le ragioni di speranza. La prima, ovvia, è il numero consistente di italiani e italiane differenti e liberi di spirito. La seconda, meno ovvia, è che dietro la bigiotteria e le mance, le comparsate televisive e le gite a Palazzo, traspare un mondo di sfigati e di sfigate. Vice-concubine, vice-attrici, vice-vamp acquistate all´ingrosso e impilate come copertoni di ricambio nell´anticamera del Capo. Un piccolo mondo senza speranza di una fama individuale (non dico alla Pompadour, ma almeno alla Petacci, o alla Ferida) e condannato a una fama di branco, "le escort di Berlusconi". Imperdonabile promettere fama, felicità e ricchezza e fornirne appena un patetico surrogato. Nessun sistema può reggersi troppo a lungo sulla mortificazione delle speranze. Il vero capitalismo produce veri vincitori, al limite veri farabutti e farabutte. Questa roba qui è solo una parodia: e gli attori, per quanto grulli, prima o poi se ne accorgeranno.
LA REPUBBLICA del 4 ottobre 2011
Le immagini dell´esercito di ragazzini fermati sul Ponte di Brooklyn fanno sussultare. Le facce imberbi, i capelli lunghi, perfino l´abbigliamento rimandano ai loro padri e madri, magari nonni, che occupavano i campus quasi mezzo secolo fa. Nei telegiornali il bianco e nero ha ceduto il passo al colore, ma il cortocircuito antropologico è così evidente da costringerci a domandarci se il tempo è davvero passato. È una sensazione sospesa tra il compiacimento (niente gratifica i genitori più che riconoscersi nei figli) e il malessere, perché la percezione di vivere un tempo bloccato, per noi occidentali, è sempre più frequente. E basta avere occhi e orecchie per capire che il potere contro il quale si mobilitano quei ragazzi è ancora più distante, ancora più escludente di quello che fu scosso dalle rivolte degli anni Sessanta. Ora c´è un presidente afroamericano, i costumi si sono molto liberalizzati, i diritti estesi: ma la struttura oligarchica dell´economia si è, se possibile, radicalizzata, e il sospetto che il destino di tutti sia determinato da pochissimi comitati d´affari è quasi una certezza. I concetti di giustizia e ingiustizia sono stati nel frattempo rivoltati, manipolati, ridefiniti molte e molte volte, ideologie sono morte, idee cambiate. Ma poiché è sempre l´ingiustizia a mettere le ali ai piedi ai cortei, dobbiamo dedurne che l´ingiustizia aveva perduto, molti anni fa, qualche battaglia, ma infine ha vinto la guerra. Si riparte daccapo, dunque.
LA REPUBBLICA del 30 agosto 2011
Ha ragione Matteo Renzi, quando dice di non credere alla "diversità etica" tra destra e sinistra. Ma dovrebbe spiegarlo alla destra italiana, ai suoi giornali, alla sua classe dirigente, che di quella diversità etica sembrano invece essere i più convinti sostenitori, perché sbarrano gli occhi e si indignano per il caso Penati, ma non battono ciglio di fronte al viluppo di scandali nel quale sprofonda il sistema berlusconiano: il solo giro di assegni del Sire ai suoi beneficiati (difficile distinguere tra amici, mantenuti, spacciatori di sesso e ricattatori) vale almeno quanto il "sistema Sesto" in termini di valuta, ed è ben più disgustoso quanto a etica del potere, stili di vita, vulnerabilità delle istituzioni. E dunque, si incoraggi infine la destra italiana a smetterla di considerare "diversa" la sinistra, e dunque più scandalosi gli scandali della sinistra. E a smetterla di avere di se stessa, del proprio leader, della propria classe dirigente, un´opinione così infima, e così rassegnata, da considerare ordinaria amministrazione quel troiaio (toscanismo) nel quale ministri, viceministri e lo stesso leader sono invischiati fino al collo. Basta con questa pregiudiziale denigrazione della destra italiana. Basta con i complessi di inferiorità della destra italiana.
LA REPUBBLICA del 21 settembre 2011
A Guido Ceronetti, che lamenta la scomparsa di molte parole della nostra tradizione linguistica, vorrei dare una buona anzi ottima notizia, che è la ricomparsa in grande stile, e ai massimi livelli, del verbo "bastonare", che odora di teatro dei burattini e di commedia dell´arte, quando ancora l´inglese onomatopeico dei fumetti non aveva fatto trionfare il "bonk". Il ritorno della bastonatura è dovuto a due grandi caratteristi della scena odierna: è l´avvocato Ghedini a raccontare che Valter Lavitola minacciò «di bastonarlo», in margine a una discussione sulle candidature. Si avverte, nella disputa tra il Lavitola e il Ghedini, il profondo radicamento di due italiani moderni alle loro tradizioni culturali. È Brighella, è Arlecchino che bastona o viene bastonato (e i bimbi ridono, gridano e battono le mani), in genere poco prima che cali il sipario. Il bastone non è arma di cavalieri o paladini, che usano il ferro. Non esiste, tra i bastoni, un Excalibur. Il bastone è l´arma ignobile che punisce il servo (gli cala, secondo il canone, "sul groppone"), o regola le contese tra i poveracci. È bello, e a suo modo emozionante, che ancora ci si bastoni, a destra, come pretende la natura popolare che i berlusconiani hanno inteso darsi. Anche quando ben pagati, direttori di giornale e deputati, l´antico Dna della maschera manesca a crapulona si fa valere.