LA REPUBBLICA del 31 agosto 2011
Di tutte le bugie dette da questo nostro tristo premier, "non ho messo le mani nelle tasche degli italiani" è tra le più grossolane e ridicole. Non ha messo le mani nelle tasche dei benestanti, questo sì, né in quelle di chi ha imboscato quattrini frodandoli al fisco e dunque alla comunità: per loro c’è solo lo spettro dei soliti "controlli incrociati", per altro già da tempo memorabile nelle facoltà d´azione dell´erario e della Finanza quando mai avessero uomini e mezzi bastanti. Ma le ha messe, eccome, nelle tasche della gente comune, rosicchiando spiccioli, decurtando servizi, tagliuzzando pensioni, con uno di quei soliti drenaggi mezzo disperati mezzo pitocchi che in Italia chiamiamo pomposamente "manovre" e che non cambiano mai niente di strutturale, non intaccano mai i privilegi, non confortano i tartassati, non ricompensano gli onesti. Un tirare a campare da democristiano (insieme a quegli altri stra-democristiani dei leghisti), che cerca disperatamente di rimandare ogni rendiconto, ogni decisione vera. Quanto a Tremonti (che una super-tassa sui redditi forti almeno l´aveva proposta), della sua manovra non rimangono nemmeno i cocci. Come l´architetto che propone il grattacielo e glielo trasformano in pagoda. Un professionista serio, in quei casi, ringrazia e toglie il disturbo.
LA REPUBBLICA del 6 ottobre 2011
Con il meraviglioso titolo di prima pagina "Silvio come Amanda", ieri il quotidiano Libero, non so quanto consapevolmente, ha chiuso definitivamente un cerchio. Dentro quel cerchio la politica è ingoiata, tutta intera, da una rappresentazione popolare insieme puerile e buffa, e la realtà è appena il remoto pretesto per fornire un canovaccio ai pupazzi che hanno sostituito le persone. "Silvio" e "Amanda", qualora fossero davvero il signor Silvio Berlusconi e la signorina Amanda Knox, ovviamente c´entrano niente l´uno con l´altra. Ma essendo diventati due giocattoli mediatici, Silvio e Amanda possono ben incrociare i loro destini sullo stesso scaffale, come il soldatino di piombo e la ballerina del carillon. Qualcuno cominciò, anni fa, a chiamarli tutti, buoni e cattivi, per nome o per nomignolo (Silvio, Amanda, Sarkò, Carlà, Olindo, Rosa, forse il prototipo fu Gorby). In sintonia perfetta con il processo di trasformazione dei cittadini in consumatori, degli adulti in bambini, dell´opinione pubblica in pubblico con poche opinioni, ma in perenne fibrillazione emotiva. Tutti quei pupazzi, come nei veri giochi infantili, sono lì apposta per essere vezzeggiati oppure fatti a pezzi, coccolati o dimenticati in fondo a un baule. Per sapere la fine di "Silvio" è inutile cianciare di piazza Loreto, bisognerebbe rivedere Toy Story.
LA REPUBBLICA del 22 settembre 2011
Umberto Bossi sa benissimo che non è possibile indire un referendum sulla secessione. Sa altrettanto bene che, casomai fosse possibile, la sedicente Padania sarebbe definitivamente sepolta da una valanga di "no", anche al Nord. Neppure l´elettorato leghista voterebbe al completo per uno Stato inesistente e per giunta retto, già al suo nascere, da un clan di tipo gheddafiano come quello messo in piedi da Bossi, con tanto di figli nominati ministri e cittì della Nazionale. E allora, perché lo dice? Lo dice – come nella tradizione della peggiore politica – solo per conservare il suo potere, rianimare il suo carisma sgonfiato da anni di fedele servizio alla corte di Arcore, illudere fino allo stremo il suo popolo. Lo dice sapendo che il sogno della Padania (oltre a essere un incubo per la grande maggioranza degli italiani) è, appunto, solo un sogno. Ogni parola spesa da Bossi in questi anni era fondata su un´invenzione retorica, finalizzata alla sua carriera politica. Giurare (spergiurando) sulla Costituzione italiana per diventare ministro di una Nazione che vuole distruggere è già una colpa grave: ma ai danni del "nemico". Il cinismo politico può giustificarla. Ma imbrogliare migliaia di militanti e un paio di milioni di elettori facendo loro credere che un giorno saranno "padani" vuol dire approfittare anche di chi ti è amico.
LA REPUBBLICA del 1 settembre 2011
Bersani considera «uno stimolo» il referendum contro l´orrida legge Calderoli (chiamarla Porcellum è quasi un vezzeggiativo: legge Calderoli suona ben più grave). Ma non vuole coinvolgere il partito nella campagna: come segretario del Pd si riserva il ruolo specifico di proporre in Parlamento una nuova e migliore legge elettorale. Non si capisce perché la seconda cosa impedisca ai democratici, e al loro segretario in primo luogo, di battersi anche per la prima. Il ricorso al referendum indica in modo forte e diretto il disgusto di buona parte del paese per un sistema elettorale che toglie potere ai cittadini; che quasi tutti i partiti giudicano pessimo; ma che la politica non pare in grado, da sola, di cancellare o di emendare, pur avendo avuto molto tempo a disposizione per farlo. E dunque, che cosa aspetta Bersani? Pochissimi mesi fa, nella travolgente campagna nata attorno al referendum sull´acqua pubblica, si era creata una saldatura vincente tra società civile e politica, tra movimenti e partiti. Tutto già finito e digerito, tutto alle spalle? Al punto che il capo del maggior partito della sinistra italiana esita a sposare una causa sacrosanta sostenendo che non vuole «mettere il cappello» del Pd sopra un´iniziativa della società civile? Ma non sembrerà ben più stonato e fuori posto, il «cappello» del Pd, quando arriverà all´ultimo minuto a sventolare su una piazza che ha già fatto, lei da sola, tutta la fatica?
LA REPUBBLICA del 5 ottobre 2011
Se fossi il ministro degli Interni ad interim di tutte le Galassie, io l´altro giorno, sul pianeta Terra, avrei ordinato due retate: una a Perugia e una a Seattle. Una contro quelli che strillavano "vergogna" fuori dal Tribunale, levando istericamente il braccio nel gesto para-fascista delle curve ultras, l´altra contro la ridicola claque yankee che plaudiva in lacrime all´assoluzione in mondovisione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Due popolini di opposto sentire ma di idem scemenza, al tempo stesso vittime e artefici della credulità di massa e dell´orrore mediatico. È anche grazie a loro e per loro che i giornali peggiorano, la televisione peggiora, l´informazione peggiora, sono loro le foche ammaestrate di quel circo emotivo, fracassone, superficiale che osiamo chiamare "informazione". Non è vero che per fare silenzio (per capire, cioè, che il silenzio è il solo atteggiamento all´altezza della Morte e del Giudizio) ci vogliono la laurea in filosofia e un master di criminologia. Per fare silenzio basta considerarsi al di sotto della verità, come ogni essere umano sa di essere nel novantanove per cento delle circostanze della vita. Il mostruoso equivoco generato dalla civiltà mediatica è che a ogni pirla in circolazione bastano i titoli di un telegiornale per sentirsi Testimone della Verità. La verità su quel delitto la sanno gli imputati e (forse) i giudici e gli avvocati che per anni ci hanno lavorato sopra. Per gli altri vale più che mai l´ordine di sgomberare l´aula.
LA REPUBBLICA del 23 agosto 2011
Chissà se qualcuno si è preso la briga, sotto l´ombrellone, di ritagliare e mettere da parte tutti gli articoli, le tabelle, le proiezioni che i giornali hanno dedicato alla sedicente "manovra da 40 miliardi". La somma delle anticipazioni, delle correzioni, degli aggiustamenti, delle rettifiche è un guazzabuglio impressionante, che mette quasi ogni italiano nell´impossibilità di capire quanto dovrà pagare direttamente (tributi straordinari) e quanto indirettamente (tagli ai Comuni, tagli ai servizi). Si è capito soltanto – e non è certo una novità – che la dichiarazione dei redditi sarà il parametro fondamentale per stabilire a quanto ammonta il salasso. La solita tassa sull´onestà che lascia indenni gli evasori (principali colpevoli di questo disastro insieme ai partiti che li coprono e li proteggono, come la Lega) e punisce i cittadini che già si fanno carico, con il loro lavoro e i loro soldi, del welfare. A parte questo nulla è certo, tutto è mutevole, molto è trattabile e dunque ritrattabile, e a due settimane di distanza dal ferale annuncio di un colpo di scure solenne e netto, il filo di quella scure appare gomma, e chi la impugna ha così paura di perdere voti e potere che non è neanche capace di dirci, da adulto che parla con adulti, quanto ci costa essere italiani.
LA REPUBBLICA del 23 settembre 2011
Ieri ben tre amici (autorevoli) mi hanno detto: sento che siamo sull´orlo della catastrofe. Italiana e mondiale. Non essendo scaramantico, non avevo scongiuri da fare. A meno che sia, a suo modo, uno scongiuro il piccolo gioco mentale che da qualche mese, e forse da qualche anno, si innesca ogni volta che qualcuno mi dice: arriva la catastrofe. Il gioco è questo. La catastrofe è arrivata. Devo decidere a cosa rinunciare, che cosa tenere. Casa, vestiti, mezzi di locomozione, consumi culturali, elettronica, vacanze, viaggi, oggetti, abitudini. Un inventario ingombrante, che già a pensarlo suggerirebbe di alleggerirsi. Ma quando si tratta di scegliere – questo sì, questo no – non ne sono capace, o cambio idea ogni volta. Tra le tante cose che possediamo, non possediamo più una gerarchia dell´avere, e il necessario e il superfluo costituiscono un inestricabile groviglio. Troverei rasserenante – in caso di catastrofe – avere già pronta la mia valigia di sopravvivenza: salvando quella dal crollo, potrei ritentare la sorte. Ma se uno, per la sopravvivenza, ha bisogno di (almeno) un container, vuol dire che è zavorrato. Paralizzato. Ostaggio dei suoi bisogni. Provate anche voi a fare quel gioco. Magari imparate a conoscervi meglio. Magari – quando la catastrofe arriverà davvero – sarete abbastanza leggeri da tentare la fuga.
LA REPUBBLICA del 2 settembre 2011
L´aumento dell´Iva non è previsto, però «è attivabile in qualsiasi momento». In queste parole (ennesime) del capo del governo è riassunta l´assurdità congenita della sedicente "manovra", che oggi c´è domani no, taglia le pensioni però non le taglia, risparmia i Comuni ma forse non li risparmia, abolisce le Province però solo tra un paio di legislature… Incredibile ripensare come quest´uomo, quando è disceso in campo per salvarci tutti quanti (anche noi che non volevamo…), ha speso soprattutto la sua fama di imprenditore e di "uomo del fare", reso efficiente e pragmatico dal suo lavoro, e portato a Roma in trionfo da una folla plaudente che vedeva in lui il giustiziere di una classe politica pasticciona, lenta, compromissoria, indecisa a tutto. Oggi eccolo qui, il milanese che lavora e non ha tempo per le chiacchiere, il capitano d´azienda dinamico e provvido, che pasticcia con le cifre, tentenna, ribalta decisioni, ostaggio permanente (in politica come altrove) da compagni di viaggio che lo tengono per la collottola e gli fanno dire il giorno dopo il contrario di quello che ha detto il giorno prima. Così che gli unici effettivi risanatori dei quali si potrà avere memoria sono Ciampi e Amato, alti funzionari pubblici, tipico prodotto (di alta gamma) dell´amministrazione di Stato. Furono ben più duri e ben più rapidi del presuntuoso "cumenda" sceso dal Nord per combinare un tubo.
LA REPUBBLICA del 24 agosto 2011
I famosi "miliardari russi", alcuni dei quali protagonisti, dopo la caduta dell´Urss, di una delle più colossali spoliazioni di beni collettivi mai viste nella storia dell´umanità, hanno ormai rimpiazzato nel nostro immaginario gli sceicchi arabi. Panfili di speciale cafonaggine e spese sfrontate ne segnano il passaggio nelle località turistiche più celebri e anche più trite, dove nemmeno Christian Vieri si fa più vedere, e dove loro arrivano con qualche decennio di ritardo sulle mode, per l´incredula gioia di albergatori e ristoratori che non speravano più di poter vuotare i freezer e le cantine. Alcuni di costoro acquistano e gestiscono squadre di calcio (russe e non) triplicando o quadruplicando investimenti e stipendi, e rovesciando sul tavolo da gioco tanti quattrini quanti ne dovrebbero bastare, in teoria, a sbaragliare ogni avversario. Ma fin qui hanno vinto poco o nulla, e i titoli di giornale che li riguardano non misurano le vittorie, ma lo sfondamento sistematico di ogni criterio economico e di ogni fair-play. Chi crede che il denaro non sia tutto segua le imprese dei nuovi ricchi dell´Est: sono una preziosa testimonianza che effettivamente no, il denaro non è tutto.
LA REPUBBLICA del 8 settembre 2011
L´ipotesi dell´apocalisse finanziaria, del default italiano poi europeo poi mondiale volteggia sulle nostre teste. Ma provate a materializzarla, a capire come cambierebbe concretamente il mondo, che cosa perderemmo, a quali rinunce saremmo costretti, e non ci riuscirete. La povertà classica aveva il volto antico della fame, del freddo, della penuria. E la povertà futura? Il rapporto tra prodotto interno lordo mondiale ed economia finanziaria è uno a otto: i beni concretamente prodotti dagli esseri umani con il loro lavoro sono appena un ottavo del folle vortice virtuale che si chiama economia finanziaria. Quando i giornali gridano "bruciati in un solo giorno cento miliardi di euro", non riusciamo a vedere né il fuoco né il fumo, a calcolare il danno: come se si aprisse una falla in una diga che non sappiamo, e dunque non possiamo riparare. L´istinto sarebbe contare quanto frumento rimane in granaio, quante patate e quanto vino in cantina, quanti soldi nel portafogli, quanto gasolio in caldaia. Non riuscire a farlo, e non poterlo fare, genera un´angoscia inedita, un disorientamento assoluto, come quando si ignora il volto del nemico. La sola cosa che abbiamo capito con certezza e che la totale perdita di nesso tra la vita materiale (il lavoro, il cibo, i manufatti, persino il denaro che pure è già un´astrazione) e l´economia mondiale è un segno di malattia. E la malattia fa sentire insicuri perfino più della povertà.