LA REPUBBLICA del 31 agosto 2011
Di tutte le bugie dette da questo nostro tristo premier, "non ho messo le mani nelle tasche degli italiani" è tra le più grossolane e ridicole. Non ha messo le mani nelle tasche dei benestanti, questo sì, né in quelle di chi ha imboscato quattrini frodandoli al fisco e dunque alla comunità: per loro c’è solo lo spettro dei soliti "controlli incrociati", per altro già da tempo memorabile nelle facoltà d´azione dell´erario e della Finanza quando mai avessero uomini e mezzi bastanti. Ma le ha messe, eccome, nelle tasche della gente comune, rosicchiando spiccioli, decurtando servizi, tagliuzzando pensioni, con uno di quei soliti drenaggi mezzo disperati mezzo pitocchi che in Italia chiamiamo pomposamente "manovre" e che non cambiano mai niente di strutturale, non intaccano mai i privilegi, non confortano i tartassati, non ricompensano gli onesti. Un tirare a campare da democristiano (insieme a quegli altri stra-democristiani dei leghisti), che cerca disperatamente di rimandare ogni rendiconto, ogni decisione vera. Quanto a Tremonti (che una super-tassa sui redditi forti almeno l´aveva proposta), della sua manovra non rimangono nemmeno i cocci. Come l´architetto che propone il grattacielo e glielo trasformano in pagoda. Un professionista serio, in quei casi, ringrazia e toglie il disturbo.
LA REPUBBLICA del 24 settembre 2011
Chi ritiene che "la politica non serve a niente", che "i politici sono tutti uguali", e come massimo sforzo di elaborazione critica arriva a individuare una imprecisata e generica "casta" come fonte di ogni disgrazia, dovrebbe concedersi una piccola riflessione sugli ultimi dieci anni di storia sarda, e dunque di politica sarda. Tra le politiche regionali vigenti (centrodestra) e quelle precedenti (centrosinistra, nella particolare fattispecie della Giunta Soru), la differenza è abissale. Così abissale da generare due Sardegne, diverse e inconfondibili: questa di adesso edificabile quasi fino alla riva del mare, l´altra che voleva mantenere integre le sue coste. Questa a disposizione del cemento, l´altra del paesaggio. Questa in offerta agli speculatori del continente e ai loro sodali locali, l´altra che cercava di indovinare come sarebbe (o come sarebbe stata) una Sardegna sarda. So di schematizzare (la lettura degli articoli di Antonio Cianciullo e Giovanni Valentini, su Repubblica di ieri, poteva darvi un´idea più completa). Ma nella sostanza, di questo si tratta: la sconfitta di Soru e la vittoria di un prestanome di Berlusconi ha determinato, per quella meravigliosa isola e il suo popolo, un cambio di destinazione che è anche un cambio di destino. La politica non conta? Tutti i politici sono uguali?
LA REPUBBLICA del 6 ottobre 2011
Con il meraviglioso titolo di prima pagina "Silvio come Amanda", ieri il quotidiano Libero, non so quanto consapevolmente, ha chiuso definitivamente un cerchio. Dentro quel cerchio la politica è ingoiata, tutta intera, da una rappresentazione popolare insieme puerile e buffa, e la realtà è appena il remoto pretesto per fornire un canovaccio ai pupazzi che hanno sostituito le persone. "Silvio" e "Amanda", qualora fossero davvero il signor Silvio Berlusconi e la signorina Amanda Knox, ovviamente c´entrano niente l´uno con l´altra. Ma essendo diventati due giocattoli mediatici, Silvio e Amanda possono ben incrociare i loro destini sullo stesso scaffale, come il soldatino di piombo e la ballerina del carillon. Qualcuno cominciò, anni fa, a chiamarli tutti, buoni e cattivi, per nome o per nomignolo (Silvio, Amanda, Sarkò, Carlà, Olindo, Rosa, forse il prototipo fu Gorby). In sintonia perfetta con il processo di trasformazione dei cittadini in consumatori, degli adulti in bambini, dell´opinione pubblica in pubblico con poche opinioni, ma in perenne fibrillazione emotiva. Tutti quei pupazzi, come nei veri giochi infantili, sono lì apposta per essere vezzeggiati oppure fatti a pezzi, coccolati o dimenticati in fondo a un baule. Per sapere la fine di "Silvio" è inutile cianciare di piazza Loreto, bisognerebbe rivedere Toy Story.
LA REPUBBLICA del 22 settembre 2011
Umberto Bossi sa benissimo che non è possibile indire un referendum sulla secessione. Sa altrettanto bene che, casomai fosse possibile, la sedicente Padania sarebbe definitivamente sepolta da una valanga di "no", anche al Nord. Neppure l´elettorato leghista voterebbe al completo per uno Stato inesistente e per giunta retto, già al suo nascere, da un clan di tipo gheddafiano come quello messo in piedi da Bossi, con tanto di figli nominati ministri e cittì della Nazionale. E allora, perché lo dice? Lo dice – come nella tradizione della peggiore politica – solo per conservare il suo potere, rianimare il suo carisma sgonfiato da anni di fedele servizio alla corte di Arcore, illudere fino allo stremo il suo popolo. Lo dice sapendo che il sogno della Padania (oltre a essere un incubo per la grande maggioranza degli italiani) è, appunto, solo un sogno. Ogni parola spesa da Bossi in questi anni era fondata su un´invenzione retorica, finalizzata alla sua carriera politica. Giurare (spergiurando) sulla Costituzione italiana per diventare ministro di una Nazione che vuole distruggere è già una colpa grave: ma ai danni del "nemico". Il cinismo politico può giustificarla. Ma imbrogliare migliaia di militanti e un paio di milioni di elettori facendo loro credere che un giorno saranno "padani" vuol dire approfittare anche di chi ti è amico.
LA REPUBBLICA del 19 luglio 2011
Nel potente articolo di Carl Bernstein (Repubblica di domenica) sullo scandalo che sta travolgendo l´impero di Rupert Murdoch, impressionava l´estrema durezza con la quale il grande giornalista, coautore dello scoop sul Watergate, giudica la stampa popolare anglosassone, quella incentrata sul gossip. Il "segreto" del successo di Murdoch, per Bernstein, è uno solo: l´abbassamento vertiginoso della qualità giornalistica, fino a sostituire alla "faticosa ricerca della verità" quella parodia della realtà che è il gossip. Nel nostro piccolo, anche in Italia abbiamo sperimentato questa progressiva sostituzione della realtà con un suo scadente surrogato, edulcorato e sciocco. Ma il problema è mondiale: la società di massa ha creato un nesso forte e chiaro tra la cattiva qualità e il successo commerciale. Accade per i cibi, per il giornalismo, per la politica, per il turismo, per tutto. Non so quanto sia fondata l´idea (classista) che la qualità sia destinata solo a un pubblico di nicchia, e il "popolo" sia per definizione, direi per destino, di bocca buona. Ma so che, nell´attesa di capire quanto solido e duraturo sia l´impero della mediocrità, l´autostima di ciascuno è la sola bussola che conti, anche per i giornalisti. Forse non si può scegliere se diventare Bernstein o occuparsi delle gravidanze delle attrici. Ma si può scegliere, almeno, di provarci.
LA REPUBBLICA del 20 luglio 2011
Il povero Mario Cal, manager del San Raffaele, aveva 72 anni. Il suo capo don Verzé ne ha 91. Il loro principale referente politico, il capo del governo, va per i 75. Il suo grande alleato Bossi sta per compierne 70 ed è gravemente malato. Il capo dello Stato, alla cui tenuta psicologica e fisica siamo tutti aggrappati, ne ha appena compiuti 86. Sull´età avanzata del potere italiano si è detto e scritto molto, ma non abbastanza da scalfirne la longevità stupefacente. Nell´astio montante contro "la casta", e più in generale nel senso di declino irreversibile del paese, questo dato anagrafico, ben al di là dei meriti e colpe dei singoli, pesa come un macigno. Desta sgomento in chi, come chi scrive, ha superato i cinquanta. Immagino desti impotenza e rancore in chi è giovane, chiede spazio e voce, e si vede governato non dai padri ma dai nonni. Inoltre: la stagnazione della nostra classe dirigente fa ripensare alla "rivoluzione" di Tangentopoli come a un falso movimento. Una rivoluzione vera rinnova radicalmente la classe dirigente di un paese. L´età ormai castrista del nostro establishment documenta che questo non è mai avvenuto, che chi era ricco e potente vent´anni fa in genere lo è anche adesso. La Prima Repubblica era retta da cinquantenni, la Seconda da settantenni, la Terza, se i conti torneranno, sarà nelle mani dei novantenni. O dei centenari se don Verzé e il San Raffaele troveranno il colpo di reni.
LA REPUBBLICA del 2 luglio 2011
Non so se per malizia o per caso, ieri questo giornale riportava nella stessa pagina le accuse di Bossi ai napoletani per il disastro dei rifiuti, e la sentenza della Corte d´Appello di Torino che ha condannato per associazione a delinquere i Cobas del latte del Piemonte e l´europarlamentare leghista Giovanni Robusti. Duecento milioni di euro nascosti all´erario attraverso finte vendite di latte a cooperative fittizie, per aggirare le famose multe dell´Ue sullo sforamento delle quote latte. L´intera vicenda delle quote latte (che prende abbrivio, molti anni fa, da dichiarazioni false degli allevatori per pagare meno tasse) è un desolante spaccato socio-economico del Nord Italia. Espedienti e furbate (ai danni degli allevatori onesti), illegalità e corporativismo, e la Lega a reggere il gioco per specularci sopra in termini di voti, di polemica anti-europea e anti-statale, di generica propaganda anti-fiscale. Come direbbe Bossi, una cosa da napoletani, con tanto di "onorevole" che offre aiuto e protezione, però fiorita all´ombra del Monviso e delle verdi valle alpine. Piuttosto che latrare all´indirizzo dei "terroni", il senatore Bossi farebbe meglio a guardare fuori dalla propria finestra. Perché se i voti non puzzano, le condanne per frode sono un brutto affare a qualunque latitudine. Dello scandalo politico delle quote-latte si è parlato molto poco solo perché dell´agricoltura, in questo Paese, non importa niente a nessuno.
LA REPUBBLICA del 4 agosto 2011
Le voci sull´"inevitabile passo indietro" di Giulio Tremonti, che solo un paio di giorni fa erano un coro, già cominciano a diradarsi. Il conto alla rovescia che conduce all´eclissi politica di Berlusconi, iniziato dopo il tracollo elettorale di primavera, non sembra avere fretta di arrivare al suo esito. Scandali, processi, richieste di autorizzazione a procedere, dileggio internazionale, cadute parlamentari, figure ridicole come quella degli pseudoministeri a Monza, niente sembra scalfire un potere talmente malconcio e screditato che ogni nuova ferita subito si confonde e scompare nel dedalo delle precedenti. Basti, tra tutte, la parabola esemplare dell´ex ministro Scajola, che non anni addietro, ma nel corso di questa stessa legislatura (maggio 2010), parve politicamente morto e sepolto, dopo il disdoro che gli era caduto addosso a causa del clamoroso scandalo dell´appartamento romano "pagato a sua insaputa" da altri. Beh, poco più di un anno dopo Scajola è riverito e influente capo-corrente del Pdl. La sua carriera politica è in pieno e florido corso, e non a sua insaputa. I giornali lo intervistano come autorevole leader nazionale, certamente in lizza per orientare i destini del centrodestra. Più che dell´immoralità, in questo paese bisognerebbe discutere dell´immortalità.
LA REPUBBLICA del 27 luglio 2011
Maiali in piazza Affari, ieri mattina a Milano, davanti alla Borsa che mai aveva udito grugnire sotto la sua bella facciata bianca. Colpo d´occhio notevole, una manifestazione di contadini (uomini e bestie) nel luogo dove l´economia si fa meno concreta, più immateriale, e niente valgono le mani, il sudore, il lavoro fisico. Il primario (che vuol dire: il cibo, il nutrimento della vita) spunta guadagni da fame perché dentro quel grande palazzo bianco, e nei suoi omologhi sparsi per il mondo, pochi speculatori giocano sui prezzi dei cereali, dei mangimi, di tutto quanto viene prodotto al mondo dal lavoro umano, e decidono il destino del pane, della carne, del latte e delle persone che quei fondamenti producono, che su quei fondamenti campano. Mai la parola "valore" fu più storpiata, se il risultato è che il valore del cibo, della terra, della natura è niente rispetto all´azzardo e allo strapotere del capitale finanziario. Più o meno nello stesso momento i pastori sardi protestavano a Cagliari, perché il prezzo del latte è così basso da non coprire neanche le spese. Chi conosce appena un poco l´agricoltura e i suoi problemi ha una richiesta da fare: non chiamatelo più "primario", perché suona come una beffa per un settore che viene ultimo, ignorato e umiliato.
LA REPUBBLICA del 14 luglio 2011
«Tra le ragazze c´è chi ha avuto una Land Rover, chi è stata eletta in Consiglio regionale. Non è certo un reato». Uno degli avvocati di Nicole Minetti ha così riassunto (molto efficacemente) l´andazzo del regimetto berlusconiano: le cariche pubbliche usate come una gratifica, un regalo a disposizione delle dame di corte. All´avvocato (e non solo a lui) sfugge la differenza tra una Land Rover e un mandato politico: la prima si paga con i propri quattrini, il secondo è a carico dei cittadini, che a Minetti pagano il notevole stipendio (sui diecimila al mese) di tasca propria, attraverso il prelievo fiscale. Tecnicamente, dunque, le mantenute del Capo diventano le mantenute di noi tutti, ovviamente senza chiederci se siamo d´accordo. Sono convinto che Minetti non abbia rimesso il suo mandato non per protervia, ma perché soffre dello stesso analfabetismo civico di chi l´ha messa su quella sedia. Non hanno la più pallida idea dell´esistenza di una sfera pubblica che risponde a regole e princìpi che non sono gli stessi in voga nei concessionari d´auto, e dunque credono davvero che regalare un´automobile o un filo di perle o una carica pubblica sia la stessa cosa. In conclusione, e seguendo il filo logico dell´avvocato: forse non è un reato, però – mi scuso per la sintesi – fa veramente schifo.