LA REPUBBLICA del 18 dicembre 2012
Mi chiedono perché non sono su Twitter, perché non sono su Facebook, e me lo chiedono con una vena di divertita commiserazione. Eppure la risposta è facile: già mi sembra di scrivere troppo, e dubito di saper governare come dovrei e vorrei le parole che produco. Non vedo perché dovrei ulteriormente inflazionare quel “me pubblico” che già sospetto inflazionato. Mi manca il silenzio, non ulteriori parole. Aggiungo che mi confonde, sui social-network, il non chiaro confine tra privato e pubblico, tra la ciancia amichevole, che è svagata e può concedersi anche la sbracatura, l’approssimazione, e la parola pubblica, che invece considero (per rispetto degli altri e di me stesso) impegnativa, meditata. Può darsi che io non abbia capito, come spesso mi rimproverano, “che cosa sono” i social- network, a cosa servono. Ma mi capita di leggere, poi, tweet di colleghi giornalisti, firme rispettate e di solida cultura, che mi paiono — scusate il latinismo — cazzate spaventose. Ne dico tante, ma a cena con gli amici, o al bar, insomma in privato. Se il network è “social”, è piazza, allora ogni tweet merita la stessa attenzione e fatica che si dedica a un editoriale. A casa si sta in ciabatte, ma per uscire si mettono le scarpe. Possibilmente pulite.
LA REPUBBLICA del 19 ottobre 2012
Comunque la si pensi, la sortita di Massimo D’Alema (“e va bene, me ne vado. Ma solo se vince Bersani”) è un colpo geniale. Che sia l’ultimo, perfido machiavellismo di un leader detronizzato e vendicativo, oppure la mossa d’orgoglio di un vecchio capo che vuole salvare il suo partito dai Barbari, è una sortita che ribalta la scacchiera così come Matteo Renzi l’aveva fin qui allestita. Suscita diffidenza l’idea dalemiana, più volte ribadita, che la politica sia soprattutto una partita a scacchi. L’eccessiva fiducia nella tattica (specie nella propria) può anche portare a infilarsi nell’imbuto della Bicamerale, e far morire per asfissia, insieme ai propri calcoli personali, le speranze di una intera stagione politica. Ma in questo caso l’artifizio tattico è così spiazzante, e così perfetto, da suscitare l’applauso dell’intero stadio. Fossi nella curva renziana, applaudirei comunque, si fa bella figura e si dimostra di avere capito la lezione: puntare troppo sulla rottamazione non rischia di dare troppa importanza, dunque troppo potere, ai rottamandi?
LA REPUBBLICA del 24 ottobre 2012
Il prefetto di Napoli è stato subissato da una tale quantità di critiche e sberleffi (meritati) che si esita a infierire. Ma c’è un punto, potentemente politico, che merita una ulteriore riflessione. Il prefetto non sa che “signore” (e ovviamente “signora”) è molto di più di prefetto, eccellenza, commenda-tore, cavaliere, dottore. Più di signore – che vuol dire Sire, ed è il titolo onorifico di Dio – non esiste nulla. E mano a mano che un appellativo così assoluto diventa appellativo di tutti, finalmente ciascuno diventa signore di se stesso: è la democrazia. Il prefetto De Martino ha parlato nel nome di quell’inguaribile notabilato meridionale – e più in generale di quella inguaribile piccola borghesia italiana – che vive di titoli, onoreficenze, diplomi da appendere dietro la scrivania, perché non è mai stata contagiata dal virus liberatorio della con-cittadinanza. Quel virus, che la Rivoluzione Francese tentò di esportare quasi ovunque, nel nostro povero Sud morì infilzato sui forconi della Santa Fede, ferale alleanza tra plebi servili e baronie neghittose, con la benedizione del Papato. Le conseguenze le paghiamo ancora: abbiamo molti parrucconi, pochissimi signori.
LA REPUBBLICA del 16 dicembre 2012
“Se mi dicono che non posso più prendere un taxi o offrire un caffè al bar, io mi adeguo”, dice il consigliere regionale Bossetti (Lega Nord) al quale la Procura di Milano chiede conto di alcune pittoresche richieste di rimborso spese alla Regione. Come il collega di partito Toscani (cartucce da caccia, ostriche, cioccolata), come Renzo Bossi (videogiochi, sigarette, bibite), come la miracolata Minetti (creme per il viso, iPhone, cenette), come decine di altri colleghi, Bossetti sposa una linea di difesa tra l’amareggiato e l’offeso. Come se non capisse esattamente perché mai si scatena tutto questo casino “per un taxi e un caffè”. Naturalmente non si tratta di un taxi e di un caffè, ma di una lista pantagruelica e ridicola di spese voluttuarie il cui simbolo supremo sono le creme per il viso della Minetti (sì, gliele avete pagate voi con le vostre tasse). Ma anche fossero solo un taxi e un caffè, la cosa sbalorditiva è che non li sfiora nemmeno l’idea di pagarseli di tasca loro, il taxi e il caffè, come da una vita fanno le persone normali. Lei non ha idea, consigliere Bossetti, di quanti taxi e quanti caffè potrebbe ancora prendere liberamente (addirittura andando in taxi a prendere il caffè, o bevendo un caffè in taxi) se solo decidesse di mettere mano al portafogli. Il suo.
LA REPUBBLICA del 25 settembre 2012
Per spiegare lo sbalorditivo comportamento del presidente del Cagliari, signor Cellino, che ha invitato il pubblico ad andare ugualmente allo stadio nonostante manchi l’agibilità, non basta rifarsi all’antica tradizione di goffaggine dei ricchi padroncini del calcio italiano. C’è qualcosa di nuovo e, direi, di moderno: c’è quella sorda ostilità alle regole (quelle dello Stato e quelle del buon senso, non sempre coincidenti ma spesso sì) che ha trovato, negli ultimi anni, non solo una legittimazione ideologica, ma una sua prassi “alta” e “bassa”, quanto basta per far considerare normale, e magari sagace, mettere tra parentesi la legge. Ovviamente non tutte le leggi sono giuste, e per saperlo non è necessario scomodare Antigone (la poveretta è diventata l’alibi culturale per giustificare i porci comodi di chiunque). Ma per ribaltarle del tutto o in parte, le leggi, in genere è necessaria una rivoluzione, oppure lunghi e faticosi processi politici collettivi. Qui uno si alza al mattino e, dopo il cappuccino, decide che si va tutti insieme allo stadio, e chi se ne frega delle autorità di pubblica sicurezza. La disobbedienza, nei secoli, ha sempre avuto un prezzo. Oggi siamo ai saldi: basta uno 0-3 a tavolino.
LA REPUBBLICA del 19 luglio 2012
Non invidio i giudici che devono indagare per “estorsione” Marcello Dell’Utri. Si tratta di fare chiarezza sulla caterva di milioni che il senatore (!!) ha ricevuto da Berlusconi. È come setacciare il Mississippi. Tra amiconi, fornitori, ragazzuole, informatori, praticoni, bisognosi e bisognose a vario titolo, i beneficiati di Berlusconi si contano a decine, e lo sfarfallio di banconote, da quelle parti, è grandioso e incessante. Lui ama vantarsene, e considera la voracità della sua corte la migliore testimonianza della sua munificenza. Perfino i suoi elettori indigenti (a conferma del fatto che la passione politica brucia il cervello) sono entusiasti di quello scialo, anche se non guadagnano in una vita (lavorando) quello che un Lavitola ha ricevuto come mancia. Tornando ai giudici, cercare di cogliere ragioni e scopi di quel pazzesco andirivieni di quattrini è praticamente impossibile. Noi cittadini ci si accontenterebbe di sapere se almeno qualcuno dei miracolati ha emesso fattura o ricevuta, tanto per dare una parvenza di liceità alla prospera industria dello scrocco fiorita attorno alle mura di Arcore. Legalizzare la prostituzione ormai è una battaglia bipartisan.
LA REPUBBLICA del 1 settembre 2012
In tempi di totale confusione ideologica, si deve a Mitt Romney una definizione rozza ma piuttosto efficace di destra e sinistra: "Mentre Obama pensa al pianeta, io penso alle famiglie americane". Ne esce l´idea di una sinistra parolaia e di una destra gretta: più o meno ciò che sono. "Obama pensa al pianeta" è una perfidia ben concepita. Per l´elettorato di Romney il pianeta è solo una remota seccatura, con tutti quei Paesi dai nomi strani che ogni tanto tocca bombardare. Ma anche l´opinione pubblica liberal e di sinistra (di tutto il pianeta) vorrebbe tanto che i suoi leader fossero un poco più concreti, anche a costo di essere meno nobilmente ispirati nei loro discorsi. Quanto alla destra, cioè alle "famiglie americane" ansiose di liberarsi dall´impiccio costituito dall´esistenza, oltre la staccionata di casa, addirittura di un pianeta, hanno sicuramente trovato in Romney un rassicurante difensore. Il loro problema è che la cognizione piuttosto vaga del resto dell´umanità fa di loro, nonostante siano i cittadini della prima potenza economica, militare, politica e mediatica del mondo, dei patetici provinciali. Spesso, per giunta, con un doloroso complesso di inferiorità nei confronti di chi si permette il lusso di "pensare al pianeta".
LA REPUBBLICA del 13 settembre 2012
Nel pittoresco caos sollevato dall´intervista rubata al grillino Favia, è passato in sottordine il metodo, e questo non vale. Non vale perché il metodo (un fuorionda mandato in onda) fa parte, eccome, del dibattito. Il dibattito è sulla crisi etica e funzionale della politica, a partire dalle sue forme di rappresentanza, non certo escluse le forme mediatiche. A me (l´ho scritto milioni di volte) il mito della democrazia diretta via web pare ingenuo, ridicolo e anche pericoloso, ma non è che un sistema mediatico (e un dibattito politico) fondato sui fuorionda mi appaia in alcun modo rassicurante o anche soltanto decente. In questo senso, come dare torto alla grillina Federica Salsa che, raggiunta al telefono da una giornalista di "Piazza Pulita", non credendo alle sue orecchie, le ha detto: «Ma come, mi chiedi una chiacchierata informale dopo che il tuo programma ha mandato in onda un fuorionda registrato di nascosto? ». Cerco di evitare accuratamente i talk-show perché ho paura (fisica) di imbattermi in Sallusti. Di qui in poi, cercherò di evitarli anche per la paura di dover commentare un fuorionda.
LA REPUBBLICA del 24 luglio 2012
Barak Obama – che un nome se lo è conquistato, eccome – non ha voluto pronunciare il nome del miserabile assassino di Denver. La condanna all’anonimato come punizione massima per chi è disposto a qualunque nefandezza pur di uscirne. Giusto. Così giusto che fa riflettere, per esteso, sull’equivoco esiziale che guasta i sogni della società massificata: la totale confusione tra fama e valore. Si ritiene che se non si è famosi non si esiste, non si vale, ma è un falso spaventoso, è il padre di tutti i falsi. Ci sono evidenti casi di famosi farabutti e di famosi imbecilli; e di persone il cui valore, anche grande, è conosciuto da pochi, e tra quei pochi loro stessi. Ho sentito Benigni, in Santa Croce a Firenze, a commento del canto Undicesimo, dire che il lavoro umano prosegue il lavoro di Dio. Ho pensato al “lavoro ben fatto” di Primo Levi, ai tanti (e sempre più rari) esempi di persone felici del loro fabbricare, creare, mettere ordine, disporre in giustezza le cose. Il loro valore è inestimabile, e non importa quanti lo sanno (lo sa Dio, direbbe il poeta). Se si riuscisse a fare capire questo – che il valore è più della fama – ai miliardi di anonimi e ai milioni di frustrati, ci sarebbe qualche pazzo infelice di meno, e qualche traccia in più della potenza umana.
LA REPUBBLICA del 4 settembre 2012
Finché siamo noi della sinistra incanutita, a borbottare contro la dittatura dei mercati finanziari, possiamo anche credere di star ripetendo le solite vecchie solfe, come ufficiali in congedo nel loro circolo polveroso. Ma quando è la signora Merkel a dire che i mercati finanziari «non sono al servizio del popolo perché negli ultimi cinque anni hanno consentito a poca gente di arricchirsi a spese della maggioranza”, aggiungendo che “non bisogna consentire ai mercati di distruggere i frutti del lavoro della gente”, beh, ci sentiamo un poco rinfrancati. Forse alcune delle fole novecentesche attorno alle quali ci siamo formati — per esempio che il lavoro degli esseri umani deve avere più valore della speculazione, per il semplice fatto che vale di più — andrebbero rivalutate, visto che seducono anche una valorosa scampata al comunismo della Ddr, nemicissima dell’economia pianificata e statalizzata, leader autorevole del liberismo applicato. Non per tartufismo, ma per evidente comodità tattica, di qui in poi potremmo sempre aggiungere ad ogni critica ai mercati finanziari una postilla invincibile: “Credete che l’abbia detto Nichi Vendola? Macché! L’ha detto la Merkel”.