LA REPUBBLICA del 7 aprile 2011
Bastano cinque secondi dello scorso "Ballarò" a riassumere alla perfezione la situazione italiana. Un giornalista (Mieli) dice: "Non è vero che Berlusconi ha comperato una villa a Lampedusa". Un ministro (Fitto) risponde: "Ma voi avete l´ossessione di Berlusconi!". Il giorno dopo uno dei cento avvocati di Berlusconi (Ghedini) chiosa: "Non l´ha comperata, però la comprerà". Se ne deduce: 1 – Che la realtà e la verità, per Berlusconi, sono solo un impiccio provvisorio, comunque subordinabile ai suoi desideri e al suo denaro. 2 – Che farlo notare espone alla critica non Berlusconi, ma chi lo fa notare. 3 – Che questa critica si è consolidata in una efficace formula, "ossessionati da Berlusconi" (ma anche, tout court, "antiberlusconiani") che fa ricadere sui perseguitati l´implacabilità del persecutore: se uno ti taglia ogni mattina le gomme della macchina e tu te ne lamenti, significa che vivi nell´assurda ossessione di avere una macchina con le gomme intatte. 4 – Che il sistematico ribaltamento della logica è efficace: molti di noi "ossessionati", per la grande stanchezza di sentircelo rinfacciare ogni giorno, a volte, pur di non morire di noia, cambiamo argomento. 5 – Che la realtà (Berlusconi non ha comperato una villa a Lampedusa, anche se potrebbe comprarla) è la sola vera vittima di questo patologico gioco delle parti.
LA REPUBBLICA del 12 aprile 2011
Il comizietto irato del premier all´uscita di Palazzo di Giustizia rimanda, con impressionante precisione, al finale del Caimano di Nanni Moretti. Non fosse per quei palloncini azzurri che dondolavano al sole, in un surreale anticipo di estate. Chi ha sbagliato? Moretti, che ha immaginato la scena in un notturno plumbeo, goyesco, o il Caimano, che l´ha poi realizzata in una luce smagliante, da dejeuner sur l´erbe? Diciamo che diventa decisivo lo sguardo dello spettatore. Per gli italiani angosciati e stremati dalle grida e dalle minacce di Berlusconi, appare nero qualunque esito. Per quegli altri italiani, che circondano festanti il loro Cristo da convention, anche il gesto più sovversivo, la frase più violenta appaiono un viatico di libertà e letizia, una Pasqua di resurrezione. E poiché sono stati proprio loro, fino adesso, a realizzare il copione, è ovvio che a vedere nero siamo solo noi, che dietro quei palloncini infantili scorgiamo i fantasmi dell´impunità, della rivolta anti-repubblicana e di un consenso sordo a ogni dubbio. Una spaccatura così drammatica non ha eguali se non nella guerra civile tra fascisti e antifascisti. Solo che le due Italie di oggi non sono due fazioni contrapposte, sono – peggio – due realtà inconciliabili. Una con i palloncini azzurri, l´altra che li vede neri come la pece.
Michele Serra da La Repubblica del 7 marzo 2010
Avrei bisogno anche io di un «decreto interpretativo» che mi chiarisse, finalmente, perché ho sempre pagato le tasse. Perché passo con il verde e mi fermo con il rosso. Perché pago di tasca mia viaggi, case, automobili, alberghi. Perché non ho un corista vaticano di fiducia che mi fornisca il listino aggiornato delle mignotte o dei mignotti. Perché se un tribunale mi convoca (ai giornalisti capita) non ho legittimi impedimenti da opporre. Perché pago un garage per metterci la macchina invece di lasciarla sul marciapiede in divieto di sosta come la metà dei miei vicini di casa. Perché considero ovvio rilasciare fattura se nei negozi devo insistere per avere la ricevuta fiscale. Perché devo spiegare a chi mi chiede sbalordito «ma le serve la ricevuta?» che non è che serva a me, serve alla legge. Perché non ho mai dovuto condonare un fico secco. Perché non ho mai avuto capitali all’ estero. Perché non ho un sottobanco, non ho sottofondi, non ho sottintesi, e se mi intercettano il peggio che possono dire è che sparo cazzate al telefono. Io – insieme a qualche altro milione di italiani – sono l’ incarnazione di un’ anomalia. Rappresento l’ inspiegabile. Dunque avrei bisogno di un decreto interpretativo ad personam che chiarisse perché sono così imbecille da credere ancora nelle leggi e nello Stato.
LA REPUBBLICA del 15 aprile 2011
"Le Brigate Rosse usavano il mitra, i magistrati il potere giudiziario". Così disse il premier ai giornalisti stranieri, e perfino nel frastuono forsennato delle sue parole, e delle urla pro e contro che gli fanno cerchio, l´orribile paragone riesce a fare spicco per la sua sconcia stupidità. Uno sputo in faccia per chi in quegli anni vide magistrati cadere sotto il piombo brigatista (i giudici Galli e Alessandrini, il vicepresidente del Csm Bachelet), per i loro familiari, per gli italiani che di quel martirio hanno forte memoria. "La magistratura è un´associazione con finalità eversive", dice ancora: e di mestiere farebbe l´uomo di Stato, pensate un pò. Per quanto seduto sulla sua montagna di miliardi la sua voce ci arriva sempre dal basso. Non gli abbiamo mai sentito dire, in vent´anni, qualcosa di nobile o di esemplare. Solo la vanteria compulsiva del più bravo che sollecita l´applauso, o il ringhio pazzoide di chi va in tilt quando chiunque osi contraddirlo, non amarlo, non appartenergli. Un po´ per stanchezza, un po´ per noia, abbiamo imparato a simulare, in questi anni, indifferenza o silenzioso spregio di fronte all´offesa permanente che questo signore rappresenta non per la democrazia, che è troppa cosa da scomodare, ma per la decenza. Questa è una di quelle volte che l´aplomb va messo da parte: quella frase su brigatisti e magistrati fa schifo, e basta.
LA REPUBBLICA del 14 aprile 2011
Di fronte agli immigrati, avanguardia di un futuro sconosciuto e difficile, i leghisti danno in smanie, evocano le Brigate Rosse, alzano il tono già molto teso, sputano sull´Europa, invocano le armi. Su quella paura hanno campato, è stato il provvido concime del loro raccolto elettorale, del potere, del sottogoverno, degli stipendi pubblici (tanti) scuciti alla pur detestata Repubblica italiana. Ma di quella paura ora sembrano le prime vittime, come l´apprendista stregone che non sa governare ciò che ha evocato. Li fa straparlare, li rende poco lucidi, li espone allo spietato accostamento tra la potenza biblica di quelle immagini di mare, di morte, di destino, e la loro miseria verbale, così facile da rivendicare come un merito quando si tratta di "parlare come il popolo", così pesante da gestire quando sono la Politica e la Storia a chiedere campo, a pretendere grandezza, o comunque decenza, anche da quei piccoli uomini che siamo. Di fronte alla Storia siamo tutti goffi e impotenti, solo che lo sappiamo: a questo serve la cultura, a misurare la propria ignoranza. Della Storia abbiamo tutti paura, dell´immigrazione senza freni anche. Ma sbraitare sulla battigia è la sola cosa che non ci verrebbe mai in mente di fare, ad impedircelo è quel poco di vergogna che ci rimane, e il fiato è meglio tenerlo in serbo per raccogliere i cadaveri degli annegati. Specie se, come i leghisti, si è bravi cristiani.
LA REPUBBLICA del 8 aprile 2011
Il cima è così mefitico che uno, pur di migliorarlo, sarebbe anche disposto ad ascoltare le ragioni altrui. Per esempio si legge sul giornale che un deputato della Lega, Buonanno, vorrebbe imporre una tassa dell´uno per cento sulle rimesse degli immigrati. «Si tratta di otto miliardi di euro all´anno – spiega Buonanno – che frutterebbero ottanta milioni da destinare al volontariato». L´obiezione sarebbe che se l´immigrato (e il suo datore di lavoro italiano) sono in regola, quei soldi sono già tassati. Ma la proposta, messa così (soldi al volontariato) potrebbe anche essere discussa. Solo che, due righe sotto, lo stesso Buonanno definisce gli immigrati «furbi che piangono miseria qui e poi magari si fanno la casa nel loro paese». E subito si chiude lo stretto varco dell´ascolto, perché anche la migliore proposta del mondo, se servita in una salsa così guasta, condita dalla solita dose di razzismo, ha un sapore ripugnante. Nessun dialogo, nessuna collaborazione è possibile con chi fonda la sua prassi sul disprezzo sociale e sul pregiudizio etnico. Imparino a parlare la lingua della civiltà e della res publica, questi signori, e vedranno che improvvisamente le loro parole assumeranno un altro peso politico. Sono sotto esame tanto quanto gli immigrati. Ci facciano capire se hanno capito che abbiamo regole, qui in Italia, che non consentono deroghe per nessuna tribù: neanche la loro.
LA REPUBBLICA del 8 febbraio 2011
"Moralismo straccione di una plebaglia assetata di sangue", che si è radunata "per espettorare l’odio che schiuma dai loro animi". È un sunto del commento che un deputato del Pdl, il signor Osvaldo Napoli, ha voluto dedicare alla manifestazione milanese di Libertà e Giustizia, con Saviano, Eco e Zagrebelsky a capo della "plebaglia assetata di sangue", composta in buona misura dalla borghesia democratica milanese, quella che una volta votava La Malfa e leggeva Montanelli sul Corriere, e oggi, benché laica, va in Sant’Ambrogio ad accendere un cero purché Berlusconi levi il disturbo. La prosa del signor Napoli fa ridere, così come fanno ridere, classicamente, la scompostezza e la perdita di senno (la crisi nevrastenica è un classico del teatro comico). Ma fa anche riflettere. Perché esprime (anzi espettora, come direbbe Napoli) una totale, inattaccabile ignoranza delle cose, delle persone, della situazione del Paese, insomma di tutto ciò che Napoli, in quanto deputato, avrebbe necessità di conoscere. Non di condividere, naturalmente. Ma almeno di conoscere, sì. Si osserva spesso, e non è sbagliato, che la sinistra non ha più il polso del Paese. Per rintracciarlo, l’importante è che non lo chieda a Napoli.
LA REPUBBLICA del 9 aprile 2011
Con un paio di amici, ho visto Stracquadanio ad "Anno zero". Voi penserete: chissà come vi siete arrabbiati. Sbagliato. Non ne abbiamo avuto il tempo. Lo sbalordimento era soverchiante, e non lasciava spazio ad altri sentimenti. A bocca aperta, l´abbiamo visto (in pochissimi minuti) interrompere, sghignazzare, consultare l´iPad, correggere gli astanti, litigare con i distanti, borbottare, emettere sibili, roteare gli occhi, ammonire Santoro, sgridare Gian Antonio Stella, prendere la parola, ridare la parola, contestare la scaletta, agitare le mani, condurre lui la trasmissione, ricostruire un cinquantennio di storia italiana, leggere, scrivere, gesticolare verso una quinta invisibile, ammutolire di colpo fissando il vuoto. Un mio amico ha detto: «adesso fa le bolle di sapone». Un altro: «no, secondo me estrae un tronchesino e si taglie le unghie». Io: «Non lo sottovalutate, vedrete che fa tutte e due le cose: si taglia le unghie facendo le bolle di sapone». Siamo rimasti incollati al televisore coscienti di essere spettatori di una performance storica, senza eguali, tipo Italia-Germania 4-3 o le nozze di Carlo e Diana. Non chiamatelo "provocatore". È una funzione banale, eseguibile da qualunque scagnozzo o figurante. Stracquadanio, da ieri sera e per sempre, per me è un artista.
LA REPUBBLICA del 9 febbraio 2011
Ben più delle bottiglie vuote lanciate contro la polizia "per difendersi dalle cariche", pesa sugli incidenti di Arcore la bottiglia (piena di spumante) inalberata in segno di giubilo da un ragazzo dopo la scarcerazione dei suoi due compagni (la foto è apparsa su quasi tutti i quotidiani italiani). Un festeggiamento privato, stentoreo e fuori luogo, che cozza contro la pubblica malinconia per una manifestazione, l’ ennesima, salita alla ribalta non per le sue intenzioni, ma per il suo esito brutale, con pochi che si menano, molti che assistono e maledicono, espropriati delle loro ragioni da piccoli manipoli bellicosi. (L’ estremismo è prima di tutto una forma di privatizzazione della politica). Bene che i due ragazzi siano fuori, le galere sono già sovraffollate. Male la gongolante sottolineatura di un incidente civile (tale è sempre un processo per "violenza e resistenza a un pubblico ufficiale") che non costituisce titolo di merito per alcuno, né per i manifestanti né per i poliziotti. Anche nel cosiddetto "antagonismo" (molto spesso uno status del tutto auto-proclamato) dovrebbe esserci uno stile. Per le sbracature, gli sbocchi d’ ira e di autocommiserazione e di autocompiacimento, ci sono già le curve degli stadi. Niente brindisi, per cortesia, quando si parla di botte in testae pugni in faccia, non importa se inferti o subiti.
LA REPUBBLICA del 13 aprile 2011
Un paio di giorni fa il Giornale ha pubblicato l´ennesima inchiesta sulle trasmissioni "comuniste" della Rai, per la serie "ma quanto ci costano". Solo che, dando un´interpretazione molto disinvolta della famosa economia di mercato che (secondo loro) tutti ci rende liberi e felici, ha omesso di aggiungere ai costi anche i ricavi pubblicitari: che, per la cronaca, sono largamente superiori ai costi. La Rai, con quelle trasmissioni, guadagna fior di quattrini, ma i lettori del Giornale non lo sapranno mai. Fin qui, niente di nuovo sotto il sole. Normale disinformazione di lettori, per loro sventura, felici di essere disinformati, purché ciò che leggono coincida con le loro passioni politiche. Quello che fa un po´ specie, piuttosto, è che la Rai, pur disponendo di un sontuoso ufficio stampa, non abbia immediatamente provveduto a un´immediata nota di replica. Non esiste azienda al mondo (tanto più un´azienda pubblica) che, accusata di scialo, non si senta in obbligo di difendersi, specie se lo scialo in questione non solo non è tale, ma è una voce attiva del bilancio. Ma la Rai, o ciò che ne rimane, è ancora un´azienda? Chi lavora per lei ne è convinto, ed è felice che il suo successo sia anche un successo della Rai. Evidentemente non c´è reciprocità: e ogni attacco politico a Fazio, Santoro, Gabanelli, Floris (dunque alla Rai), trova alla Rai complici entusiasti.