LA REPUBBLICA del 25 marzo 2011
Con una scelta furbissima (la furbizia è la virtù di chi non ne possiede altre), il governo ha restituito qualche milione di euro a cultura e spettacoli caricandoli sul prezzo della benzina. Dando così modo al Giornale di sparare in prima pagina il ridicolo titolo "Benzina più cara? Colpa di Nanni Moretti", che aggiunge alla montagna d´odio accumulata negli anni contro la "cultura radical chic" una ulteriore cucchiaiata di cacca. Se a questo piccolo sfregio si aggiunge la nomina ai Beni Culturali di Giancarlo Galan, che può anche essere un genio della politica ma con i problemi della cultura ha la stessa dimestichezza che io ho con la cibernetica, si completa un quadro agghiacciante. La nomina non è stata fatta perché serviva un ministro dei Beni Culturali, è stata fatta perché serviva dare un ministero qualsivoglia a Galan (così come serviva dare un ministero, quello dell´Agricoltura, alla famelica pattuglia dei Responsabili: la cosa pubblica usata come moneta politica). Siamo di fronte alla somma aritmetica del peggio della Prima Repubblica (strapotere dei partiti) e del peggio della Seconda (strapotere dei mediocri). È una somma il cui risultato è zero per il Paese, molto per i suoi padroni politici.
LA REPUBBLICA del 5 aprile 2011
Dice il luogo comune che solo nei momenti di crisi gli italiani sanno dare il meglio. Se ne deduce che no, non siamo in crisi, visto che è il peggio quello che ciascuno continua a esibire. Berlusconi, da quando è sotto processo per storie di prostituzione, sciorina compulsivamente una serie di barzellette sconce, retrocedendo dal suo trend abituale (l´avanspettacolo) a un gradino sotto (coscritti in visita di leva). La Lega, alla quale il 17 marzo non ha insegnato nulla, presenta un progetto di legge sugli "eserciti regionali" che è la malacopia arrogante di precedenti sortite su ronde, "battaglioni padani" e affini. E un suo senatore, tale Stiffoni, recita a Radio 24 un rosario di banalità razziste che sta facendo il giro del web. L´opposizione, dalla quale si attende disperatamente un segno solenne e innovativo di unità, è una galassia destrutturata di alleanze impossibili e di progettini fantasiosi, con quattro "nuovi centri" (Fini, Rutelli, Casini, forse Montezemolo e avanti il prossimo) e una sinistra spaccata al suo interno come e più di prima, con leader nuovi e vecchi che antepongono la disistima reciproca e la lotta intestina a qualunque possibile bene comune. E dunque, non c´è niente da preoccuparsi. Fossimo davvero in crisi, l´ignobile e il rissoso muterebbero in nobile e pensoso. Quando il premier riuscirà a partecipare a una riunione senza sghignazzare su culi e tette, vorrà dire che siamo entrati ufficialmente in crisi.
LA REPUBBLICA del 10 marzo 2011
Potessi avere la soluzione di uno dei tanti misteri italiani, ne sceglierei uno apparentemente molto minore, ma carico di significati reconditi: l´autosospensione del ministro della Cultura Sandro Bondi. Da circa tre mesi è chiuso in casa, esacerbato e offeso dall´ostilità dell´opposizione ma anche – si dice – da gravi incomprensioni con la sua parte politica. Non va a lavorare, vuole dimettersi ma non si dimette (né viene dismesso), e questo è già sbalorditivo perché scardina ogni regola e ogni convenzione tra un salariato (Bondi) e i suoi datori di lavoro (noi cittadini contribuenti). Ma ben al di là di questo scandalo "tecnico", si intuisce nel caso Bondi un travaglio umano che, se spiegato, potrebbe darci qualche prezioso elemento in più per capire quella sorta di incantesimo collettivo che chiamiamo berlusconismo. Devoto tra i devoti, innamorato del suo Capo con un trasporto tanto assoluto e indifeso da disarmare molti dei potenziali detrattori, quest´uomo passionale e vulnerabile si è dato improvvisamente alla fuga, disertando un impegno politico (Bondi è anche uno dei tre coordinatori nazionali del Pdl) che pareva ferreo. Che gli è accaduto? Da chi e da che cosa fugge? Sapesse mai spiegarcelo, un giorno anche lontano, sono sicuro che capiremmo molte cose di questi anni, così spiacevoli, così illeggibili.
LA REPUBBLICA del 6 marzo 2011
Nell’ asfissiante pressing che gli uomini del governo infliggono alla Rai, e alle persone che per la Rai lavorano e alla Rai portano ascolti e quattrini (Gabanelli, Santoro, Floris, Fazio, Dandini e a chi tocca tocca), c’ è un aspetto particolarmente grave e particolarmente insopportabile. Nessuno di questi censori, regolamentatori, suggeritori ha ombra di titolo professionale per dare lezioni di televisione a persone che la televisione la fanno – e bene – da una vita. Non ne sanno niente, e se discettano di un prodotto della cui natura e della cui fattura ignorano tutto, è solo in virtù di un mandato politico. Sono, di fatto, pretoriani di partito che fanno irruzione in una fabbrica pretendendo (come fa l’ onorevole Butti con la sua ridicola proposta di “alternanza dei conduttori”) di insegnare alle maestranze di quella fabbrica come si lavora. E il colmo è che accusano di “politicizzazione” (proprio loro, che senza un mandato politico in Rai non potrebbero mettere piede nemmeno come figurante) interi pezzi di palinsesto, guarda caso tra i più premiati dagli ascolti. La pura veritàè che del prodotto non gli importa un fico, e anzi (vedi il caso di “Vieniviaconme”) li rattrista un’ impennata di ascolti che, fossero davvero interessati ai destini della Rai, dovrebbe farli felici. Al di là del tentativo di controllo politico, quando li senti parlare lasciano l’ impressione di mediocri che odiano i meritevoli.
LA REPUBBLICA del 11 marzo 2011
Il reclutamento di Ferrara e (forse) Sgarbi nei palinsesti Rai è una buona notizia, perché aggiunge due voci non banali all´offerta televisiva. Chi non li sopporta (e sono in tanti) potrà rimediare con l´arma finale di ogni teleutente: cambiando canale.
Ma la buona notizia è fortemente condizionata dalle altre scelte della televisione pubblica. Se ai due nuovi ingressi dovessero corrispondere, come è nell´aria, epurazioni e soppressioni di programmi considerati «di sinistra», Ferrara e Sgarbi si troverebbero in una detestabile condizione: quella di rimpiazzi filogovernativi che vanno a maramaldeggiare su un campo di battaglia coperto dai cadaveri dei vinti. In una Rai già pesantemente berlusconizzata (i dati dell´Osservatorio di Pavia sui tigì di gennaio sono raccapriccianti) la puzza di regime sarebbe asfissiante, e definitiva. È quanto chiedono di fatto, con ottusa ferocia, giornali e giornalini di destra, catalizzatori, da anni, di un odio ideologico e perfino fisico per i cosiddetti "conduttori comunisti", in pratica tutti coloro che hanno il torto di non controfirmare le veline di governo. In un paese di sana costituzione democratica (e di davvero libero mercato) la sfida sarebbe solo sul terreno degli ascolti e dei risultati professionali. Poiché quel terreno, per i "conduttori comunisti", è stato fin qui vincente, restano, per combatterli, la delegittimazione giornalistica e il bavaglio politico.
LA REPUBBLICA del 19 marzo 2011
Ho letto con disagio l´articolo-denuncia di Agnes Heller (Repubblica di ieri) sull´odiosa campagna di discriminazione e diffamazione che il governo ungherese (destra nazional-populista) ha scatenato contro gli intellettuali. Il disagio deriva dal silenzio quasi assoluto che, almeno qui in Italia, ha circondato gli atti politici e le parole del premier ungherese Viktor Orban contro giornalisti, intellettuali, artisti, filosofi, accusati (incredibile ma vero) di "liberalismo" e dunque di "antipatriottismo", nonché di abusare di fondi pubblici immeritati. In particolare quest´ultima accusa dovrebbe esserci familiare, visto che anche in Italia è in atto uno strisciante Kulturkampf (definizione della Heller) che tende a declassare il ruolo della cultura e a spregiarne la funzione critica, che è la sua funzione sociale per eccellenza. Le campagne contro il "culturame" sono un classico di tutte le destre populiste e para-fasciste. L´Ungheria è vicina, è Europa, ed è all´Europa, cioè a noi tutti, che Heller si rivolge con accorata passione. In quel paese è in atto un maccartismo in piena regola, che tende a classificare gli intellettuali a seconda del loro presunto "patriottismo", punendo e isolando i reprobi. Sarebbe bene scriverne più spesso.
LA REPUBBLICA del 30 marzo 2011
Già è stato sottolineato che alla prèmiere di Berlusconi a Palazzo di Giustizia c´erano più giornalisti, fotografi e cameraman che pubblico. Pochi figuranti (un´ottantina pro-Silvio, venti contro) per una troupe così cospicua, che magari sperava di potere immortalare "dal vero" la scena finale del Caimano, con la città in fiamme mentre Lui scende ghignando i gradini del tribunale; e invece si è trovata davanti a una sparuta filodrammatica di massaie osannanti. Dev´essere per rimediare a questo fiasco mediatico che l´avvocato Ghedini ha preparato un cast di testimoni quasi strepitoso, Clooney e la Canalis, Belen senza Corona, la povera Carfagna che cerca invano di essere nominata in quanto ministro e non in quanto Carfagna. Udienze noiosissime potranno così diventare appetibili anche per il popolino televisivo, promosse a spettacolo e dunque sottratte al solito tran-tran della realtà e impacchettate per il Silvio-show. Il copione della giustizia non ha abbastanza appeal per lui, che come la Wandissima si aspetta di scendere tra due ali di boys (i suoi avvocati) e guadagnare il proscenio in un tripudio di fiori, baci, gratitudine. Peccato, solo, per quelle grigie stanze che odorano di vuote attese, di faldoni pieni di acari, di burocrazia. Ci vorrebbero uno scenografo, qualche luce burina ma allegra (basta chiedere a Mediaset), uno stacchetto musicale quando entra il testimone illustre. La Corte sarà disponibile?
LA REPUBBLICA del 12 marzo 2011
Leggendo sui quotidiani che gli investimenti pubblici per la banda larga sono passati in due anni da un miliardo e trecento milioni di euro a 70 milioni di euro, giuro che ho pensato a un refuso. «Saranno 700 milioni», ho pensato, e già sarebbe stato gravemente significativo un dimezzamento dei quattrini destinati a dotare anche l´Italia di una rete Internet adeguata ai tempi. Ma no, non era un refuso. Sono proprio 70 milioni. È il gruzzolo che rimane dopo ripetuti dirottamenti di fondi statali verso il digitale terrestre, cioè verso la televisione. Indipendentemente da ogni sospetto, o illazione, o documentata notizia sui destinatari del lucroso (e obbligatorio) passaggio dall´analogico al digitale terrestre, rimane l´oggettiva volontà politica di favorire la televisione rispetto a Internet. La differenza tra i due media è evidente e risaputa: la televisione è controllabile dall´alto, specie in un Paese nel quale coincidono potere politico e potere televisivo. Internet è incontrollabile, come dimostrano le recenti insurrezioni giovanili e urbane nell´Africa del Nord, in buona parte nate e alimentate in rete. Avvantaggiare la prima e ostacolare il secondo è una scelta politica di enorme impatto sul presente e soprattutto sul futuro, così come decidere di costruire autostrade piuttosto che ferrovie. Rendiamocene conto: il potere berlusconiano sta giocando, quasi tutte assieme, le carte con le quali cerca di chiudere la sua partita.
LA REPUBBLICA del 23 marzo 2011
È una vera fortuna che la carta di giornale serva per pulire i vetri. Se rimanesse memoria di quanto andiamo scrivendo lungo gli anni, non basterebbe una seconda vita per ridare ordine e coerenza a quello che abbiamo messo nero su bianco nella prima. Prendete l´animosa Maria Giovanna Maglie, che ai tempi della guerra in Iraq fu accesa interventista, e praticamente invase di persona quel paese alla testa dell´esercito americano. Scrisse pochi anni fa (e un perfido giornalista del Corriere ha riesumato quell´articolo) che l´Iraq era «un paese infelice, piagato dalla tortura, dallo spionaggio, dalla negazione di qualunque libertà personale, e il denaro del petrolio serviva ad arricchire Saddam e la sua famiglia». Dunque era giusto schiacciare il dittatore come uno scarafaggio. Oggi, a proposito di Gheddafi, Maglie scrive su Libero: «Garantiva pace, sicurezza, buoni contratti, sicurezza negli sbarchi, era un interlocutore privilegiato e un avversario dei fondamentalisti». Dunque attaccarlo è un grave errore. Meno ferrato della Maglie, la sola differenza sostanziale che riesco a cogliere, tra Saddam e Gheddafi, è che il primo è stato attaccato da Bush, il secondo da Obama. Tanto deve bastare, allo sguardo acuto di Maglie, per stabilire quando una guerra è santa, quando una porcheria.
LA REPUBBLICA del 23 giugno 2011
Giornali, radio e tivù pullulano di analisi e riflessioni sulla Lega e della Lega, quasi tutte tendenti a individuare nel "tradimento" della spinta originaria, e nella contaminazione con il berlusconismo, il potere e altre mollezze romane la causa della crisi. Sarà pure. Ma basta sentir parlare Borghezio o Boso (l´altra sera a Radio 24), e udire alcune delle loro ripugnanti digressioni razziste, per capire che forse "tornare alle origini" non basterebbe, ove quelle origini fossero incarnate da quella bruta espressione di grettezza umana e aggressività politica che hanno contribuito in buona parte a disgustare elettori potenziali e moderati. Allo stesso modo rifletterei sulla scuola (pubblica) di Adro usata come zerbino di partito, e su quanto la parola "secessione", rispolverata a Pontida come una panacea, abbia contribuito a costruire, negli anni, la reazione di massa dell´opinione pubblica del Nord, e lo straordinario successo delle celebrazioni del centocinquantenario, che si sono trasformate in una vera festa di popolo. La Lega è minoranza anche "a casa sua", e lo è diventata perché il suo obiettivo fondante (la secessione) è animosamente osteggiato dalla grande maggioranza dei settentrionali. Questa è la durissima realtà sulla quale ugualmente dura è la riflessione. Molti auguri.