LA REPUBBLICA del 7 settembre 2012
Il codazzo di fotografi, cameramen e cronisti che fa da scorta a Nicole Minetti costituisce, in sé, una delle prove più schiaccianti della mancanza di dignità e di libertà del sistema mediatico così come ci illudiamo di gestirlo e così come lo stiamo subendo, per metà impotenti e per metà complici. Non c’è persona di buon senso, di qualunque orientamento ideologico e livello culturale, che non ritenga futile e dannoso dedicare tempo, tecnologia, parole e pensieri a una figuretta minore della nostra scena pubblica che è stata, a suo tempo, co-protagonista di uno scandalo di regime e oggi è protagonista di niente. Con la sola e spiegabile eccezione della stessa signorina Minetti, nessuno ha interesse a tenere acceso anche un solo riflettore su di lei. Se questo avviene è solo perché il potere (anzi: il dovere) di scegliere che cosa mostrare, di che cosa parlare è progressivamente venuto meno fino a scomparire dentro l’alibi – davvero ignobile – che bisogna “dare alla gente quello che vuole”: ma la gente legge e clicca ciò che le viene offerto, non altro. Non è la gente che fabbrica le notizie, sono i media. Anche il più scalcinato dei bancarellai ha facoltà di decidere quali merci esporre. I media sono gli unici commercianti che danno sempre al cliente la colpa della loro merce avariata.
LA REPUBBLICA del 22 settembre 2012
Le tifoserie ultras sono entrate a fare parte quasi istituzionalmente della gestione del calcio italiano. Impartiscono punizioni (vedi il giustamente celebre sequestro delle maglie dei giocatori del Genoa), orientano le campagne acquisti (alcune tifoserie non gradiscono giocatori “negri”) e ieri, a Milanello, una loro delegazione è stata ufficialmente ricevuta dallo staff tecnico della squadra di proprietà dell’uomo più ricco d’Italia per discutere “come uscire dalla crisi”. Una lettura (molto) ottimista potrebbe far pensare a una pagina particolarmente intensa delle insorgenze anti-casta, con il popolo che intende fare piazza pulita e sbrigare in proprio l’esercizio del potere. Si devono però onorare le drastiche regole di salute pubblica invocate dalle piazze in rivolta. Per esempio, ci sono capi-curva ormai incanutiti e con le tonsille logore, avendo cominciato a urlare “siete delle merde” alla curva opposta quando governava Andreotti. Non va bene. Due mandati al massimo, dunque due campionati, poi si lascia il posto a energumeni più giovani. E poi, ovviamente: i rappresentanti del popolo devono essere incensurati! Misura che, da sola, basterebbe a dimezzare il numero dei capi ultras e dunque a ridurre di molto le spese di trasferta.
LA REPUBBLICA del 11 settembre 2012
In tempi non allegri, devo ringraziare la cantante Rihanna per avermi regalato un istante di buonumore. Aggirandomi svogliato tra le notizie on-line, settore minutaglie, nel tentativo di scampare al cupore della giornata politica, vedo un titolino che annuncia “il nuovo tatuaggio hot di Rihanna”. Accompagna un’immagine molto strana: il tatuaggio (la dea Iside, roba forte) sembrerebbe impresso su un arrosto di lonza, o su una confezione di petti di tacchino, comunque su una massa carnosa irriconoscibile a prima vista. Dovendo trattarsi della stessa Rihanna, chiedo aiuto alle persone che mi circondano. Nasce dibattito. “Sono le chiappe”, “no, è l’interno delle cosce”, fino a un inverosimile “forse è un’ascella”. Solo ingrandendo l’immagine, e dopo una minuziosa analisi anatomica, si capisce che la vecchia Iside è sistemata subito sotto il seno, parzialmente coperto da un avambraccio. Spiega la dida che Rihanna ha postato essa stessa l’immaginetta su Twitter. Con tutto il rispetto per l’ammirevole orizzontalità del web, se i risultati sono così modesti, e diciamo poco espressivi, ridateci il buon vecchio eros a pagamento: fatto, voglio dire, da fotografi professionisti in appositi studi e con le luci giuste. Costa? Sì. Ma il gratuito è la porta del brutto, e il brutto è la porta del Male.
LA REPUBBLICA del 25 luglio 2012
La legge quadro per la difesa dei suoli agricoli e contro la folle cementificazione del territorio italiano (presentata dal ministro per l’Agricoltura Catania) è così importante, così giusta, così necessaria che difficilmente riuscirà a trovare applicazione. Lo so, sono pessimista, e di fronte alle cose giuste bisognerebbe sempre fare festa. Ma è davvero troppo tempo, nel nostro Paese, che la categoria del “giusto” è trascurata e negletta, resa sinonimo di “impossibile” dal cinismo e dalla mediocrità imperanti. Mi perdonerà Carlo Petrini, tra i pochi a usare la parola “giusto” come se avesse un peso politico, e per questo trattato da utopista o da minoritario da politici spocchiosi e ciechi. Ma io non ci credo, che un ministro per giunta “tecnico”, per giunta a termine, possa avere la meglio contro l’orda famelica degli speculatori, i lobbisti del cemento, l’ignoranza crassa della maggior parte di una classe politica che di territorio, di difesa dei suoli, di agricoltura ignora tutto o quasi, salvo andare a stringere la mano ai sopravvissuti quando frane e alluvioni squassano i nostri crinali abbandonati e i nostri fondovalle depredati. Mi auguro, con tutto il cuore, di avere torto. E che una cosa giusta, solo perché è giusta, possa accadere, possa vincere.
LA REPUBBLICA del 3 agosto 2012
Parafrasando un vecchio e beffardo slogan del femminismo: il centrosinistra senza Di Pietro è come un pesce senza la bicicletta. Non c’è neanche bisogno di rivangare la sciagurata elezione in Parlamento di Scilipoti, De Gregorio e Razzi, tutti in quota all’Idv prima di animare, ciascuno a modo suo, sgangherate avventure di sottopotere. Anche se la sua conduzione del partito fosse stata impeccabile, Tonino Di Pietro rimarrebbe un populista di destra, e se il suo distacco dal centrosinistra diventasse definitivo ci troveremmo semplicemente di fronte alla fine di un lungo equivoco. Meno semplice è capire che fine faranno i suoi non pochi elettori, molti dei quali profondamente convinti di essere di sinistra, anzi: molto più di sinistra di Bersani e di Vendola. Difficile che si accontentino della sinistra così com’è, piena di limiti e incertezze e soprattutto storicamente legata a un lealismo repubblicano che diffida molto dei facili bollori anti-sistema. Seguiranno Tonino nei territori incerti di un’opposizione “né di destra né di sinistra”, già ben presidiato dalle Cinque Stelle? Preferiranno, già che ci sono, Grillo? Si asterranno? Cercheranno nella destra radicale nuovi appigli contro le detestata Casta? Non è facile, per i duri e puri, trovare un partito alla loro altezza.
LA REPUBBLICA del 12 settembre 2012
“Riparare il mondo”, scriveva Alex Langer (vedi la bella pagina che Adriano Sofri gli ha dedicato su Repubblica di ieri). Oggi che il nostro modello di sviluppo appare infartuato, e si parla di crisi di sistema, le persone come Langer (e come Laura Conti, Antonio Cederna, Aurelio Peccei, fondatori dell’ambientalismo italiano) ci sembrano davvero profeti inascoltati. Se prima qualcuno poteva illudersi che per creare posti di lavoro si dovessero ferire terra, acqua e aria, e sperperare paesaggio, oggi ci accorgiamo che rovina ambientale e caduta dell’occupazione sono, in un paese come il nostro, facce della stessa medaglia. E che “riparare il mondo”, come chiedeva Langer, qui in Italia non è solo una missione culturale e politica; è anche, se non soprattutto, una gigantesca occasione di nuovo lavoro, nuova economia, nuovo e diverso sviluppo. Come tantissimi italiani non so ancora per chi votare, quando sarà il momento. Ma cercherò di votare per chi, più degli altri, si avvicina al concetto di “riparare il mondo”. Bloccando la cementificazione folle e sterile, la corsa stupida alla “crescita”, e dunque crescendo davvero.
LA REPUBBLICA del 29 agosto 2012
L’idea di un’umanità solo vegetariana (vedi le “proiezioni” riportate ieri da Enrico Franceschini su questo giornale) ha qualcosa di integralista, e tra l’altro riconduce ai nefasti tabù alimentari che quasi ogni religione adotta. E tuttavia non c’è persona sensibile e informata che non si renda conto del rovinoso dominio che l’Impero della Carne esercita sul pianeta. Quel vero e proprio ossimoro che è l’agroindustria (tabula rasa del mondo vegetale per trasformare i campi in mangimifici per gli allevamenti intensivi) sarebbe costretta ad arretrare di qualche milione di ettari se il consumo di carne si riducesse. Mangiare meno carne ridarebbe fiato alle biodiversità, ostacolerebbe la diffusione degli Ogm (che per l’agroindustria sono nati, e fuori dall’agroindustria quasi non hanno mercato), aiuterebbe l’agricoltura e i contadini a riacquistare centralità, autodeterminazione, peso economico e politico. La selvaggina (non si adombrino gli anti-caccia) è infinitamente più salubre e più “etica” della carne da allevamento intensivo. Piccola bibliografia: “Il dilemma dell’onnivoro” di Michael Pollan e “Se niente importa” di J. S. Foer.
LA REPUBBLICA del 14 settembre 2012
Breve sunto dei pensieri e dei dubbi di un probabile elettore alle probabili primarie del centrosinistra. Bersani è una persona seria, competente e anche simpatica, ma è troppo legato alla cultura produttivista del Novecento e all’ossessione della crescita. Renzi è tosto e ha ragione da vendere quando accusa il paese (e il Pd) di essere castali e gerontocratici, ma ancora non ho capito che idea di società ha in testa, ammesso ne abbia una. Vendola ogni volta che parla mi fa capire che senso ha essere di sinistra, ma vederlo in fotografia con Diliberto e Ferrero mi fa dubitare delle sue capacità di stare in un governo senza sfasciarlo. Tabacci è bravo e intelligente, quando lo vedo da Gad Lerner sono tanto contento, ma con il centrosinistra che accidenti c’entra? Laura Puppato (vedi intervista a Concita De Gregorio, Repubblica di ieri) è l’unica donna e il suo programma è di gran lunga la cosa più intelligente, bella e consolante fin qui udita, ma fino a ieri l’altro non sapevo chi fosse e un dalemiano chiederebbe: quante divisioni ha Laura Puppato? Classifica (del tutto personale, nonché aggiornabile): prima Puppato, secondi ex aequo Bersani e Vendola, quarto Renzi, fuori concorso Tabacci.
LA REPUBBLICA del 30 agosto 2012
Per i minatori del Sulcis è un (meritato) trionfo mediatico, anche a prescindere dal piccolo dramma in diretta, la lama sul polso, le urla, il trambusto. Quasi impossibile trovare un giornale che non ne parli bene, compresi quelli di destra. Noi commentatori, sapete, riconosciamo al volo il fascino “letterario” della miniera; così come ci piacque raccontare delle proteste d’alta quota, su gru e torri, lavoratori autosospesi tra terra e cielo; e di quegli altri sardi al confino all’Asinara, così tenaci e così spiritosi da fare la parodia dei talkshow, e definirsi “l’Isola dei cassintegrati”. Poi però, se proviamo a fare un bilancio non mediatico ma sindacale, non virtuale ma sociale, il discorso cambia. E cambia parecchio. Chi prende le decisioni – quelli che una volta si chiamavano i padroni – bada ben poco all’opinione dei giornali. Grandi popolarità mediatiche (pensate alla lotta dei minatori inglesi, che divenne anche epopea cinematografica) si sono poi tradotte in pesanti sconfitte sul campo del lavoro. Spiegava Marx la differenza tra la struttura (i rapporti di produzione, l’ossatura della società) e la sovrastruttura. Noi dei media siamo la sovrastruttura.
LA REPUBBLICA del 19 settembre 2012
I salafiti non lo sanno, e probabilmente non se ne accorgeranno nemmeno a cose avvenute: ma il vero “attacco all’Islam”, da parte dell’Occidente impuro e corrotto, non verrà da altri filmetti blasfemi o nuove vignette irriverenti. Verrà da un kolossal coprodotto dal Qatar e da un potente produttore americano (lo stesso di “Matrix” e “Il signore degli anelli”), una trilogia da quattrocento milioni di dollari con la benedizione di autorevoli studiosi islamisti, congegnata nel rigoroso rispetto della legge coranica e con lo scopo, virtuosissimo, di ristabilire la verità su Maometto, la sua biografia autentica, il suo ruolo (certificato nei titoli di coda) di portatore della Verità. La macchina mitologica americana è implacabile: ne sortirà – si accettano scommesse – un Profeta supereroe, qualcosa tra Batman e Lawrence d’Arabia, e infine la globalizzazione sarà riuscita a neutralizzare anche Maometto, dopo il povero Cristo trasformato da Mel Gibson in una star del genere horror. Nessuno come l’uomo contemporaneo (non importa se un salafita del Cairo o un ateo di Manhattan) è in grado di capire le ragioni profonde dell’iconoclastia.