LA REPUBBLICA del 17 luglio 2013
I rapporti fra i due scrittori negli atti di un convegno a Toronto
PAOLO MAURI
Come in un “castello dei destini incrociati” l’Università di Toronto ha organizzato l’anno scorso un convegno intitolato «Tra Eco e Calvino» di cui ora escono gli atti con l’insegna “Relazioni rizomatiche”: insomma un’esplorazione delle radici evidenti e nascoste comuni ai due scrittori. Ne nasce un percorso articolato che Eco apre rivelando la sua predilezione antica per Il barone rampante letto nel 1957, quando aveva venticinque anni. Calvino aveva preso spunto da una storia raccontata dallo scultore Salvatore Scarpitta, che un bel giorno era salito su un albero e aveva deciso di rimanerci il più a lungo possibile. Se la storia di Scarpitta l’avesse presa in carico uno scrittore alla Mark Twain sarebbe rimasta fortemente americana, in sostanza la bravata di un ragazzo che stabilisce i suoi primati nel giardino di casa, invece Calvino l’aveva retrodatata al Settecento e legata all’Illuminismo, facendo di Cosimo un filosofo che cambia la prospettiva da cui guar- dare il mondo. È proprio quest’aspetto, insieme alla lingua cristallina di Calvino, ad affascinare il giovane Eco, che presto Calvino avrebbe incoraggiato a scrivere Opera aperta. Lo scopo del convegno, avverte il coordinatore Rocco Capozzi nella sua introduzione, «non è mai stato quello di voler dimostrare un Eco lettore di Calvino o viceversa… io partivo dall’idea di mettere a confronto l’intelligenza creativa che si manifesta nelle loro pratiche di lettura e scrittura». E, possiamo aggiungere, anche di traduzione. Renato Giovannoli documenta la precoce penetrazione di Borges nei dintorni del 1960 presso Sciascia, Eco e Calvino con la probabile aggiunta di Buzzati. Il punto di partenza è la traduzione di Ficcionescon il titolo La biblioteca di Babele nel numero 43 dei Gettoni di Vittorini. Siamo nel 1955. È probabile che Sergio Solmi avesse letto il libro in francese (era uscito da Gallimard nel ’51) e lo avesse consigliato a Einaudi per la traduzione italiana affidata a Franco Lucentini. Eco stesso ha ricordato di aver avuto da Solmi il consiglio di leggere quel libro una sera in piazza Duomo a Milano nel ’56 o ’57. Einaudi, aveva aggiunto Solmi, ne ha venduto meno di cinquecento copie. Sono gli anni in cui matura il Diario minimo dove Eco sviluppa il gusto per la parodia e l’invenzione bibliografica, giocando con strumenti critici molto raffinati per commentare magari i versi delle canzonette. Gli fa da guida ideale il Pierre Menard di Borges che riscrive alcune parti del Don Chisciotte esattamente come le ha scritte Cervantes. Quanto a Calvino, Giovannoli propone come primo riferimento borgesiano il saggio La sfida al labirinto che è del 1962, ma come potrà vedere chi leggerà l’intero e godibilissimo saggio, sia per Eco che per Calvino il rapporto con Borges e le sue biblioteche infinite e la sua predilezione per il fantastico e il combinatorio è piuttosto fitto e disteso negli anni. Ed è curioso che sia uno scrittore spesso definito reazionario a servire da guida in anni fortemente segnati dall’impegno politico e dai sensi di colpa. Eco e Calvino si incontrano ancora in uno snodo cruciale: la traduzione di Queneau. Se ne occupa Stefano Bartezzaghi in una relazione intitolata «Esercizi blu e Fiori di stile» che incrocia due celebri titoli di Queneau. Il tema di fondo è la traduzione del calembour, un gioco di parole di fronte al quale spesso chi traduce si arrende ricorrendo alla formula “gioco di parole intraducibile”. Calvino, lo confida a Franco Quadri in una lettera del 1965, avrebbe voluto leggere il testo con accanto una persona francese, magari lo stesso signor Queneau… Tradurre Queneau è un gioco di alto livello e una sfida: non sempre è possibile arrivare a una soluzione perfetta. Eco, che traduce gli Esercizi di stile, si pone il problema di essere fedele al testo che non vuol dire essere letterali: «Fedeltà significava capire le regole del gioco, rispettarle, e poi giocare una nuova partita con lo stesso numero di mosse». Così come aveva aperto il convegno (ricco di interventi che qui non posso nemmeno citare) Eco chiude con una serie di osservazioni e con una confessione. «A me non interessa nulla di me stesso. Per questo sono sempre restato estraneo alla psicoanalisi. Invece di spendere soldi dallo psicanalista per capire chi sono ne guadagno scrivendo romanzi in cui racconto chi sono gli altri». Un bel labirinto, direbbe Borges.
Dal banchiere ai vecchi comunisti le mille facce del popolo di Carlo Maria Per un giorno riunite le anime della città: “La sua parola arrivava a tutti”
E sulla piazza luminosa che è al tempo stesso, da sempre, sagrato e luogo civico per eccellenza. La folla era così composta che si udivano piuttosto distintamente le singole voci umane e addirittura, nelle pause della liturgia, il battito dei passi attorno. È stato un funerale solenne e affollato, da quasi papa o quasi da papa, preceduto da un’interminabile omaggio al feretro, una fila durata tre giorni e tre notti che ha fatto dire «c’era tutta Milano», e fa riflettere sulla popolarità non scontata di un uomo poco mediatico e di un intellettuale molto munito, e negli ultimi anni appartato anche a causa del Parkinson, che aveva leso la parola proprio a chi della parola aveva fatto ragione di vita e di magistero. Essere stato arcivescovo per venti anni, fortemente radicato anche nella Milano non cattolica grazie all’impegno sociale, forse non basta a spiegare, al momento dell’addio, una presenza così massiccia, così ecumenica della città. Nel suo breve e affettuoso saluto finale (l’omelia spettava all’attuale vescovo di Milano, Scola) il successore di Martini, Tettamanzi, ha elogiato, in padre Carlo Maria, “l’arte di ascoltare” e la “capacità di radunare”, la seconda evidente conseguenza della prima. Una fede non escludente (Tettamanzi ha ripetuto per due volte l’oggetto della predicazione di Martini: “a tutti! a tutti! ”), una fede calata nella complessità e nel caos della modernità senza mai temerla, senza mai esorcizzarla. Così che sul sagrato, insieme ai tanti credenti che si segnavano e recitavano le parole del rito, erano molti anche i non credenti o i dubbiosi o gli indefinibili che sostavano a braccia conserte, muti e rispettosi testimoni di un lutto municipale, dunque della città intera e non solo della pur rilevantissima comunità cattolica ambrosiana. A questa folla, e forse anche a qualche fedele, l’omelia del cardinale Scola deve essere sembrata, come dire, un poco esitante rispetto agli specifici meriti del cardinal Martini. Soffer-mandosi a lungo sul mistero della resurrezione, il “potere di Cristo sulla morte”, “la chiarezza dell’eterno fulgore”, l’attuale pastore della diocesi di Milano ha concesso solo un fugace cenno finale all’interesse del defunto per “la realtà contemporanea”: che pure è ciò che ha fatto di Martini un testimone molto ascoltato anche al di fuori del mondo cattolico. Era come se le parole di Scola tendessero a ricondurre la figura di Martini, orgogliosamente, nell’alveo della Chiesa romana. Dentro il Duomo e nella piazza, nel frattempo, l’impressionante molteplicità della folla celebrava al massimo livello (cioè al livello del cardinal Martini) la potenza dell’interclassismo cattolico elevata al cubo dalla potenza del dialogo “con tutti”: nessuna manifestazione politica potrebbe mai raccogliere persone così differenti per censo, per condizione sociale, per stile di vita, perfino per abbigliamento… Il mio solo e minuscolo vaglio, quello delle conoscenze personali, mi ha fatto riconoscere un banchiere, una edicolante, un attore, un barista, un’operaia in pensione, un libraio, una segretaria di redazione, un paio di vecchi comunisti, un’amica di mia madre molto pia e una mia amica bidivorziata. Facce di popolo e borghesi brizzolati, aria di centro storico e aria di periferia, signore abbronzate appena rientrate dal mare e casalinghe arrivate in metrò. Unico tratto comune: milanesi. La sola percepibile mancanza, a guardare meglio, era quella dei ragazzi. Per trovare qualcuno sotto i trent’anni, esclusi i (pochi) bambini per mano ai genitori, era necessario aguzzare la vista. Una società decisamente invecchiata non basta, da sola, a spiegare la vistosa latitanza, in un giorno molto significativo per Milano, dei milanesi giovani. Al mistero della resurrezione poteva dunque sommarsi, nella piazza raccolta a salutare il suo pastore, il mistero di un futuro poco intellegibile, e assente nei suoi più autorevoli rappresentanti, i giovani. Forse neanche il padre Carlo Maria avrebbe saputo spiegare perché al suo funerale di tutti c’era traccia, non dei figli.
LA REPUBBLICA del 26 gigno 2012
Michael Jackson faceva sterilizzare tutto, uomini e cose, per il terrore di essere contaminato. Madonna fa sterilizzare i suoi camerini, appena dopo averli abbandonati, perché ha il terrore che qualcuno rubi il suo prezioso Dna (un capello? un’unghia? saliva sul bicchiere? prelievo delle sacre acque di cesso dove milady ha fatto pipì? E se il ladro di Dna si sbaglia e preleva il pelo di un body-guard, o la forfora di una parrucchiera? E nascono cloni di body-guard, o di parrucchiera, convinti per tutta la vita di essere Madonnini e Madonnine?). È proprio vero che il successo non fa bene, espone gli esseri umani a paranoie, vizi, manie di grandezza che ne storcono l’anima fino a renderla parodia. Il famoso “ma andate a lavorare”, che ha una indubbia carica di meschinità, è però in qualche caso salvifico come il pernacchio che disarciona il vanaglorioso, sgonfia il pallone gonfiato. C’è un principio di realtà che è anche principio di umanità, relativizza i trionfi, riavvicina al suolo, soprattutto aiuta a non diventare troppo ridicoli. Queste star americane sterilizzatrici, salutiste, sempre con stuoli di avvocati e dottori incaricati di tutelarle dal mondo, tra le personificazioni del ridicolo sono tra le più imperdonabili perché tra le più evitabili.