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R2 Repubblica del 12 aprile 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  News
Il discorso sull’omosessualità si è fatto, negli ultimi tempi, piuttosto acceso, rinfocolato anche da un lutto pubblico (quello per Lucio Dalla) che a qualcuno è parso reticente e ad altri, al contrario, strumentalmente distorto. I toni risentiti e le invettive si sono sprecati, e molti pregiudizi sono apparsi ancora intatti, come se la materia di cui si nutrono non si fosse consumata nel tempo. Come se il tempo – il tempo dell’evoluzione dei costumi, della politica e delle sue leggi, della storia sociale e civile del nostro paese – non avesse sciolto, tra i tanti, il nodo decisivo della convivenza tra identità e comportamenti sessuali differenti.
 
A confermare questa sensazione non ci sono solamente le battute miserevoli di politici di seconda fila sull’omosessualità come "malattia da guarire" (in altri paesi quelle battute costerebbero un dispregio imbarazzato; da noi valgono un invito nelle trasmissioni tivù e radio più in voga). E non c’è solo il sistematico boicottaggio clericale di quasi ogni riassetto legislativo in materia di coppie di fatto, diritti di convivenza, riconoscimento dell’aggravante omofoba nei tanti casi di aggressione "punitiva" contro persone gay. C’è anche la storia di un libro del 1991 che, a rileggerlo oggi, sembra scritto ieri mattina; e la cui vita editoriale, decisamente anomala, è l’indizio (ennesimo) di un tempo bloccato.
 
Il libro si chiama Ragazzi che amano ragazzi. Lo ha raccolto e steso vent’anni fa Piergiorgio Paterlini, giornalista e scrittore, raccogliendo le storie di adolescenti omosessuali di ogni parte d’Italia, e di ogni ceto sociale. Sia pure in modica quantità, è uno dei non tanti longseller dell’editoria nazionale: ha venduto ogni anno, per vent’anni, tra le duemila e le tremila copie, senza picchi e senza cadute, con una costanza impressionante, come se godesse di una sua vita autonoma. Autonoma perfino dal suo autore, che nel poscritto aggiunto alla riedizione di quest’anno (la tredicesima, Feltrinelli) più che del libro parla dei suoi lettori, una piccola comunità che in quelle storie di fine anni Ottanta, sorprendendo l’autore, ha continuato a trovare, per più di vent’anni, ragioni di rispecchiamento e probabilmente di sollievo.
 
Nella pur difforme sequenza di storie personali raccolte da Paterlini, il tratto unificante, il "comune sentire" è sempre uno e sempre quello: dirlo.
 
Trovare la forza di dirlo agli altri dopo averlo detto a se stessi. E il costante successo di Ragazzi che amano ragazzi – per così dire: la sua perdurante funzionalità – mette l’autore nelle condizioni di domandarsi se, dunque, niente è cambiato in meglio. Oggi che i ventenni del libro hanno quarant’anni e passa, altri adolescenti gay vivono la stessa faticosissima paura di "dirlo"; e manifestare un’identità omosessuale, o comportamenti omosessuali, sembra ugualmente difficile e doloroso nonostante l’apparenza sociale abbia aperto, anche vistosamente, finestre e addirittura vetrine sui costumi gay, sull’estetica gay nonché sui consumi gay.
 
Sostiene l’autore che all’epoca dell’uscita del libro si viveva nell’attesa (non irragionevole) che quello e altri tabù, nel divenire vorticoso della società, si sarebbero prima o poi infranti, o almeno indeboliti. E scoprire che, a distanza di una generazione, le lettere che riceve dai nuovi lettori del suo libro ne parlano ancora come di un’esperienza lacerante e liberatoria, gli fa dire, amaramente, che molto poco è cambiato, in Italia, sul terreno della tolleranza e dell’intelligenza sessuale. «Se ancora troppi ragazzi si riconoscono in queste storie di vent’anni fa, significa che qualcosa non va, che il poco o tanto che è cambiato non basta».
 
Il successo di un libro come segno dell’insuccesso di un processo di civilizzazione? Paterlini fa bene a ricordare ai suoi lettori di ieri e di oggi che i due grandi tabù con i quali si confrontano e si scontrano – quello sessuale e quello religioso – si misurano con i secoli, non con i decenni. Ma a noi interessa, se non altro per contingenza, sottolineare il clima evidentemente non sereno che ha fatto di Ragazzi, negli anni, non un normale libro di testimonianze, ma un approdo liberatorio (e rivelatorio) per molti che non sapevano come dirlo, non sapevano se dirlo, e in quelle pagine hanno trovato il confortante esempio di chi già lo aveva detto. Si è creata, attorno al libro, una piccola-grande comunità di auto-training, di supporto a distanza, che a Paterlini si è manifestata attraverso più di tremila lettere (un’enormità, per un solo libro) che gli sono arrivate lungo gli anni. Tutte per ringraziare: quel piccolo volume, prestato da un amico o trovato su un treno o comperato in libreria con qualche circospezione, gli aveva fatto capire di non essere soli, li aveva aiutati a inquadrare la loro vita sessuale non più come "un problema", ma come una condizione di vita condivisa con molti altri.
 
Da ultimo l’autore fornisce, per completare lo stato delle cose a proposito di Italia e di omosessuali, poche ma utili notizie sulla vita pubblica di un libro così privato. Ragazzi che amano ragazzi ha potuto godere, in due decenni, di due sole presentazioni mediatiche: una televisiva a Mixer, una radiofonica a Sumo. Fatte da due donne, e non è un caso.
 
Centinaia gli incontri pubblici in circoli e librerie. Problemi di ordine pubblico (minacce, intimidazioni anche fisiche) in tre città: una del Sud, Messina, due del Nord, Varese e Verona.
 
Già note alle cronache per la presenza di animose tifoserie nazifasciste e, per diretta conseguenza, anche omofobe: ragazzi che odiano ragazzi.

 

LA REPUBBLICA del 17 aprile 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  News
Come se chi egli fosse importasse, sì, ma non quanto importava partecipare collettivamente a un dolore. Già quando morì il giovanissimo centauro Simoncelli si poté misurare questa sorta di urgenza del cordoglio, e di fascino del lutto. È la televisione che coglie l’attimo della morte e lo segnala all’attenzione del mondo; ma è la rete capillare, infinita del web a moltiplicare, insieme alla notizia della morte, i sentimenti del dolore e della paura, formando una specie di smisurato funerale al tempo stesso puntiforme e mondiale. Se poi – come in questo caso – un paio di calciatori famosi (Totti e Ibrahimovic) affidano a Twitter le poche parole di sgomento che ognuno di noi pronuncia con gli amici, o in cuor suo, l’effetto è quello del detonatore. Ed ecco che a Madrid e a Barcellona, poche ore dopo, i calciatori delle due squadre più famose del mondo chinano il capo in memoria di un loro collega quasi sconosciuto, caduto su un prato di provincia della serie B italiana. Un’immagine, questa, che riassume tutti o quasi gli ingredienti che formano quel territorio immenso e controverso che è il web, la messa in rete del pianeta Terra: più uguaglianza ma anche più emotività, più velocità ma anche più casualità, e molti parametri consolidati che saltano come tappi, la Federcalcio italiana costretta quasi a furor di popolo a sospendere il campionato (ma ad altri caduti, in precedenza, si era reso omaggio giocando), tutti o quasi i media, anche quelli autorevoli, che declassano a seconda notizia del giorno la più imponente offensiva dei talebani a Kabul e mettono in primo piano, trascinati dal travolgente proliferare del lutto (nelle redazioni si sta molto sul web), la morte di Morosini. Come si è poi visto, alla commovente tragicità della morte dell’atleta (un archetipo classico, sono gli eroi che muoiono in battaglia) si è sommato il racconto di una vita segnata dalla sfortuna e dalla tempra morale. Morosini era, nella disgrazia, allegro e altruista: eroico anche in questo. Ma al netto di ciò che il ragazzo è stato, colpisce la dilagante, quasi incontrollabile potenza del lutto. In tempi di bolle finanziarie, la tentazione è di parlare di bolla emotiva. In una società ormai incapace di osservare, nella vita in carne e ossa, il tradizionale minuto di silenzio, e più in generale sempre meno adatta a fare propria la forma delle cerimonie, dei riti, di ogni genere di disciplina, evidentemente il bisogno di sentirsi comunità non solo non si spegne, ma è come se si gonfiasse, cercando altri sbocchi. Una morte mediatica come quella di un giovane atleta che stramazza in corsa, o cade riverso sull’asfalto, offre sbocco immediato, e potente, a un bisogno di compassione che sembra sfrattato dalla vita reale, e (comodamente) rifugiato in quella virtuale. Ognuno nella propria stanzetta, o in auto, oppure ovunque, può comunque sentirsi partecipe della Grande Cerimonia. I giocatori del Livorno, molto giustamente, hanno chiesto ai media di non replicare ulteriormente le immagini spietate della morte del loro povero amico. Di non specularci sopra. Ma ognuno di noi, in una certa misura, è ormai direttore responsabile di quella microcentrale di news che è se stesso. Fermare un campionato e spegnere il palmare (per un minuto, un’ora, un giorno) è, in scala, più o meno la stessa cosa: un modo simbolico di onorare, fermi e in silenzio, chi ci ha lasciati. Ma operativamente – si è visto – fermare un campionato è più facile che zittirsi, chiudere gli occhi, ingoiare le lacrime e pensare alla morte da soli. 

LA REPUBBLICA del 17 marzo 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  News
L´altro giorno ho scritto un corsivo contro il sensazionalismo urlato della stampa italiana. Pochi commenti, quasi tutti favorevoli. Il giorno successivo (ieri) ho scritto un corsivo contro il cicaleccio sincopato di Twitter. Moltissimi commenti, quasi tutti ostili. Prima di replicare alle critiche, è interessante rilevare questo: attaccare il linguaggio dei giornali equivale, oggi, a sfondare una porta aperta. Non provoca reazioni corporative, nonostante quella dei giornalisti sia certamente una corporazione, forse perfino una casta. Al contrario, esprimere dubbi su Twitter suscita una reazione veemente e compatta dei suoi utenti. Soprattutto su Twitter, ovviamente. Come se in discussione non fosse un medium, ma una comunità di persone. La sua identità collettiva. Circostanza che solleva dubbi su uno dei principali argomenti dei difensori di Twitter: è solo un medium, non conta in sé, conta l´uso che se ne fa. Anche la carta stampata è solo un medium: infatti parlarne male è esercizio corrente, e condiviso perfino da chi di quel medium fa un uso quotidiano e addirittura professionale. Il cosiddetto "popolo del web" ha invece di sé un alto concetto. Se mi posso permettere: leggermente troppo alto. Quasi snob, mi verrebbe da dire per vendicarmi dell´accusa che spesso viene rivolta a chi critica le abitudini di massa… In realtà entrambe le mie "Amache" – quella contro i giornali, quella contro Twitter – trattavano lo stesso tema:
l´uso frettoloso e impulsivo della parola. La prevalenza dell´emotività sul ragionamento. Nel caso di Twitter sostenevo che fosse la formula di quel medium (brevità più velocità) a scoraggiare un pensiero più strutturato e più adulto. Ovviamente, solo un luddista o uno stupido può negare
l´enorme funzione che Twitter, e più in generale internet, esercita sulla vita sociale del pianeta Terra: l´esempio classico è il ruolo che queste forme di comunicazione veloce, pervasiva e soprattutto difficilmente censurabile hanno avuto nei movimenti di democrazia nei paesi arabi e in Iran. Il mio rilievo, che provo a riformulare, è però tutt´altro. E´ che quei medium hanno sì una formidabile funzione di servizio, di messa a fuoco di argomenti omessi o rimossi sui media "ufficiali". Ma contengono anche una tentazione esiziale, che è quella del giudizio sommario, della fesseria eletta a sentenza apodittica, del pulpito facile da occupare con zero fatica e spesso zero autorevolezza. La parola – e questa è ovviamente solo una mia opinione – non deve rispondere solo all´ossessione di comunicare (la comunicazione sta diventando il feticcio della nostra epoca). La parola dovrebbe servire ad aggiungere qualcosa, a migliorare il già detto. Alla comunicazione bastano gli slogan. Alla cultura serve il ragionamento. Non per caso la conclusione del mio corsivo era questa: "se usassi Twitter, direi che Twitter mi fa schifo. Fortunatamente non twitto". Traduzione per i parecchi che non hanno capito, e difatti hanno scritto "a Serra fa schifo Twitter": ci sono cose, per esempio il mio giudizio su Twitter, che non possono essere dette su Twitter. Perché ci sono cose che sono complesse e addirittura complicate, e dunque irriducibili alle pochissime parole che Twitter concede. I miei critici (tra i tanti ringrazio, per l´ intelligenza dei rilievi che mi muovono, Luca Sofri e i blogger Fabio Chiusi e Davide Bennato) negano che il medium sia il messaggio, fanno notare che la tecnologia non determina alcunché, ma suggerisce occasioni e apre possibilità e mi accusano di passatismo. Accetto le critiche: è vero che gli anni passano per tutti, anche per me, ed è fortemente possibile che io esasperi i difetti di Twitter (superficialità, ansia di visibilità) e ne sottovaluti i vantaggi (sintesi, velocità, accessibilità, simultaneità del dibattito). Le accetto, le critiche. Ma in cambio mi piacerebbe molto che questa breve lite mediatica servisse anche a chi twitta. Servisse a capire che il rispetto delle parole, anche sui nuovi media, è almeno altrettanto importante dell´urgenza-obbligo-smania di "comunicare". Per comunicare basta scrivere "io esisto". Per scrivere, spesso è necessario dimenticarlo. 
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