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L’ESPRESSO del 12 aprile 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  News
E ora Strossi contro Gnossi
 
L’addio di Bossi scatena la guerra di successione. In corsa un ex cantante di Pavia eletto senatore a sua insaputa e un meccanico della Val Brembana che ha chiamato i suoi tre figli Alpino, Prealpino e Subalpino. Outsider: un cacciatore di Cambiago che spegne le telecamere con un rutto. Sostituire Umberto Bossi con un leader dello stesso livello: per la Lega è una scommessa difficile. Ma già affiorano i possibili successori. 
 
Lamberto Gnossi Ex cantante dell’orchestra di liscio Omar e Oscar, scopre la politica verso i cinquant’anni quando i leghisti della sua provincia, Pavia, lo eleggono senatore a sua insaputa. Dapprima crede a uno scherzo. Poi, ritirando il primo stipendio da 15 mila euro, capisce che quella è la sua missione. Presenta un disegno di legge che liberalizza la caccia al merlo, ma la sua attività politica tocca anche molti altri aspetti della vita civile del Paese: dalla caccia al beccaccino alla caccia alla peppola. La base lo ama molto per i modi spontanei: fa i comizi con la patta aperta e il suo intercalare tipico è "vacaboja!". Politico molto accorto, non si è ancora pronunciato pro o contro la secessione perché prima vuole capire che cosa significa la parola. Ha tre figli: Padanio, Padania e Mario Po.
 
Roberto Strossi Strossi è il fondatore della Lega Alpina Prealpina e Subalpina, che confedera le tre precedenti leghe Alpina, Prealpina e Subalpina (tutte e tre fondate da lui) in una sola. A questa missione ha dedicato tutta la sua vita e per questo tutti lo chiamano "l’ideologo". Nativo di una piccola frazione della Valbrembana, non è mai stato eletto a nessuna carica pubblica ma nella sua officina meccanica legifera in proprio. Ha preparato una legge che rende obbligatoria la caccia al tordo per tutti i cittadini italiani che hanno compiuto i diciotto anni, con un periodo di addestramento di tre mesi presso la pensione della sorella Ines. La base ne apprezza molto lo stile alla mano: nei dibattiti televisivi attacca le caccole sul microfono e il suo intercalare tipico è "bojavaca!". Ha tre figli: Alpino, Prealpino e Subalpina.
 
Umberto Ossi Diplomato in batteria per corrispondenza, suona con il coro delle mondine del Vercellese. I canti rurali non prevedono la batteria, ma Ossi, con la tenacia che gli è valsa la stima e l’affetto della base, ha chiesto allo zio sindaco di fare un’ordinanza che obbliga a introdurre un assolo di batteria in ogni canzone eseguita in zona. Scrittore autodidatta, sta ultimando (è già a pagina 2) un saggio nel quale dimostra che i confini della Padania coincidono con quelli di Atlantide. Per questa pubblicazione è stato nominato rettore dell’Università dell’Insubria. Ha tre figli, ai quali ha dato i nomi degli ultimi tre re di Atlantide: Octopus I, Octopus II e Octopus III. E’ autore di un progetto di legge che promuove la pesca al pesce gatto, del quale è così ghiotto che lo mangia con le mani mentre fa i comizi, applauditissimo dalla base. 
 
Floberto Rossi Il suo disegno di legge, che autorizza le battute di caccia al canarino in gabbia e in negozio, lo ha reso popolarissimo nel bresciano. Eletto deputato a furor di popolo, si è presentato a Roma con la doppietta ma ha accettato di consegnarla ai commessi, dando un segnale di maturità politica che ha profondamente impressionato. Uno dei suoi pochi rammarichi è non avere potuto avere figli perché troppo impegnato nell’attività venatoria. Ha però adottato un Suv, che lava ogni sabato sulla piazza del paese tra gli applausi della base entusiasta.
 
Berto Umbossi Gli Umbossi sono, da generazioni, gestori del tiro al volo di Cambiago Pertugnago, un paese del Milanese vicino a Inzago Tormegnago. Sono molto rispettati dagli abitanti della zona perché sono tra i pochi che riescono a tornare a casa senza perdersi. Berto è sceso in politica per coronare un sogno: trasformare le aiuole in mezzo alle rotonde stradali in riserva di caccia. La base lo ama per i modi schietti: mentre fa i comizi si pulisce le unghie con un coltello da macellaio e in un dibattito televisivo ha spento la telecamera con un rutto. Ha tre figli, i cui nomi sono un inno al territorio e alla cultura padana: Rotonda, Capannone e Svincolo. 

LA REPUBBLICA del 17 marzo 2012 

PUBBLICATO IL  agosto 6 -  News
L´altro giorno ho scritto un corsivo contro il sensazionalismo urlato della stampa italiana. Pochi commenti, quasi tutti favorevoli. Il giorno successivo (ieri) ho scritto un corsivo contro il cicaleccio sincopato di Twitter. Moltissimi commenti, quasi tutti ostili. Prima di replicare alle critiche, è interessante rilevare questo: attaccare il linguaggio dei giornali equivale, oggi, a sfondare una porta aperta. Non provoca reazioni corporative, nonostante quella dei giornalisti sia certamente una corporazione, forse perfino una casta. Al contrario, esprimere dubbi su Twitter suscita una reazione veemente e compatta dei suoi utenti. Soprattutto su Twitter, ovviamente. Come se in discussione non fosse un medium, ma una comunità di persone. La sua identità collettiva. Circostanza che solleva dubbi su uno dei principali argomenti dei difensori di Twitter: è solo un medium, non conta in sé, conta l´uso che se ne fa. Anche la carta stampata è solo un medium: infatti parlarne male è esercizio corrente, e condiviso perfino da chi di quel medium fa un uso quotidiano e addirittura professionale. Il cosiddetto "popolo del web" ha invece di sé un alto concetto. Se mi posso permettere: leggermente troppo alto. Quasi snob, mi verrebbe da dire per vendicarmi dell´accusa che spesso viene rivolta a chi critica le abitudini di massa… In realtà entrambe le mie "Amache" – quella contro i giornali, quella contro Twitter – trattavano lo stesso tema:
l´uso frettoloso e impulsivo della parola. La prevalenza dell´emotività sul ragionamento. Nel caso di Twitter sostenevo che fosse la formula di quel medium (brevità più velocità) a scoraggiare un pensiero più strutturato e più adulto. Ovviamente, solo un luddista o uno stupido può negare
l´enorme funzione che Twitter, e più in generale internet, esercita sulla vita sociale del pianeta Terra: l´esempio classico è il ruolo che queste forme di comunicazione veloce, pervasiva e soprattutto difficilmente censurabile hanno avuto nei movimenti di democrazia nei paesi arabi e in Iran. Il mio rilievo, che provo a riformulare, è però tutt´altro. E´ che quei medium hanno sì una formidabile funzione di servizio, di messa a fuoco di argomenti omessi o rimossi sui media "ufficiali". Ma contengono anche una tentazione esiziale, che è quella del giudizio sommario, della fesseria eletta a sentenza apodittica, del pulpito facile da occupare con zero fatica e spesso zero autorevolezza. La parola – e questa è ovviamente solo una mia opinione – non deve rispondere solo all´ossessione di comunicare (la comunicazione sta diventando il feticcio della nostra epoca). La parola dovrebbe servire ad aggiungere qualcosa, a migliorare il già detto. Alla comunicazione bastano gli slogan. Alla cultura serve il ragionamento. Non per caso la conclusione del mio corsivo era questa: "se usassi Twitter, direi che Twitter mi fa schifo. Fortunatamente non twitto". Traduzione per i parecchi che non hanno capito, e difatti hanno scritto "a Serra fa schifo Twitter": ci sono cose, per esempio il mio giudizio su Twitter, che non possono essere dette su Twitter. Perché ci sono cose che sono complesse e addirittura complicate, e dunque irriducibili alle pochissime parole che Twitter concede. I miei critici (tra i tanti ringrazio, per l´ intelligenza dei rilievi che mi muovono, Luca Sofri e i blogger Fabio Chiusi e Davide Bennato) negano che il medium sia il messaggio, fanno notare che la tecnologia non determina alcunché, ma suggerisce occasioni e apre possibilità e mi accusano di passatismo. Accetto le critiche: è vero che gli anni passano per tutti, anche per me, ed è fortemente possibile che io esasperi i difetti di Twitter (superficialità, ansia di visibilità) e ne sottovaluti i vantaggi (sintesi, velocità, accessibilità, simultaneità del dibattito). Le accetto, le critiche. Ma in cambio mi piacerebbe molto che questa breve lite mediatica servisse anche a chi twitta. Servisse a capire che il rispetto delle parole, anche sui nuovi media, è almeno altrettanto importante dell´urgenza-obbligo-smania di "comunicare". Per comunicare basta scrivere "io esisto". Per scrivere, spesso è necessario dimenticarlo. 
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