LA REPUBBLICA del 17 marzo 2012
L´altro giorno ho scritto un corsivo contro il sensazionalismo urlato della stampa italiana. Pochi commenti, quasi tutti favorevoli. Il giorno successivo (ieri) ho scritto un corsivo contro il cicaleccio sincopato di Twitter. Moltissimi commenti, quasi tutti ostili. Prima di replicare alle critiche, è interessante rilevare questo: attaccare il linguaggio dei giornali equivale, oggi, a sfondare una porta aperta. Non provoca reazioni corporative, nonostante quella dei giornalisti sia certamente una corporazione, forse perfino una casta. Al contrario, esprimere dubbi su Twitter suscita una reazione veemente e compatta dei suoi utenti. Soprattutto su Twitter, ovviamente. Come se in discussione non fosse un medium, ma una comunità di persone. La sua identità collettiva. Circostanza che solleva dubbi su uno dei principali argomenti dei difensori di Twitter: è solo un medium, non conta in sé, conta l´uso che se ne fa. Anche la carta stampata è solo un medium: infatti parlarne male è esercizio corrente, e condiviso perfino da chi di quel medium fa un uso quotidiano e addirittura professionale. Il cosiddetto "popolo del web" ha invece di sé un alto concetto. Se mi posso permettere: leggermente troppo alto. Quasi snob, mi verrebbe da dire per vendicarmi dell´accusa che spesso viene rivolta a chi critica le abitudini di massa… In realtà entrambe le mie "Amache" – quella contro i giornali, quella contro Twitter – trattavano lo stesso tema:
l´uso frettoloso e impulsivo della parola. La prevalenza dell´emotività sul ragionamento. Nel caso di Twitter sostenevo che fosse la formula di quel medium (brevità più velocità) a scoraggiare un pensiero più strutturato e più adulto. Ovviamente, solo un luddista o uno stupido può negare
l´enorme funzione che Twitter, e più in generale internet, esercita sulla vita sociale del pianeta Terra: l´esempio classico è il ruolo che queste forme di comunicazione veloce, pervasiva e soprattutto difficilmente censurabile hanno avuto nei movimenti di democrazia nei paesi arabi e in Iran. Il mio rilievo, che provo a riformulare, è però tutt´altro. E´ che quei medium hanno sì una formidabile funzione di servizio, di messa a fuoco di argomenti omessi o rimossi sui media "ufficiali". Ma contengono anche una tentazione esiziale, che è quella del giudizio sommario, della fesseria eletta a sentenza apodittica, del pulpito facile da occupare con zero fatica e spesso zero autorevolezza. La parola – e questa è ovviamente solo una mia opinione – non deve rispondere solo all´ossessione di comunicare (la comunicazione sta diventando il feticcio della nostra epoca). La parola dovrebbe servire ad aggiungere qualcosa, a migliorare il già detto. Alla comunicazione bastano gli slogan. Alla cultura serve il ragionamento. Non per caso la conclusione del mio corsivo era questa: "se usassi Twitter, direi che Twitter mi fa schifo. Fortunatamente non twitto". Traduzione per i parecchi che non hanno capito, e difatti hanno scritto "a Serra fa schifo Twitter": ci sono cose, per esempio il mio giudizio su Twitter, che non possono essere dette su Twitter. Perché ci sono cose che sono complesse e addirittura complicate, e dunque irriducibili alle pochissime parole che Twitter concede. I miei critici (tra i tanti ringrazio, per l´ intelligenza dei rilievi che mi muovono, Luca Sofri e i blogger Fabio Chiusi e Davide Bennato) negano che il medium sia il messaggio, fanno notare che la tecnologia non determina alcunché, ma suggerisce occasioni e apre possibilità e mi accusano di passatismo. Accetto le critiche: è vero che gli anni passano per tutti, anche per me, ed è fortemente possibile che io esasperi i difetti di Twitter (superficialità, ansia di visibilità) e ne sottovaluti i vantaggi (sintesi, velocità, accessibilità, simultaneità del dibattito). Le accetto, le critiche. Ma in cambio mi piacerebbe molto che questa breve lite mediatica servisse anche a chi twitta. Servisse a capire che il rispetto delle parole, anche sui nuovi media, è almeno altrettanto importante dell´urgenza-obbligo-smania di "comunicare". Per comunicare basta scrivere "io esisto". Per scrivere, spesso è necessario dimenticarlo.
l´uso frettoloso e impulsivo della parola. La prevalenza dell´emotività sul ragionamento. Nel caso di Twitter sostenevo che fosse la formula di quel medium (brevità più velocità) a scoraggiare un pensiero più strutturato e più adulto. Ovviamente, solo un luddista o uno stupido può negare
l´enorme funzione che Twitter, e più in generale internet, esercita sulla vita sociale del pianeta Terra: l´esempio classico è il ruolo che queste forme di comunicazione veloce, pervasiva e soprattutto difficilmente censurabile hanno avuto nei movimenti di democrazia nei paesi arabi e in Iran. Il mio rilievo, che provo a riformulare, è però tutt´altro. E´ che quei medium hanno sì una formidabile funzione di servizio, di messa a fuoco di argomenti omessi o rimossi sui media "ufficiali". Ma contengono anche una tentazione esiziale, che è quella del giudizio sommario, della fesseria eletta a sentenza apodittica, del pulpito facile da occupare con zero fatica e spesso zero autorevolezza. La parola – e questa è ovviamente solo una mia opinione – non deve rispondere solo all´ossessione di comunicare (la comunicazione sta diventando il feticcio della nostra epoca). La parola dovrebbe servire ad aggiungere qualcosa, a migliorare il già detto. Alla comunicazione bastano gli slogan. Alla cultura serve il ragionamento. Non per caso la conclusione del mio corsivo era questa: "se usassi Twitter, direi che Twitter mi fa schifo. Fortunatamente non twitto". Traduzione per i parecchi che non hanno capito, e difatti hanno scritto "a Serra fa schifo Twitter": ci sono cose, per esempio il mio giudizio su Twitter, che non possono essere dette su Twitter. Perché ci sono cose che sono complesse e addirittura complicate, e dunque irriducibili alle pochissime parole che Twitter concede. I miei critici (tra i tanti ringrazio, per l´ intelligenza dei rilievi che mi muovono, Luca Sofri e i blogger Fabio Chiusi e Davide Bennato) negano che il medium sia il messaggio, fanno notare che la tecnologia non determina alcunché, ma suggerisce occasioni e apre possibilità e mi accusano di passatismo. Accetto le critiche: è vero che gli anni passano per tutti, anche per me, ed è fortemente possibile che io esasperi i difetti di Twitter (superficialità, ansia di visibilità) e ne sottovaluti i vantaggi (sintesi, velocità, accessibilità, simultaneità del dibattito). Le accetto, le critiche. Ma in cambio mi piacerebbe molto che questa breve lite mediatica servisse anche a chi twitta. Servisse a capire che il rispetto delle parole, anche sui nuovi media, è almeno altrettanto importante dell´urgenza-obbligo-smania di "comunicare". Per comunicare basta scrivere "io esisto". Per scrivere, spesso è necessario dimenticarlo.
LA REPUBBLICA del 10 gennaio 2012
La mia generazione ha creduto nella buona cronaca, ma è stata sommersa dallo tsunami pubblicitario Ogni volta che in tv si affronta un problema il risultato è una confusione di voci che si sovrappongono Un modo di scrivere e un dizionario sempre più poveri Da "concentrato" a "solare", usiamo pochissimi termini
Anticipiamo uno dei temi dell´ultimo libro di Bocca GIORGIO BOCCA
Lui il presentatore, lei l´italiana qualsiasi, l´altro il marito o il fidanzato. Com´è l´altro? chiede il presentatore. E lei raggiante: solare. Una sola parola magica per dire un mondo di cose: è buono, bello, generoso, altruista, mi ha sposato, mi sposerà. Il miracolo del verbo, della parola, vi dà l´impressione di comunicare con il resto del mondo, e la televisione annulla le distanze, ti toglie dall´anonimato, ti rende noto alla moltitudine garantita dall´auditel. Sono tante le parole magiche cui gli italiani qualsiasi si aggrappano come fossero salvifiche: ironico per dire le molte cose che gli inglesi dicono con la parola understatement, o concentrato, concentrazione per dire tutti i modi e i tempi dell´attenzione, e anche un attimino, per dire non ho tempo, lui è in riunione, ha cose più importanti da fare, non posso disturbarlo. Abbiamo a nostra disposizione vocabolari con decine di migliaia di parole, ma il nostro linguaggio comune è poverissimo e ricorriamo alle parole magiche della comunicazione. Sono l´abracadabra della nostra faticosa modernità, per cui un italiano qualsiasi ricorre ai luoghi comuni con una felicità liberatoria, come fosse appena uscito da una babele di suoni incomprensibili, come se finalmente riuscisse a raccontare all´intera specie i suoi interni affanni, come se si liberasse da uno stato bestiale di grugniti o di sibili. Qualcuno dice che il destino dell´uomo è di salire faticosamente dal fango che lo ha formato a Dio. A giudicare dall´uso dei luoghi comuni a cui ci aggrappiamo come ad ancore di salvezza, la strada è ancora lunga assai. L´ammirazione per le scienze e per le arti, per le vette raggiunte dagli uomini, non riesce a nascondere la modestia, l´impotenza del nostro modo di parlare che va peggiorando da quando abbiamo deciso di trascurare come robe vecchie l´oratoria e la retorica. Di parlare e anche di scrivere dei fatti più semplici ed elementari. Non parliamo della politica, che resta nelle cronache una faccenda oscura e noiosa. Anche le cronache nere, che sono le più popolari, anche la narrazione dei crimini come delle competizioni sportive sono somme di luoghi comuni, di frasi prefabbricate. Ogni volta che la televisione prova a riunire una ventina di persone per discutere un tema sociale o morale, il risultato è una confusione di voci che cercano di sopraffarsi, non solo per voglia di primeggiare, ma anche per incapacità di esprimersi. Per tutti una lezione di modestia: ne abbiamo ancora di cammino da fare per arrivare a Dio. Concentriamoci!, come siamo soliti dire. A che punto siamo con le letterature e con la scrittura? Al meglio possibile, si potrebbe dire: lo scrittore di oggi ha tutto a sua disposizione per conoscere il mondo della vita e se stesso, per penetrare nelle profondità dell´inconscio, ma al contempo questa abbondanza di informazioni, di letture, di tecniche si muta in una sorta di vernice uniforme, in una pappa reale come cibo perenne, in un bagno incessante di risaputo, di usato, di mandato a memoria. La scomparsa dei dialetti, cioè delle lingue native, è il segno di questa nuova cultura umana inodore e insapore. La lingua e la scrittura create giorno per giorno dalla gente comune ma vive, la lingua dei mercati, delle carceri, delle fabbriche, degli eserciti cedono il posto alla lingua delle scuole e delle accademie, pulita, corretta ma insapore. E così è dell´oratoria. Fra un oratore del principio del secolo scorso, avvocatizio e retorico ma ancora ricco di umori e commozioni, e uno di oggi c´è come una rinuncia alla voglia di persuadere o di commuovere. La differenza abissale fra un Mussolini e un Berlusconi sta proprio qui: che il primo voleva commuovere e il secondo vendere, il primo voleva incantare e il secondo comprare, il primo cercava di dare corpo ai suoi sogni e credibilità alle sue promesse e il secondo ha capito che qualsiasi cosa detta da chi ha il megafono è vera o creduta vera. Il primo era nato dal socialismo e dalla sua retorica, il secondo è convinto che al mondo tutto si compra. Che fa quando arriva a Lampedusa dove una folla di naufraghi, di fuggiaschi, di disorientati attende di conoscere il proprio destino? Compra una villa, non importa se abusiva, anzi proprio perché abusiva, per poterla regolarizzare con una legge ad personam. Berlusconi è il dio e l´interprete, il maestro di questa umanità pubblicitaria che comunica per slogan, dipinge per marchi commerciali, fa musica o poesia o qualsiasi cosa come il bestseller, il ben venduto. La mia generazione ha pensato di fare buona informazione, buona cultura, con la buona cronaca, onesto racconto della realtà con il mero realismo; siamo stati superati, sommersi dallo tsunami pubblicitario, dal realismo del venduto e dell´acquistato, dal trionfo del paramercato: invece della scoperta della realtà la scoperta del magico o dell´orribile, invece di buoni alimenti, di cibi sani, le droghe in tutte le loro varietà e false promesse. Le pagine letterarie e culturali dei giornali sono elenchi di bestseller, di letteratura ben venduta, di romanzi d´appendice spacciati per nuova arte. Lo scrittore di successo deve essere anche e prima un personaggio vendibile: colui che sperimenta il diverso e insolito, il noir, un po´ vizioso di natura e un po´ cronista del vizio, les fleurs du mal in versione grande magazzino, mercati generali, emporio. Cosa fa lo scrittore per coltivare il suo successo, la sua capacità nel raccontare? S´inventa un personaggio e lo recita, non solo ambiguo, tenebroso, fuori dal comune, ma anche incantatore, anche pifferaio delle nuove greggi conformiste, come lo erano gli Evtušenko, gli scrittori sovietici che riscoprivano il genio e le sue pazzie.