Non bastano la buona volontà di chi ci lavora da vent’anni e un editore virtuoso: “Lo straniero” chiude
Dopo venti anni di attività la rivista “Lo straniero” cesserà le pubblicazioni con il numero doppio di fine anno. Di seguito la lettera del direttore Goffredo Fofi in cui spiega le motivazioni della sua decisione.
“Lo straniero” ha vent’anni, e vent’anni per una rivista sono tanti. Nel Polonio dei letterati, un saggio dei primi anni quaranta dello scorso secolo, il grande critico statunitense Edmund Wilson scrisse che gli anni buoni di una rivista sono più o meno cinque, poi essa comincia a invecchiare.
È difficile essere intelligentemente presenti al proprio tempo – a un tempo che cambia – molto a lungo. Resistere vent’anni, come a noi è capitato, non invecchiando – ce lo diciamo da noi, e ne siamo seriamente convinti – e cioè riuscendo a mantenere un passo decoroso, a fronteggiare serenamente la mutazione del mondo, a studiarne le cause e a vederne gli effetti e le sofferenze che provocano, a individuare i nemici e le faticose risposte di gruppi sociali e gruppi politici o intellettuali, a indicarne i prodotti non indegni, le riflessioni necessarie e soprattutto attive, non è stato sempre facile. Abbiamo avuto i nostri momenti di sconforto e i nostri momenti di rabbia, e abbiamo sempre reagito con una certa fermezza, guidati dalla persuasione di fare una cosa piccola ma utile per noi stessi e per i nostri quattro lettori.
Quattro, appunto. La nostra decisione nasce dalla constatazione che i nostri lettori sono più o meno sempre gli stessi, generoso e costante è il dialogo con loro che ci ha sostenuto in questi anni e ci ha spinti a continuare. Ce ne sono probabilmente tra di loro che ci usano come una sorta di cibo genuino, di consumo alternativo da “tribù dei lettori”, e siamo grati anche a loro del loro sostegno anche se abbiamo sempre preferito i più reattivi, quelli che, in qualche modo, sanno meglio tramutare le letture (le idee) in comportamenti e in azioni. Ma non sono sufficienti i nuovi lettori, forse per il motivo, bene individuato da un nostro scrittore molti anni fa, che “i giovani che scrivono si fanno una cultura leggendo i propri articoli”, ed è anche per questo che la risonanza delle nostre posizioni è minima, e incide ben poco sull’andamento della società e della cultura italiane. Ci rendiamo ovviamente conto che questo non è un problema solo nostro, ma di tutta una società, dove si consumano tante idee mentre le azioni sono poche, anche in confronto con le società che ci sono vicine… I media dominanti svolgono quasi tutti una funzione servile, gridano una indipendenza menzognera, sono parte di un meccanismo già scritto e servono un potere nelle sue varie facce, o servono a distrarre con l’abuso della chiacchiera consumistica, sempre aggiornatissima.
Il gioco non vale la candela, e alla fine ci si stanca della fatica di realizzare un prodotto decoroso e soprattutto utile; utile per chi, visto che l’idea dell’utile che hanno i leggenti-e-scriventi italiani è così diversa dalla nostra? Rivendichiamo, come sempre abbiamo fatto, la nostra fedeltà a un’idea di rivista che aiutasse noi, e i collaboratori, e i lettori, a capire la nostra società e questo tempo e questo mondo e ad agirvi con onestà e coerenza secondo principi chiari, senza megalomanie e narcisismi, senza esser supini a nessun dio, e aborrendo carrierismi e riconoscimenti perversi, con le sole incertezze originate dalla difficoltà di riuscire a capire il nuovo e le sue direzioni, i suoi effetti a breve e lunga scadenza, e a scegliere al suo interno quanto si muove nella direzione del giusto e non dell’ingiusto e del manipolato, non del superficiale e del transitorio. Ce la siamo cavata da soli, senza aiuti di sorta, grazie alla generosità di un piccolo editore amico e al contributo assolutamente gratuito di tanti collaboratori, di tanti amici. E in un’epoca in cui le riviste languono e in cui dominano i blog con il loro narcisismo (le eccezioni sono rare e fragili) e in cui le riviste “importanti” che sopravvivono sono schierate nel racconto difesa-accettazione del mondo così com’è e protette da sponsor dell’area dei potenti, essere riusciti a realizzare 200 numeri per quasi altrettanti fascicoli densi di idee e riflessioni (e di poesia) forse non è poco, e possiamo chiudere il nostro consuntivo abbastanza soddisfatti di quel che siamo riusciti a fare, e anzi con un certo orgoglio. Da organo di una minoranza informale e decorosa – minoranza sempre, ma attiva, e coerente e avvertita, curiosa e amante del mondo e bensì indignata dalle sue ingiustizie.
“Lo straniero” chiuderà con il numero doppio di fine anno e con un ultimo numero speciale la sua storia non breve. Chi intende abbonarsi ora è pregato di rinunciare. Chi ha abbonamenti in corso che non scadranno prima della fine dell’anno verrà rimborsato con splendidi libri della casa editrice Contrasto, che ci ha sostenuto in questi anni (ed era disposta a continuare a farlo). Forse (forse) altre iniziative editoriali nasceranno da questa morte, delle quali avvertiremo i nostri abbonati. Che ringraziamo di vero cuore per la fiducia che ci hanno dimostrato in questi venti anni più torbidi che allegri.
Buona fortuna a voi e buona fortuna anche a noi.
Fonte [lostraniero.net]
“Umanizzare il copyright” di Fabio Macaluso
Umanizzare il copyright – http://improntedigitali.blogautore.espresso.repubblica.it/2015/07/26/umanizzare-il-copyright/
Eco E Calvino, Destini Incrociati
di PAOLO MAURI
Come in un “castello dei destini incrociati” l’Università di Toronto ha organizzato l’anno scorso un convegno intitolato «Tra Eco e Calvino» di cui ora escono gli atti con l’insegna “Relazioni rizomatiche”: insomma un’esplorazione delle radici evidenti e nascoste comuni ai due scrittori. Ne nasce un percorso articolato che Eco apre rivelando la sua predilezione antica per Il barone rampante letto nel 1957, quando aveva venticinque anni. Calvino aveva preso spunto da una storia raccontata dallo scultore Salvatore Scarpitta, che un bel giorno era salito su un albero e aveva deciso di rimanerci il più a lungo possibile. Se la storia di Scarpitta l’avesse presa in carico uno scrittore alla Mark Twain sarebbe rimasta fortemente americana, in sostanza la bravata di un ragazzo che stabilisce i suoi primati nel giardino di casa, invece Calvino l’aveva retrodatata al Settecento e legata all’Illuminismo, facendo di Cosimo un filosofo che cambia la prospettiva da cui guar- dare il mondo. È proprio quest’aspetto, insieme alla lingua cristallina di Calvino, ad affascinare il giovane Eco, che presto Calvino avrebbe incoraggiato a scrivere Opera aperta. Lo scopo del convegno, avverte il coordinatore Rocco Capozzi nella sua introduzione, «non è mai stato quello di voler dimostrare un Eco lettore di Calvino o viceversa… io partivo dall’idea di mettere a confronto l’intelligenza creativa che si manifesta nelle loro pratiche di lettura e scrittura». E, possiamo aggiungere, anche di traduzione. Renato Giovannoli documenta la precoce penetrazione di Borges nei dintorni del 1960 presso Sciascia, Eco e Calvino con la probabile aggiunta di Buzzati. Il punto di partenza è la traduzione di Ficcionescon il titolo La biblioteca di Babele nel numero 43 dei Gettoni di Vittorini. Siamo nel 1955. È probabile che Sergio Solmi avesse letto il libro in francese (era uscito da Gallimard nel ’51) e lo avesse consigliato a Einaudi per la traduzione italiana affidata a Franco Lucentini. Eco stesso ha ricordato di aver avuto da Solmi il consiglio di leggere quel libro una sera in piazza Duomo a Milano nel ’56 o ’57. Einaudi, aveva aggiunto Solmi, ne ha venduto meno di cinquecento copie. Sono gli anni in cui matura il Diario minimo dove Eco sviluppa il gusto per la parodia e l’invenzione bibliografica, giocando con strumenti critici molto raffinati per commentare magari i versi delle canzonette. Gli fa da guida ideale il Pierre Menard di Borges che riscrive alcune parti del Don Chisciotte esattamente come le ha scritte Cervantes. Quanto a Calvino, Giovannoli propone come primo riferimento borgesiano il saggio La sfida al labirinto che è del 1962, ma come potrà vedere chi leggerà l’intero e godibilissimo saggio, sia per Eco che per Calvino il rapporto con Borges e le sue biblioteche infinite e la sua predilezione per il fantastico e il combinatorio è piuttosto fitto e disteso negli anni. Ed è curioso che sia uno scrittore spesso definito reazionario a servire da guida in anni fortemente segnati dall’impegno politico e dai sensi di colpa. Eco e Calvino si incontrano ancora in uno snodo cruciale: la traduzione di Queneau. Se ne occupa Stefano Bartezzaghi in una relazione intitolata «Esercizi blu e Fiori di stile» che incrocia due celebri titoli di Queneau. Il tema di fondo è la traduzione del calembour, un gioco di parole di fronte al quale spesso chi traduce si arrende ricorrendo alla formula “gioco di parole intraducibile”. Calvino, lo confida a Franco Quadri in una lettera del 1965, avrebbe voluto leggere il testo con accanto una persona francese, magari lo stesso signor Queneau… Tradurre Queneau è un gioco di alto livello e una sfida: non sempre è possibile arrivare a una soluzione perfetta. Eco, che traduce gli Esercizi di stile, si pone il problema di essere fedele al testo che non vuol dire essere letterali: «Fedeltà significava capire le regole del gioco, rispettarle, e poi giocare una nuova partita con lo stesso numero di mosse». Così come aveva aperto il convegno (ricco di interventi che qui non posso nemmeno citare) Eco chiude con una serie di osservazioni e con una confessione. «A me non interessa nulla di me stesso. Per questo sono sempre restato estraneo alla psicoanalisi. Invece di spendere soldi dallo psicanalista per capire chi sono ne guadagno scrivendo romanzi in cui racconto chi sono gli altri». Un bel labirinto, direbbe Borges.